L’assedio di Masada è un mito?

La storia del suicidio collettivo degli ebrei che resistevano ai Romani è molto celebrata da Israele, ma piuttosto dubbia

I resti della fortezza di Masada (MENAHEM KAHANA/AFP/Getty Images)
I resti della fortezza di Masada (MENAHEM KAHANA/AFP/Getty Images)

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è arrivato stamattina in Israele: tra le tappe ufficiali del suo viaggio c’era inizialmente anche Masada, antica fortezza a sud-est di Gerusalemme, meta di pellegrinaggio e simbolo, per gli ebrei, dell’ultima eroica resistenza contro i Romani nel I secolo a.c. La visita a Masada è stata poi annullata per motivi di logistica, ma Trump non è l’unico leader ad avere avuto un’idea simile: in passato già Bill Clinton e George W. Bush hanno visitato il sito, e i politici israeliani lo fanno da decenni. La visita programmata da Trump ha dato ad Haaretz l’occasione per raccontare la storia dell’assedio della fortezza e del suicidio collettivo che secondo alcune fonti e racconti popolari avvenne lì dentro nel 73 d.C., spiegando però che gli studi archeologici sono molto cauti nel confermare il resoconto tramandato intorno a quel mitico episodio molto celebrato da Israele. Diversi studiosi, anzi, lo negano.

Israel: Judean Desert - Fortification Masada(Masada – Sandra Demmelhuber/picture-alliance/dpa/AP Images)

Masada si trova su un ripido sperone di roccia che culmina in un altopiano a circa 400 metri di altitudine e a circa 100 chilometri a sud-est di Gerusalemme, nella Palestina sudorientale. La fortezza venne costruita nei primi anni di regno di Erode il Grande, re della Giudea sotto il protettorato romano dal 37 a.c.: era circondata da mura lungo un perimetro di un chilometro e mezzo e da decine di torri alte più di venti metri. Il luogo era difficilmente raggiungibile oltre che per le fortificazioni, anche per l’accesso: l’unico punto possibile, infatti, era il cosiddetto “sentiero del serpente”, passaggio stretto, impervio e tortuoso. Le fonti raccontano che nel 66 d.C., anno di inizio della prima guerra giudaica combattuta tra l’esercito romano guidato dal futuro imperatore Vespasiano e gli ebrei ribelli, Masada venne conquistata dai Sicarii, fazione estremista degli Zeloti, sostenitori dell’indipendenza politica del regno di Giudea e ostili all’Impero romano.

Dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., a Masada si rifugiarono anche gli ultimi ribelli guidati dal condottiero zelota Eleazar ben Yair. Tutto il resto del paese era stato sottomesso tranne quell’unica fortezza e cominciò dunque l’assedio di Masada da parte del comandante Lucio Flavio Silva, ma quando i Romani riuscirono a entrare nella fortezza – secondo la tradizione – trovarono gli assediati morti: si erano suicidati collettivamente.

Israel: Judean Desert - Fortification Masada

(Masada – Sandra Demmelhuber/picture-alliance/dpa/AP Images)

L’unica fonte che gli storici considerano attendibile sulla prima guerra giudaica è Flavio Giuseppe, scrittore, storico, politico e militare romano di origine ebraica che nel 66 d.C. fu governatore militare della Galilea per le forze ribelli. Nella sua Guerra giudaica Flavio Giuseppe racconta lo svolgersi della rivolta contro i Romani scoppiata nel 66, l’assedio di Masada e la decisione dei Sicarii guidati da Eleazar di morire piuttosto che diventare schiavi:

«Ma né Eleazar meditava di fuggire, né avrebbe permesso di farlo ad alcuno dei suoi. Vedendo il muro rovinato dal fuoco, non scorgendo più nessun’altra possibilità di scampo o di eroica resistenza, immaginandosi quello che i romani, una volta vincitori, avrebbero fatto a loro, ai figli e alle mogli, deliberò la morte per tutti.

Persuaso che in simili circostanze fosse questa la risoluzione migliore, raccolse i più animosi fra i suoi uomini e prese a spronarli con tali parole: “Da gran tempo noi avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del Dio, perché egli solo è il vero e giusto signore degli uomini; ed ecco che ora è arrivato il momento di confermare con i fatti quei propositi. In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna, noi che prima non ci siamo piegati nemmeno a una servitù che non comportava pericoli, e che ora assieme alla schiavitù ci attireremo i più terribili castighi se cadremo vivi nelle mani dei romani. Siamo stati i primi, infatti, a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. Credo poi che sia una grazia concessaci dal Dio questa di poter morire con onore e in libertà, mentre ciò non fu possibile ad altri, che furono vinti inaspettatamente. Per noi invece è certo che domani cadremo in mano al nemico, e possiamo liberamente scegliere di fare una morte onorata insieme con le persone che più ci sono care. Né possono impedirlo i nemici, che pur vorrebbero a qualunque costo prenderci vivi, né possiamo noi ormai superarli in battaglia».

