Le foto di Giovanni Lindo Ferretti su DUST
Una rivista di moda e cultura lo ha vestito di Gucci per ricostruire la storia di "Affabulazione" di Pier Paolo Pasolini
Giovanni Lindo Ferretti, cantautore e scrittore famoso soprattutto come leader delle band CCCP e CSI, ha posato per l’ultimo numero della rivista DUST con una serie fotografica a metà tra arte e moda, ispirata liberamente alla pièce teatrale Affabulazione di Pier Paolo Pasolini.
DUST è un bimestrale internazionale con base a Berlino, creato e diretto da una redazione tutta italiana, e si descrive come “A European magazine about fashion and its opposites”. La storia di copertina dell’ultimo numero è stata realizzata in collaborazione con Gucci, e ha come modello Giovanni Lindo Ferretti insieme a Silvia Calderoni, attrice della compagnia teatrale Motus: Pasolini, spiegano gli autori di DUST, è stato scelto per affrontare “un tema attuale, lo scontro generazionale tra le colpe dei padri e la forza dei figli, che spesso si traduce nella sopraffazione sociale e politica delle vecchie generazioni sulle nuove”.
La storia di Affabulazione è quella di un padre borghese che si scopre profondamente turbato dalla vitale giovinezza del figlio, desiderata e allo stesso tempo avversata, che lo trascinerà in una successione di fabbricazioni, redenzioni e rivincite, il cui risultato, ribaltando il mito di Edipo, è l’uccisione del figlio da parte del padre: la voce di Sofocle, come un monito prima della tragedia avverte il padre che suo figlio non è un enigma da risolvere con la ragione ma un mistero a cui arrendersi.
Giovanni Lindo Ferretti, spiegano a DUST, “è stato scelto come figura da omaggiare e presentare al pubblico internazionale, un raro poeta italiano, pasoliniano nell’indole, controverso, unico e vitale, ritratto su questa copertina nell’atto di un’umile preghiera, scalzo e inginocchiato, un modo di pregare tanto cristiano quanto musulmano, o più semplicemente un modo profondamente umano di prostrarsi dinnanzi al proprio mistero”. La moda è presente nel progetto e nelle foto con gli abiti di Alessandro Michele per Gucci. Le foto sono state fatte durante una visita di tre giorni a Cerreto, sugli Appennini emiliani, nella casa dove Giovanni Lindo Ferretti vive ed è cresciuto, nelle stalle della sua fondazione e a Chia, vicino Viterbo, intorno alla torretta del 1200 che Pasolini acquistò negli ultimi anni prima della sua morte facendone il suo luogo di ritiro. Il tema generazionale è al centro anche dell’intervista a Ferretti di Luigi Vitali pubblicata insieme alle foto.
Ogni generazione ha a che fare con una sua forma di resistenza. Resistere allo stato delle cose, resistere dall’essere esclusi dalle decisioni, resistere per dare al mondo una propria direzione. Guardando indietro che senso ha avuto il concetto di resistenza per la tua generazione?
Faccio parte di una generazione che é stata profondamente marcata dalla dimensione politica. Per una persona che è stata adolescente, in Italia, alla fine degli anni sessanta e poi giovane negli anni settanta era decisivo il pensiero che fosse la lotta politica a determinare la vita. Siamo stati marchiati dall’idea della politica come impegno salvifico per poi scoprire, con il tempo, che ridurre a dimensione politica la complessità del vivere è un grave errore, non ci ha portato da nessuna parte. È una porta chiusa. Una stagione sfociata nel terrorismo e nell’eroina, questa è stata la mia generazione.Certo, la politica ha un senso, siamo animali sociali, civili, abbiamo bisogno di costituirci in comunità, organizzare ed equilibrare la società ma il nostro approccio è risultato devastante.
Negli anni della tua gioventù facevi parte di Lotta Continua. Gruppo di sinistra rivoluzionaria extra-parlamentare, in un clima che, proprio in queste zone di Reggio Emilia ha visto la nascita delle ‘Brigate Rosse’. All’epoca da una parte o dall’altra era facile per chiunque avesse una passione politica abbracciare posizioni radicali quasi al limite con la violenza.
L’unica mitologia dell’Italia moderna è “la Resistenza” al nazi-fascismo, all’invasore, negli ultimi anni della guerra. È una mitologia della quale, nei decenni successivi, si é abusato da un punto di vista politico ed ideologico.
