La cosa più grave fatta da Trump fin qui
Donald Trump ha ammesso di aver dato informazioni ai russi: il Washington Post sostiene che fossero riservate
di Francesco Costa – @francescocosta
Aggiornamento: diversi giornali americani hanno scritto che le informazioni di intelligence altamente riservate condivise da Trump con Lavrov e Kislak erano state fornite da Israele. Le agenzie di intelligence israeliane sono fra le più potenti e rispettate al mondo, e già alcune ore dopo la notizia si sospettava che l’informazione condivisa da Trump provenisse dal Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana che si occupa di sicurezza nazionale. Dopo aver parlato con diversi funzionari ed ex funzionari americani, ABC News ha scritto che secondo la loro opinione «questa notte la vita di una spia israeliana all’interno dell’ISIS sarà a rischio», per via delle azioni di Trump.
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Durante un incontro nello Studio Ovale con il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Sergei Kislak, il presidente statunitense Donald Trump ha rivelato informazioni di intelligence altamente riservate. Lo ha scritto nella notte tra lunedì e martedì il Washington Post in un articolo che si può considerare molto fondato per tanti motivi: a cominciare dalle conferme che hanno trovato gli altri giornali e soprattutto dal modo in cui la Casa Bianca ha cercato di smentirlo, finendo per confermarlo. Lo stesso Trump ha detto di aver dato informazioni sul terrorismo internazionale ai russi, senza smentire che fossero riservate, di fatto ammettendolo secondo la grandissima parte della stampa e degli osservatori. Non è chiaro se Trump fosse consapevole della delicatezza di quello che stava raccontando ai russi, per giunta in un incontro già di per sé anomalo, e delle gravi implicazioni e conseguenze – di breve e di lungo periodo – che la sua decisione avrebbe avuto.
L’incontro di cui si parla è avvenuto la settimana scorsa ed era stato molto discusso, per molti motivi. Primo: non è scontato che un ministro degli Esteri e un ambasciatore vengano accolti nello Studio Ovale, come si fa di solito soprattutto con i capi di stato e di governo. Secondo: decine di collaboratori di Trump e il suo comitato elettorale sono oggi indagati dall’FBI perché accusati di aver collaborato con la Russia allo scopo di interferire con la scorsa campagna elettorale. Terzo: alcune di queste persone – per esempio l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn, e l’attuale procuratore generale Jeff Sessions – si sono messe nei guai proprio per aver mentito sotto giuramento sui loro incontri con l’ambasciatore russo Kislak. Quarto: alla stampa americana è stato proibito anche solo fotografare l’incontro, mentre Lavrov si è portato dietro – dentro lo Studio Ovale – un uomo che la Casa Bianca credeva fosse un fotografo personale e invece lavorava per l’agenzia di stampa controllata dal governo.
Come se tutto questo non fosse abbastanza, scrive il Washington Post, durante quell’incontro Trump ha raccontato a Lavrov e Kislak che gli Stati Uniti sono stati allertati da un loro alleato sul fatto che in una precisa città della Siria lo Stato Islamico sta preparando un attentato utilizzando bombe che si possono nascondere dentro un computer portatile da trasportare su un aereo civile. Che questa fosse un’ipotesi concreta era noto, ma Trump ha rivelato quale fosse questa città siriana e chi sia l’alleato che ha fornito l’informazione, cioè cose «così delicate e segrete», scrive il Washington Post, «i cui dettagli erano stati nascosti anche ai paesi alleati degli Stati Uniti e a moltissime persone dentro il governo americano» (qualcuno ipotizza che l’estrema delicatezza di questa informazione si spieghi col fatto che la fonte sia dentro lo Stato Islamico).
È un’informazione “da parola in codice”, come si dice in gergo, non tanto e non solo per il suo contenuto, ma perché la sua diffusione mette a rischio le due cose più importanti per l’attività di intelligence, cioè le fonti e il metodo: vuol dire che la sua diffusione può compromettere le fonti e i metodi con cui l’intelligence statunitense ha ottenuto quell’informazione, facendo danni di lungo periodo anche in molti altri contesti. La fonte può essere scoperta, per esempio, mettendo a rischio molte altre operazioni oltre a quella oggetto dell’informazione rivelata da Trump; l’alleato che ha dato le informazioni agli Stati Uniti non si fiderà più e così gli altri alleati, che condivideranno meno informazioni con gli Stati Uniti; la Russia può sapere in generale come gli Stati Uniti ottengono informazioni sulla Siria, eccetera. Non è secondario, poi, che Trump abbia raccontato tutto questo alla Russia, che proprio in Siria combatte su un fronte diverso da quello degli Stati Uniti.
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Il Washington Post scrive che la gravità della situazione è apparsa subito evidente, tanto che il capo della CIA e quello della NSA sono stati immediatamente allertati dopo l’incontro. In questo momento non ci sono elementi che facciano pensare che le cose non siano andate come raccontate dal Washington Post. Innanzitutto perché lo stesso Washington Post nel suo articolo dice di avere molti altri dettagli sulle informazioni riservate diffuse da Trump, ma di non averle pubblicate su preghiera della Casa Bianca e dell’intelligence statunitense, perché potrebbero ulteriormente compromettere la situazione. Inoltre, dopo la pubblicazione del primo articolo, diverse altre testate statunitensi e internazionali hanno trovato nuovi elementi e conferme sulla fondatezza di questa storia. Infine, la conferma più importante è arrivata dal tentativo di smentita della Casa Bianca.