I Sicarii presenti, racconta Flavio Giuseppe, diedero ascolto al loro capo e iniziò il suicidio collettivo, descritto in modo dettagliato:

«Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli e sollevavano tra le braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono a effetto il loro disegno, consolandosi di doverli uccidere al pensiero dei tormenti che quelli avrebbero sofferto se fossero caduti in mano dei nemici. Alla fine nessuno di loro non si rivelò all’altezza di un’impresa così coraggiosa, ma tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari: vittime di un miserando destino, cui trucidare di propria mano la moglie e i figli apparve il minore dei mali. Poi, non riuscendo più a sopportare lo strazio per ciò che avevano fatto, e pensando di recar offesa a quei morti se ancora per poco fossero sopravvissuti, fecero in tutta fretta un sol mucchio dei loro averi e vi appiccarono il fuoco; quindi, estratti a sorte dieci fra loro col compito di uccidere tutti gli altri, si distesero ciascuno accanto ai corpi della moglie e dei figli e, abbracciandoli, porsero senza esitare la gola agli incaricati di quel triste ufficio.

Costoro, dopo che li ebbero uccisi tutti senza deflettere dalla consegna, stabilirono di ricorrere al sorteggio anche fra loro: chi veniva designato doveva uccidere gli altri nove e per ultimo sé stesso; tanta era presso tutti la scambievole fiducia che fra loro non vi sarebbe stata alcuna differenza nel dare e nel ricevere la morte. Alla fine i nove porsero la gola al compagno che, rimasto unico superstite, diede prima uno sguardo tutt’intorno a quella distesa di corpi, per vedere se fra tanta strage fosse ancora rimasto qualcuno bisognoso della sua mano; poi, quando fu certo che tutti erano morti, appiccò un grande incendio alla reggia e, raccogliendo le forze che gli restavano, si conficcò la spada nel corpo fino all’elsa stramazzando accanto ai suoi familiari.

Essi erano morti credendo di non lasciare ai romani nemmeno uno di loro vivo; invece una donna anziana e una seconda, che era parente di Eleazar e superava la maggior parte delle altre donne per senno ed educazione, si salvarono assieme a cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile mentre gli altri erano tutti intenti a consumare la strage: novecentosessanta furono le vittime, comprendendo nel numero anche le donne e i bambini, e la data dell’eccidio fu il quindici del mese di Xanthico.

I romani, che s’aspettavano di dover ancora combattere, verso l’alba si approntarono e, gettate delle passerelle per poter avanzare dai terrapieni, si lanciarono all’attacco. Non vedendo alcun nemico, ma dovunque una paurosa solitudine e poi dentro fiamme e silenzio, non riuscivano a capire che cosa fosse accaduto; alla fine levarono un grido, come quando si dà il segnale di tirar d’arco, per vedere se si faceva vivo qualcuno. Il grido fu udito dalle due donne che, risalite dal sottosuolo, spiegarono ai romani l’accaduto, e specialmente una riferì con precisione tutti i particolari sia del discorso sia dell’azione. Ma quelli non riuscivano a prestarle fede, increduli dinanzi a tanta forza d’animo; si adoperarono per domare l’incendio e, apertasi una via tra le fiamme, entrarono nella reggia. Quando furono di fronte alla distesa dei cadaveri, ciò che provarono non fu l’esultanza di aver annientato il nemico, ma l’ammirazione per il nobile proposito e per il disprezzo della morte con cui tanta moltitudine l’aveva messo in atto».

L’assedio di Masada è diventato uno dei miti fondativi di Israele: negli anni della formazione dello stato israeliano venne ripreso dagli intellettuali sionisti come simbolo della forza d’animo del popolo ebraico, e venne esplorato per la prima volta da spedizioni semi-clandestine dopo che era rimasto abbandonato per secoli. Gli scavi archeologici a Masada iniziarono negli anni Sessanta sotto la guida di Yigael Yadin, archeologo, militare ed ex vice-primo ministro, il quale ritenne che le testimonianze archeologiche provassero il racconto di Flavio Giuseppe. Oggi la fortezza è uno dei più importanti siti archeologici del paese, patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

Nonostante gli israeliani considerino vera la storia raccontata da Flavio Giuseppe, gli studiosi non sono tutti d’accordo, anzi: «La verità» scrive Haaretz «è che gli scavi di Yadin hanno fornito poco materiale archeologico per corroborare o negare il resoconto dell’assedio di Giuseppe. I reperti restano aperti all’interpretazione».