Pasolini é una figura centrale di questo periodo, una figura provocatoria e contraddittoria e proprio in questo rifulge la forza del suo pensiero. Un intellettuale scomodo a tutti, dichiaratamente legato al PCI ma suo fratello, giovane partigiano, era stato ucciso dai comunisti, lui è stato radiato dal partito per atti osceni e nell’ultima poesia pubblicata prima di morire si rivolge ad un giovane di destra, a lui affida le sue raccomandazioni. Non è una costruzione ideologica, la sua, è pulsione vitale, è lo sforzo incessante di un libero pensiero in uno scenario che sta profondamente mutando la stessa dimensione antropologica dell’uomo.
Nel momento in cui la mia generazione ha scoperto la rivolta di piazza come forma della militanza politica Pasolini ha scritto una poesia contro i contestatori, i giovani rivoluzionari e capelloni, schierandosi dalla parte dei poliziotti, identificati come i veri figli del popolo.
C’era una forza dirompente nelle sue parole, facevano arrabbiare ma eri obbligato ad ascoltarle.
Pasolini é l’unico intellettuale che poggia ben saldo un piede nel passato e un piede nel futuro.
Una delle sue poesie più belle recita: Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore…. mi aggiro più moderno di ogni moderno. Quanti altri intellettuali suoi contemporanei, che hanno riflettuto sull’ideologia, sulla carne e sull’anima, sulla realtà del vivere, si fanno ancora leggere oggi con interesse?
Proprio nella stagione dei grandi movimenti studenteschi e di contestazione Pasolini scrive: “Preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l’unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: tutti i valori che sono stati valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente”
Esiste il passato, il presente e il futuro. Il futuro non lo possediamo e non possederemmo nemmeno il presente se non possedessimo il passato. Saremmo perfetti consumatori dell’immediato in balia di ogni forza che si muove intorno a noi. Chi abolisce il passato cancella la memoria, l’esperienza dell’uomo sulla terra. Tutto quello che è successo prima di noi e non è successo invano va a comporre il corpo della tradizione, l’unico spazio di conoscenza in cui ci si può muovere in libertà e coscienza. La tradizione è una necessità anche nella sua dimensione di negatività.
La serie fotografica su cui stiamo lavorando e che ci ha portato qui da te, è ispirata proprio dalla piece teatrale, Affubulazione di Pasolini, nella quale é affrontato il discorso del rapporto conflittuale padre/figli. Il mistero della giovinezza del figlio non può essere compresa dal padre, che la brama ma allo stesso tempo lo inquieta, finché in un ribaltamento della tragedia edipica, il padre uccide il figlio. Ritorna qui il discorso generazionale pasoliniano delle colpe dei padri che ricadono sui figli. Quali sono secondo te le colpe che ricadono sulla generazione di oggi?
Ai giovani di queste ultime generazioni non è nemmeno concesso sperimentare il conformismo dei giovani ribelli, come lo chiamava Pasolini. Non è colpa dei figli è colpa dei padri. Sono molto più preoccupanti le mancanze dei padri delle mancanze dei figli ma la non esistenza dei padri, l’aver rinunciato ad esercitare l’autorità paterna, è senza dubbio la colpa più grande. Il vuoto di valori familiari e civili è l’ambito in cui muovono le nuove generazioni. Ci vuole sicuramente più determinazione per resistere al vuoto
Nel momento del distacco adolescenziale è doveroso sperimentare la ribellione. Non puoi costruirti senza recidere il legame con la famiglia, con l’infanzia. Nasci come carne, non dipende da te, e poi ad un certo punto devi nascere come spirito. È uno sforzo e cresce preferibilmente su un gesto di ribellione. È difficile ribellarsi al vuoto, al niente. Tutto ora pretende di essere garantito, tutto è già stato pensato, certi di quello che serve, ma c’è un momento in cui bisogna dire: – No -. Un No che dovrebbe far tremare il mondo. La differenza tra restare larva o schiudersi e poter volare via. Ci sarà tempo e modo di ricadere a terra, misurarsi con la realtà, accettarne i limiti.
Possiamo dire che il tuo dire ‘No’ ti ha portato dopo la stagione di attivismo politico a Berlino. Era il 1982, un anno importante, dove ha avuto inizio il tuo percorso musicale. Cosa ti é rimasto di quella esperienza di confine?
Berlino ha rappresentato il passaggio cruciale della mia vita. Ci sono arrivato, la prima volta, quando ho capito che l’impegno politico non poteva essere la soluzione della mia vita e dovevo colmare il vuoto stagnante sui miei giorni. Sono andato a Berlino perché volevo cambiare la mia esistenza.
