L’Iran è una democrazia o una dittatura?
Si vota per scegliere il nuovo presidente in un paese difficile da incasellare, con un sistema istituzionale creato dopo la rivoluzione islamica e sopravvissuto fino a oggi
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
L’Iran è uno dei paesi con il sistema politico e istituzionale più strano al mondo. Non è facile trovare una definizione che lo descriva in maniera puntuale: non è una dittatura, perché prevede diversi centri di potere, alcuni dei quali elettivi; ma non è nemmeno una democrazia, perché i membri di diverse importanti istituzioni sono nominati e non eletti, e appartengono praticamente in toto allo schieramento politico e religioso più conservatore. L’Iran viene spesso definito una teocrazia islamica, perché così prevede la Costituzione e perché sono i religiosi a fare la politica; ma ci si dimentica che non tutti i politici iraniani sono religiosi. E quindi, cos’è l’Iran?
Non è facile rispondere a questa domanda. Semplificando si può dire che l’Iran è un misto di due sistemi istituzionali diversi, uno democratico e uno dittatoriale. Dalla rivoluzione del 1979, quando in Iran fu cacciato lo scià alleato degli Stati Uniti e fu istituito il governo dei religiosi guidato da Rohullah Khomeini, questi due sistemi istituzionali si sono scontrati, cercando di vincere l’uno sull’altro. Finora hanno praticamente sempre prevalso i conservatori più radicali, ma qualche parentesi più democratica c’è stata. Oggi le due cariche più importanti dell’Iran non appartengono allo stesso schieramento: Ali Khamenei, la Guida suprema, è un ultraconservatore, mentre Hassan Rouhani, il presidente della Repubblica, è un moderato. Proprio il nuovo presidente verrà eletto venerdì con un voto che si può definire democratico, anche se con molte limitazioni. Per capirci qualcosa in più si deve fare un passo indietro: capire cosa è stata la rivoluzione del 1979 e come gli ultimi decenni di storia del paese – quelli durante i quali l’Occidente ha considerato l’Iran un cosiddetto “stato canaglia” – abbiano contribuito a formare il sistema che c’è oggi, e gli equilibri che lo fanno stare in piedi.
Volete che il vecchio sistema sia sostituito con una Repubblica islamica?
L’1 febbraio 1979 l’ayatollah Rohullah Khomeini atterrò a Teheran, dopo anni di esilio in Francia. Khomeini era stato uno dei leader delle proteste contro lo scià, quelle che portarono alla rivoluzione: il suo messaggio era arrivato in Iran e si era diffuso grazie a delle videocassette mandate dalla Francia. Non era il religioso più autorevole dal punto di vista dottrinale, ma era certamente il più carismatico. Quel giorno ad aspettarlo all’aeroporto di Teheran c’erano centinaia di migliaia di persone.
L’arrivo – o meglio il ritorno – di Rohullah Khomeini a Teheran, dopo anni di esilio in Francia. Khomeini arrivò all’aeroporto della capitale iraniana l’1 febbraio 1979, il giorno che molti fanno coincidere con l’inizio della rivoluzione islamica, nonostante lo scià avesse già lasciato il paese (GABRIEL DUVAL/AFP/Getty Images)
Khomeini non era stato l’unico leader della rivoluzione, semplicemente perché la rivoluzione non era stata fatta solo dai religiosi: avevano partecipato anche i nazionalisti, i comunisti e molti studenti, che criticavano il precedente sistema governato dallo scià, le sue politiche fallimentari e la sua estesissima corruzione. Khomeini però si impose su tutti. Quasi due mesi dopo il suo ritorno a Teheran, alla fine di marzo, si tenne un referendum che chiedeva agli iraniani se volessero mantenere il sistema esistente o diventare una Repubblica islamica: vinse con il 98,2 per cento la seconda. Come ha osservato Max Fisher sul New York Times, fu di fatto un voto sulla rivoluzione, non sul sistema da adottare. Fu indetto un secondo referendum a dicembre di quell’anno per approvare una nuova Costituzione. Nei mesi che passarono tra il primo e il secondo voto, i religiosi si allearono con i nazionalisti per cercare di estromettere i comunisti, che erano il gruppo più potente tra i tre. Fu una scelta azzeccata.
Khomeini riuscì a marginalizzare i comunisti, e poi anche i nazionalisti. Impostò la nuova Costituzione attorno al concetto di velayat e-faqih, traducibile letteralmente come “governo del giureconsulto”, cioè un governo nel quale veniva riconosciuto il ruolo di guida del giurista islamico sulla comunità dei credenti. La nuova Costituzione trasformò formalmente l’Iran in una teocrazia islamica. Come ha scritto su Limes Nicola Pedde, esperto di Iran, la nuova Costituzione era stata pensata per sancire il ruolo centrale di Khomeini nel nuovo sistema, piuttosto che come impianto capace di reggere nel tempo.
Ma perché ci interessa tutto questo?
Perché quando gli iraniani votarono la nuova Costituzione, nel dicembre 1979, si trovarono di fronte a una proposta in un certo senso accettabile: il nuovo sistema era sì dominato da organi formati da religiosi e con a capo la potente Guida suprema, ma prevedeva anche istituzioni democratiche ed elettive, come il presidente della Repubblica e il Parlamento nazionale. Questo dualismo democrazia-autoritarismo arriva da lì, ed è quello che ancora oggi crea confusioni e incertezze.
