13 dati dal rapporto dell’ISTAT sull’Italia
Quali sono le nuove "identità sociali", chi legge di più, chi ascolta più la radio, chi ha più tempo libero, chi spende e per che cosa e altro ancora
Mercoledì 17 maggio l’ISTAT ha pubblicato il rapporto annuale del 2017 (il 25esimo) sulla situazione economica e sociale dell’Italia. Al centro dell’analisi di quest’anno c’è la struttura della società italiana, analizzata attraverso le caratteristiche di nove gruppi, diversi dalla divisione in classi tradizionali utilizzata finora. I gruppi sono stati descritti da più punti di vista e sul sito è presente anche un quiz che permette di capire a quale tipologia familiare si appartiene. Dal rapporto abbiano selezionato alcuni dati e contenuti interessanti.
L’identità sociale non c’è più
Nel rapporto le famiglie residenti in Italia sono state suddivise in nove gruppi sociali in base a diversi parametri: quello economico (reddito, condizione occupazionale), quello culturale (titolo di studio posseduto) e quello socio-demografico (cittadinanza, dimensione della famiglia, ampiezza demografica del comune di residenza). Due dei nove gruppi si possono definire a reddito medio (giovani blue-collar, famiglie degli operai in pensione), quattro a basso reddito (famiglie a basso reddito con stranieri, famiglie a basso reddito di soli italiani, famiglie tradizionali della provincia, anziane sole e giovani disoccupati) e tre benestanti (famiglie di impiegati, pensioni d’argento e classe dirigente). Il gruppo dei blue collar sono famiglie in cui la persona di riferimento è operaio a tempo indeterminato in tre casi su quattro e lavoratore atipico (lavoratore dipendente con contratto a termine o lavoratore indipendente con contratto di collaborazione) nei restanti casi. Il gruppo è rappresentato soprattutto da famiglie con un numero di componenti non particolarmente elevato, tipicamente coppie senza figli o persone sole.
L’ISTAT spiega che la crescente complessità del mondo del lavoro ha fatto aumentare le diversità non solo tra le professioni ma anche all’interno degli stessi ruoli professionali, facendo crescere non solo le disuguaglianze tra classi sociali ma anche le disuguaglianze all’interno delle classi. Di fatto si è persa l’identità di classe a causa soprattutto della precarizzazione e della frammentazione dei percorsi lavorativi, ma anche del cambiamento di attribuzioni e significati dei diversi ruoli professionali. Interi segmenti di popolazione non rientrano più nelle classificazioni tradizionali: ci sono per esempio giovani con alto titolo di studio occupati in modo precario e ci sono stranieri di prima generazione a cui non viene riconosciuto il titolo di studio conseguito all’estero. Un esempio: i dipendenti a tempo determinato, proprio per le caratteristiche relative alla loro professione, dovrebbero far parte delle famiglie di impiegati ma in realtà si collocano nel gruppo dei giovani blue-collar, a causa della scarsa resa reddituale del loro contratto a termine.
Il gruppo più giovane è anche il più povero
Quello delle famiglie a basso reddito in cui è presente almeno una persona con cittadinanza non italiana (si tratta di 4,7 milioni di persone, cioè il 7,8 per cento della popolazione) è il gruppo più giovane, con l’età media della persona di riferimento pari a 42,5 anni. Ed è anche il gruppo che presenta le peggiori condizioni economiche, con uno svantaggio di circa il 40 per cento rispetto alla media. Gli occupati sono prevalentemente in posizioni non qualificate, ma nella metà dei casi la persona di riferimento possiede un diploma di scuola secondaria superiore e uno su dieci ha un titolo universitario.
Considerando i titoli di studio rispetto al livello di istruzione questo gruppo è secondo solamente ai gruppi della classe dirigente e a quello delle famiglie degli impiegati, entrambi con elevato benessere economico. Quindi, oltre a esserci un problema di riconoscimento di alcuni titoli di studio da parte dell’ordinamento italiano, «è evidente» – dice l’ISTAT – «l’esistenza di un forte disequilibrio tra titolo di studio e posizione nella professione che interessa la popolazione straniera più spesso di quella italiana». Questo gruppo è all’ultimo posto per tutti gli aspetti relativi alle condizioni di vita esaminati, tranne che per la percezione dello stato di salute e i comportamenti a rischio che sono in linea con il dato nazionale.
La classe dirigente detiene il 12,2 per cento del reddito totale
La cosiddetta classe dirigente include 1,8 milioni di famiglie (7,2 per cento) per un totale di 4,6 milioni di persone (7,5 per cento). Sono famiglie in media di 2,46 componenti, composte per oltre il 40 per cento da coppie con figli conviventi. La persona di riferimento ha in media 56,2 anni ed è laureata nella totalità dei casi (una su quattro ha anche un titolo di studio post-laurea). Il reddito familiare equivalente è più alto del 70 per cento rispetto alla media. La situazione lavorativa della persona di riferimento è piuttosto diversificata: nel 40,9 per cento dei casi dirigente o quadro (quasi dieci volte più della media nazionale), nel 29,1 per cento imprenditore (sette volte più della media) e nel 30 per cento ritirato dal lavoro. Il rischio di povertà è il più basso fra i gruppi.