Per prima cosa, nonostante Flavio Giuseppe fosse uno storico, non dobbiamo pensare che l’accuratezza dei tempi in cui scrisse sia la stessa che usano gli storici moderni: come molti altri storici della tradizione greca o romana ricostruisce interi eventi o discorsi di importanti personaggi un po’ alla cieca, dato che ancora non esisteva un criterio scientifico di selezione delle fonti. Tutto quello che viene raccontato nella Guerra giudaica va quindi preso con le molle.

Nachman Ben-Yehuda, professore all’Università Ebraica di Gerusalemme nel dipartimento di Sociologia ed Antropologia, sostiene poi che gli archeologi guidati da Yadin fossero delusi da quanto poco avessero trovato per confermare le affermazioni di Flavio Giuseppe e che Yadin abbia modificato le sue conclusioni proprio per sostenere la versione dello storico. Tra i reperti ritrovati da Yadin a Masada c’erano pergamene, ceramiche, un sandalo, armi e monete che risalgono all’anno dell’assedio, dei corpi (ma ci arriviamo): tutte cose che provano che a quel tempo ci fosse un insediamento umano, ma che non dimostrano ciò che avvenne a Masada nel 73 d.C.

Anche Haim Goldfus, professore presso l’università israeliana Ben Gurion del Negev, mette in dubbio il fatto dell’assedio e del suicidio di massa, poiché non ci sarebbe alcuna prova di una battaglia né a sostegno della costruzione della rampa d’assedio utilizzata dai legionari di cui parla Flavio Giuseppe (o per lo meno di una rampa dell’altezza descritta da Flavio, cioè 125 metri): la rampa d’assedio era la struttura con la quale si raggiungeva l’altezza delle mura e su cui l’esercito romano posizionava le torri, le macchine da guerra e gli arieti. Goldfus dice che dai ritrovamenti nella zona dove i romani avrebbero dovuto sfondare le mura «abbiamo capito che non è successo niente».

rampa

(Quella che tradizionalmente viene identificata come la rampa d’assedio romana. Nella foto è vista dall’alto della fortezza di Masada – Wikipedia)

Gli scavi di Yadin hanno portato alla luce anche undici pezzi di ostraka – un termine greco che nel gergo dell’archeologia significa “frammento di ceramica” – usati per le estrazioni a sorte su cui sono iscritti dei nomi. Uno di questi è “Ben Yair”. Secondo Yadin e altri studiosi questi ostraka servirono per sorteggiare i Sicarii che avrebbero dovuto uccidere gli altri prima dell’arrivo dei Romani. Tuttavia, il racconto di Giuseppe dice che furono scelti dieci uomini, non undici. E l’esistenza stessa degli ostraka, dicono i critici, non spiega comunque il loro scopo: se come sostiene Yadin, servissero a decidere chi avrebbe ucciso per primo gli altri uomini, o se invece per qualcos’altro.

C’è infine un’ultima questione che non torna. Nonostante la stima di Flavio Giuseppe secondo cui a Masada morirono 967 persone, gli scavi hanno scoperto solamente 28 corpi e solo tre nel palazzo dove Giuseppe disse che si tenne il suicidio di massa. Yadin ha sostenuto che i resti fossero dei «difensori di Masada» e che i tre ritrovati insieme fossero quelli di una famiglia. Tuttavia, un antropologo della sua squadra stimò già allora che l’uomo era tra i 20 e i 22 anni, la donna era tra i 17 e i 18 anni, e il bambino tra gli 11 e i 12: mentre l’uomo e la donna avrebbero potuto essere una coppia, il bambino non avrebbe potuto essere loro figlio. Gli altri 25 corpi sono poi stati trovati nascosti in una grotta, luogo che non è menzionato nel racconto di Giuseppe, mentre i corpi di cui lui parla non sono di fatto presenti.

Secondo alcuni studiosi i corpi potrebbero essere dei Sicarii presenti a Masada, che si sarebbero però nascosti prima dell’arrivo dei Romani e poi uccisi: ancora una volta però non provano alcun suicidio di massa o la celebrata immolazione per evitare di cadere schiavi. Joseph Zias del Rockefeller Museum di Gerusalemme suggerisce poi un’altra possibilità. Crede che i resti dei corpi possano essere dei soldati romani morti durante l’assedio e questo combacerebbe con il fatto che nelle vicinanze siano state trovate anche delle ossa di suino, animale considerato impuro dagli ebrei. I resti umani ritrovati a Masada furono comunque sepolti dal governo israeliano nel 1969 con gli onori militari, ai piedi della fortezza.