All’epoca facevo, da cinque anni, l’operatore psichiatrico, un lavoro in cui mi sono imbattuto per caso anche se preferisco pensarlo come destino. Nella mia vita mi pare non succeda mai niente per caso. Occuparmi del disagio psichiatrico era qualcosa di significativo, aveva una valenza politica e sociale, mi ha aiutato a crescere mettendomi a contatto con il dolore senza soluzione, la dimensione tragica del vivere. Quando ho capito che non avrei potuto continuare, era in gioco la mia salute fisica e mentale, mi sono licenziato e leggendo un articolo sulla stampa alternativa che parlava della scena punk europea ho deciso di partire in autostop per Berlino. Pensavo fosse sul confine tra la Germania dell’ovest e quella dell’est, ben posizionata sulla cortina di ferro tra l’Europa e l’URSS, non avevo idea che fosse una sorta di sacca nella DDR, una prigione a cielo aperto. Ho potuto sperimentare quanto la realtà fosse molto molto diversa da come me la rappresentavo ideologicamente. A Berlino ho conosciuto Massimo Zamboni, sono nati i CCCP, in una Berlino impossibile, ora, anche solo immaginare. Un bagno di realtà è quello che salva le vite degli uomini, permette loro di essere contraddittori e cambiare, ritrovare uno sguardo nuovo e antico sulle cose.
Come hai detto, la tua é stata una generazione compressa tra due poli, la lotta politica e terrorismo da una parte e il problema dell’eroina dall’altra. Una generazione per la quale spingersi agli estremi faceva parte della propria forma mentis. La generazione di oggi é invece spesso descritta come una generazione ‘apolitica’ ‘tiepida’ assorbita in se stessa, prodotto di un mondo che si fa accettare facilmente. Quanto diversamente queste due generazioni hanno sperimentato l’esperienza giovanile?
La fortuna della mia generazione è stata l’essere costretta entro limiti rigidi, limiti politici sociali familiari e culturali che non ci hanno dato scelta se non quella di ribellarci e, in questo, sperimentare le nostre capacità, la nostra volontà, i nostri sogni. Le ultime generazioni, al contrario, non conoscono limiti.
Se il nostro sfogo erano le barricate, lo sfogo di questa generazione è lo spazio virtuale. Dal mio punto di vista un impoverimento sostanziale. Paradossalmente l’essere malmenati dai poliziotti durante una manifestazione è pur sempre un’esperienza vitale, ti obbliga a fare conti seri, schiacciare un click per condividere una delle centomila cose che succedono nel mondo è un esperienza insignificante, ti snerva, toglie vitalità.
Se c’è un valore a cui la società nella quale viviamo ci espone continuamente é ‘Si te stesso’ ‘Sii libero di scegliere quello che piace’. Forse però dovremmo chiederci quali strumenti davvero ci vengono dati per capire cosa vuol dire ‘essere se stessi’
Essere se stessi è un tracciato inimmaginabile a priori, non corrisponde a quello che decide la tua famiglia, che decide per te la società o peggio un algoritmo. Se questo fosse vero la vita non sarebbe un mistero ma neanche un enigma, sarebbe nulla. La messa in scena di un copione abusato.
In Affabulazione il gioco è tra l’enigma, che la ragione può risolvere, e il mistero a cui bisogna arrendersi. Per le nuove generazioni non c’è enigma, non c’è mistero, non è dato il senso del tragico, non è concesso sperimentare la meraviglia. Ma la vita non é ovvia e in fondo al cuore c’é sempre qualcosa che non torna.
Possiamo dire che questo qualcosa che non torna ti ha portato a riscoprire i valori a cui ti eri chiaramente opposto negli anni della tua formazione. Primo fra tutti a essere messo in discussione insieme al comunismo e stata l’idea di ateismo. L’essere atei é spesso una reazione sociale culturale per affermare una propria libertà, una posizione che forse ingenuamente non possiede un vocabolario per parlare del nostro ruolo all’interno di qualcosa più grande di noi, di universale. Come vedi ora il tuo ateismo giovanile?
Il mio ateismo è stato doveroso e necessario nella fase adolescenziale. Ritrovare la religione in cui sono cresciuto, in cui sono stato educato, ha significato ricollegarmi a tutto il “non invano” che mi ha preceduto. Per essere atei ci vuole una fede infinita, molta di più di quella che serve per essere credenti. Credere ti permette di percepire il mistero mentre non credere ti obbliga a risolvere ogni enigma ma ci sono enigmi che non sono risolvibili perché sono misteri. Il mistero più grande è il mistero di vivere: aprire gli occhi ed essere uomo, avere una madre, proprio lei, non un’altra. Un padre. Di quello che c’é prima non sapere niente e di tutto quello che ci sarà dopo non sapere niente. L’ateismo è una dichiarazione di autosufficienza che non trova riscontro nei fatti.