La terza voce di spesa per le famiglie italiane sono i trasporti
Il livello e la composizione della spesa per consumi variano molto nei gruppi sociali. In generale si può dire che i livelli di spesa seguono la situazione economica dei gruppi sociali: a migliore situazione economica corrispondono maggiori capacità e livelli di spesa e spese che vanno oltre lo strettamente necessario. La classe dirigente ha la quota di spesa alimentare più bassa tra tutti i gruppi, mentre le famiglie a basso reddito con stranieri destinano a queste spese oltre un quinto del loro budget familiare.
La terza voce di spesa per le famiglie residenti in Italia è legata ai trasporti, che assorbono in media il 10 per cento. Fra i vari gruppi sono le famiglie a basso reddito di soli italiani e le famiglie tradizionali della provincia a destinare a questa voce le quote più alte di spesa a causa di una maggiore mobilità legata al lavoro, allo studio o perché residenti in aree del paese poco servite. La spesa per consumi delle famiglie della classe dirigente (pari in media a 3.810 euro al mese) è più che doppia rispetto a quella delle famiglie a basso reddito con stranieri.
La spesa per servizi ricreativi, ricettivi e di ristorazione è legata alla fase di vita familiare e al diverso livello di istruzione dei componenti delle famiglie. Le quote più elevate di spesa si trovano – a eccezione della classe dirigente – tra le famiglie degli impiegati (390 euro, il 12,8 per cento del totale della spesa). I giovani blue-collar, pur disponendo di minori possibilità economiche rispetto alle famiglie di impiegati, riservano comunque a queste voci l’11,5 per cento del totale.
Anche gli stranieri sono sempre più vecchi
L’invecchiamento della popolazione e l’immigrazione straniera sono i fenomeni demografici più evidenti nella composizione dei gruppi sociali: tre su nove sono caratterizzati da un’elevata presenza di persone anziane: le famiglie degli operai in pensione (64,6 per cento di persone con 65 anni e più), anziane sole e giovani disoccupati (42,7 per cento) e pensioni d’argento (40,1 per cento).
Al primo gennaio 2017 la quota di individui di 65 anni e più ha raggiunto il 22 per cento. Anche la struttura per età degli stranieri mostra segnali di invecchiamento. L’età media della popolazione straniera è passata da 31,1 a 34,2 anni tra il 2008 e il 2017; l’incremento è stato maggiore rispetto a quello rilevato per la popolazione italiana (da 43,7 a 45,9 anni).
Nel 2016 si è registrato un nuovo minimo delle nascite (474 mila). Il numero medio di figli per donna si attesta a 1,34 (1,95 per le donne straniere e 1,27 per le italiane). Il saldo naturale (cioè la differenza tra nati e morti) segna nel 2016 il secondo maggior calo di sempre (-134 mila), dopo quello del 2015. Il contributo dei cittadini stranieri residenti alla dinamicità della popolazione si conferma decisamente positivo. Nel 2016 si stimano tra gli stranieri 61 mila nati e 6.500 decessi.
I cittadini stranieri residenti in Italia sono stimati pari a poco più di 5 milioni, prevalentemente insediati al Centro-nord. La collettività rumena è la più numerosa (quasi il 23 per cento degli stranieri in Italia); seguono i cittadini albanesi (9,3 per cento) e quelli marocchini (8,7 per cento).
Sempre più persone hanno rinunciato a una visita specialistica
Perché troppo costosa: la quota tra il 2008 e il 2015 è salita dal 4 al 6,5 per cento della popolazione e il fenomeno è più accentuato nel Mezzogiorno. L’aumento delle rinunce per ragioni economiche è maggiore nei segmenti di popolazione più poveri.
Tra i gruppi sociali si osservano importanti diseguaglianze nelle condizioni di salute. Il gruppo sociale meno svantaggiato è costituito dalle persone che vivono nelle famiglie della classe dirigente, con la quota più elevata di persone che si dichiarano in buone condizioni di salute (75,6 per cento), seguito dai gruppi dei giovani blue-collar, dalle famiglie di impiegati e dalle pensioni d’argento (rispettivamente, 71,7, 71,2 e 71,0 per cento). Gli altri gruppi, invece, sono più svantaggiati, soprattutto nel caso delle persone che vivono in famiglie di anziane sole e giovani disoccupati (-7,2 punti percentuali rispetto alla media). Si tratta, tra l’altro, di un gruppo fortemente caratterizzato rispetto agli altri dalla presenza di donne anziane, che in generale riferiscono una condizione di salute peggiore, spesso associata alla prevalenza di patologie non letali ma invalidanti (tipicamente artrosi e artriti). La quota di persone in buona salute è più elevata nelle regioni settentrionali (nord 71,0 per cento, centro 68,2 per cento e mezzogiorno 65,7 per cento).