Il dualismo tra dittatura e democrazia
Negli anni Ottanta il potere della Guida suprema si rafforzò parecchio: fu la guerra tra Iran e Iraq a trasformarlo. La guerra cominciò nel 1980, quando l’allora presidente iracheno Saddam Hussein invase l’Iran. Allora Khomeini – che si era insediato a Qom, la seconda città santa dell’Iran dopo Mashhad, invece che nella capitale – era ancora considerato un’autorità religiosa distante dal potere politico di Teheran. La guerra e la necessità di un leader forte cambiarono le cose e Khomeini divenne il capo indiscusso di tutto.
Nel 1989 Khomeini morì e in un certo senso i giochi si riaprirono. Negli anni successivi si consolidò un sistema che continua a stare in piedi anche oggi e che di fatto prevede che il regime iraniano sia diviso in due blocchi. Il primo, controllato dagli ultra-conservatori, fa capo alla Guida suprema; il secondo esprime il presidente della Repubblica e il governo e il suo orientamento dipende dal risultato delle elezioni. Quando il secondo è controllato dai moderati o dai riformisti – semplificando il centro e il centrosinistra – si sviluppano scontri e lotte tra uno e l’altro. Nel 1997, per esempio, le elezioni presidenziali furono vinte dal riformista Mohammad Khatami, nonostante gli sforzi della Guida suprema di indebolire la sua campagna elettorale. Khatami sostituì i capi dei potenti servizi segreti iraniani, tradizionalmente guidati da conservatori radicali, e introdusse riforme per aumentare la libertà di stampa e di associazione. Il primo blocco, quello ultraconservatore e titolare del potere giudiziario, rispose per le rime: chiuse alcuni giornali considerati non abbastanza compiacenti e soppresse con la violenza le manifestazioni anti-regime. Oggi il presidente della Repubblica è Hassan Rouhani, che sarà anche il candidato principale dei moderati e riformisti alle elezioni di venerdì. Anche lui, come Khatami, ha dovuto scontrarsi con il potere dei conservatori radicali, contrari alla maggior parte dei tentativi di riforma promossi dal governo.
I dati sono stati elaborati usando uno schema chiamato Polity IV e sviluppato dal Center for Systemic Peace. Polity IV utilizza i numeri dal -10 al 10, dove il -10 indica la piena dittatura mentre il 10 la piena democrazia. I dati del grafico si riferiscono agli anni compresi tra il 1979, anno della rivoluzione khomeinista, e il 2015. Il picco verso l’alto del 1997 coincide con l’inizio della presidenza del riformista Khatami, mentre il il successivo crollo è appena precedente all’inizio della prima presidenza del conservatore Ahmadinejad.
Ma com’è possibile che gli ultra-conservatori, così potenti, permettano ai loro oppositori politici di partecipare alle elezioni?
Perché quella cosa di rendere il sistema accettabile per gli iraniani – soprattutto quelli che abitano nelle città, più aperti ai cambiamenti – vale ancora oggi. Questo non significa che il blocco che fa capo alla Guida suprema non eserciti alcuna influenza sulle elezioni, anzi: in Iran esiste un organo che si chiama Consiglio dei guardiani della Costituzione, formato da sei teologi nominati dalla Guida suprema e sei giuristi nominati dal potere giudiziario (che dipende dalla Guida suprema) e approvati dal Parlamento. Il Consiglio dei guardiani è incaricato tra le altre cose di fare una selezione sui candidati che si presentano a qualsiasi elezione e decide chi ammettere e chi no, spesso secondo criteri del tutto arbitrari. Per esempio alle elezioni che si terranno venerdì non potranno partecipare moltissimi candidati moderati e riformisti, esclusi durante la selezione pre-elettorale del Consiglio dei guardiani. Una volta approvati i candidati, comunque, la campagna elettorale in Iran si può considerare abbastanza democratica. Ai candidati è concesso lo stesso spazio in televisione per esporre i propri programmi e nel corso degli anni non ci sono stati grossi episodi di brogli, a eccezione delle elezioni presidenziali del 2009 vinte dal conservatore Mahmud Ahmadinejad.
Il presidente iraniano Hassan Rouhani durante un evento elettorale a Teheran, il 13 maggio 2017 (AP Photo/Ebrahim Noroozi)
Ancora oggi il sistema istituzionale e politico iraniano concede dei momenti di democrazia, ma non è la democrazia come la intendiamo noi. In nessun momento viene concesso davvero spazio a chi mette in discussione l’assetto attuale della Repubblica islamica, tantomeno della Guida suprema. Le elezioni, comunque, rimangono il momento di maggiore libertà in Iran: durante le campagne elettorali viene ridotta la censura sui social network e ai candidati è permesso criticare apertamente le politiche repressive degli ultraconservatori, cosa che ha fatto nelle ultime settimane anche Rouhani. Quindi, tornando alla domanda da cui è iniziato tutto: l’Iran è una democrazia o una dittatura? Entrambe le cose, è la risposta.