Il problema di un ateo non è l’esistenza di Dio ma la sopravvalutazione di se stesso. Accettare la vita come un mistero significa lasciare uno spazio per qualcosa di altro che non è definibile ma percepibile. Vivendo ho dovuto accettare che non posseggo soluzione di alcunché. Una delle parabole del Vangelo che più mi hanno accompagnato nel crescere è quella del “figliol prodigo” che abbandona la casa paterna per godersi la vita, costruirsi il proprio destino ma fallisce, sperimenta la propria miseria e decide di tornare a casa. Il padre prepara per lui la festa più grande. È una parabola duplice. Non c’è solo il figlio prodigo ma anche il bravo figlio che non ha mai abbandonato la casa paterna e si sente non apprezzato dal padre. Non c’è soluzione al mistero del vivere se non vivere.
La tua più di una storia fatta di rinnegamenti, sembra quella del tuo essere fedele a te stesso e al tuo sentire
Sono nato e cresciuto in un contesto tradizionale, un piccolo borgo di montagna, sono stato un bimbo felice perché avevo tutto l’affetto che mi serviva e tutto intorno a me era meraviglia. Da bambini si può vivere in sintonia con il mistero. Poi viene un momento, quello dell’adolescenza, in cui bisogna distaccarsi per dar forma a sé, è un momento fondamentale. Non siamo i primi sulla terra e non saremo gli ultimi, tutti coloro che si permettono di sperimentare la condizione umana lo fanno negli stessi termini facendo cose molto diverse.
È stupefacente leggere le poesie greche o latine e percepire che non è cambiato niente nel cuore dell’uomo, se non quello che abbiamo dimenticato. Abbiamo aggiunto poco, molto meno di ciò che pensiamo e vorremmo. In questo Pasolini è un grande maestro della modernità. L’unico a percepirne carnalmente lo sgretolamento, e ad aprire gli occhi sul dopo-storia. Quel dopo storia che oggi noi sperimentiamo come quotidianità ed è determinato da tre parole nuove: connessione, virtualità, intelligenza artificiale. Anche per questo io vivo qui, tra i monti dell’Appennino. Fedele alla storia e alla geografia di un destino.
Tornare a vivere in montagna è parte della tua critica alla modernità. Cosa hai capito della libertà vivendo qui?
Il contemporaneo procede per sradicamento ed ha un impatto devastante perché ciò che è sradicato può solo sradicare. Un essere a sé, senza famiglia, senza patria, senza storia, per essere perfetti consumatori. Nient’altro. E anche se siamo tutti consumatori non siamo solo consumatori, tutti conosciamo il piacere sessuale ma non siamo solo piacere sessuale, tutti dobbiamo mangiare ma non siamo il mangiare. Tutti ci ammaliamo ma non siamo malattia. Vivere vuol dire governare la complessità, e la complessità cresce in modo esponenziale semplicemente vivendo. Il bambino nasce con pochissimi bisogni. La vita è facile: un capezzolo da succhiare, qualcuno che ti pulisca e ti accarezzi. Poi le necessità cominciano a crescere, a complicarsi, diventano contraddittorie e bisogna scegliere. Non si può avere tutto. Le necessità materiali sono basilari, ridottissime rispetto a quello che la modernità reputa indispensabili. La libertà non è riducibile a una soddisfazione immediata. È una radice profonda, una disciplina, va conservata, protetta e difesa.
Questa sicuramente è la generazione più libera, ma allo stesso tempo forse quella che meno si é interrogata sul significato di libertà.
Si è perso il rapporto tra le generazioni, con la storia, ognuno vive a sé. Come se niente ci fosse stato prima, come se la vita fosse la materializzazione quotidiana delle proprie voglie. Io, nella mia vecchiaia, vivo e lavoro con i cavalli, sono un motivo di riflessione che mi affascina e continua a stupirmi per la ricchezza di problematiche che coinvolge. Può sembrare ridicolo o patetico, è un’impresa economicamente fallimentare, culturalmente sembra senza senso ma non vorrei fare nient’altro. È una disciplina quotidiana che stimola una riflessione sul passato e obbliga a reinventare il presente ogni giorno.