L’abitudine a fumare è in diminuzione da anni (dal 21,5 per cento nel 2008 al 19,2 nel 2016) e l’eccesso di peso (altro importante fattore di rischio di malattie cardiovascolari, diabete, tumori e altre malattie croniche) è più alto tra gli uomini (oltre uno su due, mentre tra le donne il rapporto scende a una su tre). Le persone appartenenti al gruppo di famiglie a basso reddito con stranieri sono al livello più basso della graduatoria per quasi tutte le modalità di consumo di alcol.
Le donne delle famiglie a basso reddito con stranieri e del gruppo anziane sole e giovani disoccupati svolgono meno controlli per la prevenzione dei tumori femminili rispetto alla media; all’opposto si trovano le donne dei gruppi ad alto reddito.
Le donne hanno meno tempo libero degli uomini
Dice l’ISTAT: «La quantità e la qualità di tempo libero a disposizione degli individui rappresentano alcuni dei fattori che più incidono sulla qualità della vita della popolazione. Il tempo libero è per definizione un tempo discrezionale, la cui allocazione, a parità di altre caratteristiche strutturali come l’età e il genere, dipende non solo dalla capacità di spesa delle famiglie, ma anche dai gusti personali». La quantità di tempo libero a disposizione in un giorno medio della settimana è minima se si è adulti, se si è donne («l’appartenenza al genere femminile genera uno svantaggio rispetto a quello maschile a parità di condizione occupazionale e professionale»), se si è poveri.
Le giovani coppie senza figli ascoltano la radio
I giovani che vivono nelle famiglie della classe dirigente si distinguono, oltre che per la quantità, anche per la qualità delle attività svolte. È questo, infatti, il gruppo in cui i giovani dedicano più tempo, rispetto agli altri, ad attività di tipo ricreativo-educativo, come partecipare a corsi extrascolastici, andare a teatro, al cinema, a mostre o a fare sport. La televisione occupa, invece, buona parte del tempo libero dei giovani che vivono in famiglie a basso reddito e il 43,9 per cento del tempo libero degli anziani. I giovani blue-collar si distinguono per la fruizione più elevata di ascolto della radio (67,1 per cento), di concerti di musica leggera (24,9 per cento) e del cinema (62,1 per cento); hanno inoltre tassi di accesso a internet fra i più alti.
I giovani nelle famiglie a basso reddito con stranieri sono quelli che trascorrono più tempo libero giocando (il 28,6 per cento), insieme a quelli delle famiglie di impiegati (25,8 per cento), anche in relazione alla maggiore presenza di bambini in tali gruppi, mentre sono i giovani delle famiglie dei blue-collar quelli che dedicano meno tempo al gioco (17,4 per cento), avendo, infatti, un’età media più elevata.
Lettura e partecipazione politica sono basse in generale
Il tempo dedicato dai giovani alla lettura è molto limitato: rappresenta in media il 2,4 per cento del loro tempo libero. La lettura è un’abitudine che presenta una forte differenziazione per gruppo sociale: è saldamente radicata nei gruppi ad alto reddito (il 51,6 per cento della classe dirigente e il 34,0 per cento delle pensioni d’argento leggono almeno quattro libri all’anno) mentre scende nei gruppi a basso reddito (il 12,4 per cento delle famiglie con stranieri, il 13,7 per cento delle famiglie di soli italiani).
La partecipazione attiva alla vita politica riguarda gruppi di popolazione abbastanza ristretti (nel 2016 l’8,1 per cento della popolazione di 14 anni e più) ed è condizionata dalle risorse culturali di cui si dispone, dalla posizione lavorativa, dal contesto di residenza, oltre che dal sesso e dall’età. Nei gruppi con titoli di studio più elevati, classe dirigente (14,8 per cento) e famiglie di impiegati (11,6 per cento), si partecipa più attivamente alla vita politica e le differenze di genere sono meno nette. Più alta della media anche la partecipazione nelle famiglie a basso reddito di soli italiani (9,4 per cento), anche in ragione di una quota maggiore di persone delle fasce centrali di età. Le pensioni d’argento e i giovani blue-collar hanno livelli di partecipazione vicini alla media nazionale (rispettivamente, 8,8 e 8,4 per cento); i primi, generalmente più anziani, sono più legati a forme partecipative tradizionali (comizi, riunioni o attività gratuita per un partito), per i secondi l’attività politica si esprime di più con la partecipazione a cortei e manifestazioni. La partecipazione è più bassa per il gruppo di anziane sole e giovani disoccupati (6,4 per cento), soprattutto per effetto della componente più anziana del gruppo. Bassi titoli di studio ed età media elevata si associano a bassi livelli di partecipazione (4,9 per cento) nelle famiglie degli operai in pensione.
3,6 milioni famiglie sono senza redditi da lavoro
Nel 2016 sono circa 3 milioni e 600 mila le famiglie senza redditi da lavoro, dove cioè non ci sono occupati o pensionati da lavoro. Si tratta del 13,9 per cento del totale (con percentuali più alte al sud, 22,2 per cento). Nel 2008 queste famiglie erano 3 milioni 172 mila, il 13,2 per cento del totale. È plausibile che alcune di queste famiglie abbiano comunque degli introiti da lavoro in nero.
7 giovani su 10 (under 30) vivono ancora nella famiglia di origine
Il rapporto dice che nel 2016 i 15-34enni che vivono a casa con i genitori sono il 68,1 per cento e corrispondono a 8,6 milioni di persone. Va però fatta una distinzione: fino a 24 anni i giovani sono spesso ancora inseriti nei percorsi di istruzione, ma tra i 25 e i 34 anni le traiettorie si differenziano maggiormente. Nel 2016 i giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato precocemente gli studi sono stati 575 mila. L’incidenza media di abbandoni scolastici è maggiore tra gli uomini (16,1 per cento in confronto all’11,3 delle donne). Nelle famiglie a basso reddito con stranieri un giovane su tre abbandona gli studi.
In Italia c’è il numero più elevato di Neet dell’Unione Europea
I Neet (acronimo inglese di Not in Education, Employment or Training) sono i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano: nel 2016 sono scesi a 2,2 milioni e sono pari al 24,3 per cento. Nonostante questo si tratta ancora della quota «più elevata tra i paesi dell’Unione Europea» dove la media è del 14,2 per cento. In Germania sono l’8,8 per cento, in Francia il 14,4 per cento e nel Regno Unito il 12,3 per cento.
Donne: nessuna novità sostanziale
Dice l’ISTAT: «L’Italia è un paese caratterizzato da forti differenze di genere sia sul mercato del lavoro sia nella distribuzione dei carichi di lavoro familiare. Quest’ultimo, insieme al lavoro retribuito, contribuisce al benessere delle famiglie, sia producendo beni e servizi di cui esse stesse beneficiano (preparazione dei pasti, pulizia e manutenzione della casa e dei veicoli, ecc.), sia garantendo la cura di animali e piante, gli acquisti e soprattutto la cura di bambini e anziani». Le donne in età attiva hanno un maggiore livello di istruzione (il 53,8 per cento delle donne ha un diploma o laurea a fronte del 49,2 per cento degli uomini, soprattutto in ragione della maggiore incidenza di laureate), nel 2016 il tasso di occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni si attesta al 48,1 per cento, con una distanza di 18,4 punti percentuali rispetto a quello maschile (66,5 per cento).
I tassi di occupazione femminili sono molto diversificati nei gruppi: i valori più elevati si riscontrano nelle famiglie di impiegati, in quelle della classe dirigente e dei giovani blue-collar (tra il 67,3 e il 64,5 per cento), mentre sono particolarmente bassi quelli dei gruppi di anziane sole e giovani disoccupati e delle famiglie a basso reddito di soli italiani (rispettivamente 16,8 e 31,8 per cento). Gli ostacoli all’accesso e alla permanenza delle donne nel mercato del lavoro continuano a essere particolarmente forti per le madri. Alla maggiore difficoltà delle donne rispetto agli uomini sul mercato del lavoro, contribuisce anche «uno squilibrio nella distribuzione dei carichi di lavoro complessivi. Tradizionalmente l’Italia esprime una forte asimmetria nella divisione dei ruoli nella coppia: l’organizzazione dei tempi delle persone, pur variando nel corso dell’esistenza, mantiene infatti una forte differenziazione di genere, a sfavore delle donne». Tenendo conto del complesso della popolazione in età attiva (15-64 anni), in cui sono potenzialmente presenti tutte le componenti del lavoro (lavoro retribuito e lavoro familiare, ossia quello domestico e di cura), la settimana lavorativa media, considerando sia il lavoro retribuito sia quello familiare, è di 39 ore e mezza per gli uomini e di 46 ore e 52 minuti per le donne. In alcuni gruppi sociali la disuguaglianza è inferiore. Tra i non occupati è evidente il contributo apportato al benessere familiare dalle casalinghe, che con il loro lavoro producono beni e servizi per quasi 50 ore a settimana, vale a dire due ore e mezza in meno degli uomini occupati.