Visualizzo la storia dell’umanità come una grande frattura: ci sono delle civiltà che si sono sviluppare avendo a disposizione i cavalli e ci sono delle civiltà che sono cresciute sulla terra non avendo a disposizione i cavalli. Per l’uomo primitivo montare a cavallo è stato atto di potenza, ha accresciuto enormemente le sue capacità, tanto nel bene quanto nel male. Il cavallo non è, nella storia dell’uomo, un animale qualsiasi è l’animale che ha fatto la differenza e oggi si ritrova ad essere un animale inutile, destinato all’estinzione, perché il cavallo/vapore che ha determinato la prima industrializzazione ha abolito il cavallo reale. Come l’intelligenza artificiale potrebbe fare con l’intelligenza umana. Si comincia ad intravedere un mondo in cui certe sfumature dell’umano diventano inutili. Obsolete.
Il mio sguardo si specchia ora nello sguardo dei cavalli, è questa la mia personale resistenza.
Tornando a parlare di ricerca spirituale, possiamo dire che l’approccio della nuova generazione si adatta più ad un percorso individuale, dove le molte strade per indagare la verità possono coesistere, piuttosto che confluire in un unico pensiero religioso. Tu hai riabbracciato il cristianesimo negli ultimi anni, una religione che vista con occhio critico si è dovuta sviluppare come strumento di organizzazione e controllo sociale e per questo ha continuamente interposto dei filtri tra il fedele e la verità. Oltre al senso di tradizione, di passato, di eredità generazionale, oltre ad essere un porto sicuro, come può il cristianesimo essere una strada percorribile per chi cerca la verità oggi?
Il cristianesimo o è un mistero di salvezza o è una truffa moralistica e sentimentale. La religione non può essere ridotta ad un bene di consumo, non c’é il supermarket delle religioni dove si va ad acquistare secondo necessità. É una fatica, un processo, una quotidianità. Il miracolo della grazia.
Se io fossi nato in Tibet sarei un buddista, mi risulta difficile immaginare il contrario, e se fossi nato in un paese arabo sarei mussulmano, è qualcosa che va al di là della volontà, c’é una tradizione in cui si cresce e le altre tradizioni dovrebbero servire ad approfondire la propria più che a passare da una all’altra. C’é stato un periodo in cui pensavo che tutto fosse meglio del cristianesimo e quindi sono stato affascinato dall’Islam, poi dal buddismo, persino dal paganesimo.
L’essere cristiano mi permette di riconoscere con grande semplicità le mie miserie e offrirle per quello che sono, in una economia di salvezza determinata da un sacrificio perfetto, morte e resurrezione. Questo é il cuore del messaggio cristiano e in questo c’é una differenza inverosimile ed incolmabile con le altre religioni.
È anche una condizione psicologica di ritorno alla certezza della propria tradizione?
Non so immaginarmi diversamente: la mia famiglia, la mia casa, il mio paese, la mia piccola patria sono fondamenta della mia vita. Se non avessi avuto queste cose la mia vita sarebbe già finita molte volte e in malo modo. Questo è quello che mi ha salvato. Oltre a essere me stesso sono parte di una storia che va molto al di la di me.
Ognuno di noi può far finta di essere altro da sé ma la tua storia è la tua storia, non puoi sfuggirle.
Volenti o nolenti possiamo dire che ogni nostro sforzo nasconde un desiderio di radicamento
Lo sradicamento è la vera piaga sociale di questo tempo, lo sradicamento di masse e di singoli, diseredati dalla propria storia e dalla possibilità di trovare una ragione alla propria esistenza.
Forse allora è meglio dire che ogni sforzo nasconde sopratutto il desiderio di incontrare il proprio destino
Avere un destino, scoprire il proprio destino, seguirlo, costruisce un contesto vitale in cui, a posteriori, le cose trovano una giustificazione e un senso. Non è necessario che il proprio destino abbia valenze pubbliche, può rifulgere in un contesto squisitamente privato.
Avrei potuto essere molto altro, molto diverso, invece no, sono questo.
Ho una voce che, in qualche modo, mi possiede, è il mio destino? Non ho mai pensato, mai desiderato essere un cantante, è successo. C’è un aneddoto che non finisce di stupirmi: quando ero bimbo un sacerdote, in odor di beatitudine, disse a mia madre alla fine della recita natalizia – male che vada ne faremo un cantante – È un ricordo comparso d’improvviso mentre stava finendo la storia dei CCCP e mi ha lasciato sbalordito. Ora, a questo punto della vita, che è andata male possiamo darlo per assodato e sono diventato un cantante ma la vita è e resta affascinante, un vero e proprio mistero che contiene il tragico e contempla la meraviglia.
Credo che, alla fine, dovremo renderne conto.