Il consigliere per la sicurezza nazionale, l’ex generale H.R. McMaster, dopo qualche ora dalla pubblicazione dell’articolo ha letto ai giornalisti un breve comunicato, e se n’è andato senza rispondere alle domande. Il suo comunicato dice:
«Non c’è niente che il presidente prenda più sul serio della sicurezza del popolo americano. L’articolo pubblicato oggi, per quello che dice, è falso. Il presidente e il ministro degli Esteri russo hanno parlato di molte minacce ai nostri paesi, comprese minacce attraverso l’aviazione civile. In nessun momento – nessun momento – le fonti e i metodi dell’intelligence sono stati discussi. E il presidente non ha diffuso nessuna operazione militare che non fosse già pubblica. Due alti funzionari erano presenti, compreso il segretario di Stato: anche loro ricordano così e lo hanno detto. I loro resoconti pesano di più di quelli delle fonti anonime dei giornali. Io ero in quella stanza: non è successo»
McMaster, insomma, ha usato un trucchetto retorico, accusando il Washington Post di aver scritto cose diverse da quelle che ha scritto, allo scopo di poterle smentire. In nessuna parte del suo comunicato McMaster dice che Trump non ha diffuso informazioni riservate, che è quello che ha scritto il Washington Post e che la Casa Bianca quindi non smentisce. McMaster si è limitato a dire che Trump non ha discusso le fonti e i metodi dell’intelligence, ma non è quello che ha scritto il Washington Post: il Washington Post ha scritto che la diffusione di quelle informazioni riservate – ammessa silenziosamente dalla stessa Casa Bianca – avrebbe permesso alla Russia di conoscere le fonti e i metodi dell’intelligence. La scelta delle parole usate dalla Casa Bianca su una faccenda così delicata (questa storia sarà oggetto di indagini, audizioni parlamentari, interrogatori, etc) e il fatto che la Casa Bianca privatamente abbia chiesto ai giornalisti di non pubblicare altri dettagli per non aggravare i danni, di fatto confermano la veridicità di quanto raccontato dal Washington Post.
Lo stesso Trump – che è intervenuto su Twitter quando in America era tarda serata – non ha smentito di aver dato informazioni riservate alla Russia, scrivendo di «aver condiviso con la Russia, come mio diritto, informazioni sul terrorismo e l’aviazione civile. Per ragioni umanitarie e perché voglio che la Russia faccia di più contro l’ISIS e il terrorismo». Trump ha ragione a dire che era suo diritto diffondere le informazioni riservate. Se qualsiasi altra persona nel governo americano avesse fatto quello che ha fatto in questo caso il presidente Trump, verrebbe punita con molti anni di prigione. Nel caso di Trump, però, non c’è niente di illegale: il presidente è l’unica persona nell’ordinamento americano che ha il potere di “declassificare” le informazioni riservate a suo piacimento, cioè può decidere liberamente cosa considerare riservato e cosa no (anche per questo motivo Trump fu molto criticato quando alluse alla possibilità che Obama lo avesse fatto intercettare, senza dare dettagli: se fosse stata un’accusa vera e non una trovata del momento, Trump avrebbe avuto tutti gli strumenti per dimostrarlo). Questo non vuol dire, naturalmente, che sia opportuno rivelare le informazioni riservate. Si può ipotizzare invece una violazione del giuramento presidenziale, un’accusa rivolta in passato a tutti e tre i presidenti che sono stati messi sotto impeachment nella storia americana, come scrive il sito di notizie sulla sicurezza nazionale Lawfare.
Il presidente Trump ha giurato «solennemente di adempiere con fedeltà all’ufficio di presidente degli Stati Uniti» e di «preservare, proteggere e difendere la Costituzione al meglio delle mie capacità». È molto difficile sostenere che regalare informazioni altamente riservate a una potenza straniera rivale sia adempiere con fedeltà all’ufficio di presidente degli Stati Uniti. Violare il giuramento non richiede commettere reati. Se il presidente decidesse di scrivere i codici nucleari su un postit, appiccicarlo alla scrivania, fotografarlo e pubblicare la foto su Twitter, non avrebbe commesso nessun reato: come non ha fatto nessun reato in questo caso. Il presidente ha il potere costituzionale di decidere che l’arsenale nucleare americano debba essere tutelato attraverso postit messi in bella vista e twittati; ha anche il potere di rendere pubblici i codici nucleari, se vuole. Eppure tutti capiremmo che un simile grado di negligenza sarebbe una rozza violazione del suo giuramento.
Per tre volte il Congresso ha accusato un presidente di aver violato il suo giuramento, tutte e tre le volte che ha messo un presidente sotto impeachment: Andrew Johnson, Richard Nixon e Bill Clinton.
Ci sono solo due opzioni possibili, rispetto alle ragioni del comportamento di Trump: o si è reso conto di quello che stava facendo, oppure no. Entrambe sono opzioni terribili, come scrive Chris Cillizza di CNN, ma hanno potenzialmente sfumature molto diverse: Trump potrebbe aver voluto vantarsi delle cose che sapeva (è l’ipotesi suggerita dal Washington Post, secondo cui Trump era estremamente insicuro durante l’incontro con i russi), oppure potrebbe aver voluto dare qualcosa alla Russia per ottenere qualcosa in cambio (ma una decisione del genere sarebbe stata concordata con l’intelligence e non improvvisata). Oppure Trump non si è reso conto di quello che stava facendo, cosa che potrebbe fargli perdere la fiducia dei militari e delle agenzie di intelligence e in ultima istanza compromettere la sua capacità di fare con efficacia il presidente degli Stati Uniti; oppure, ma resta l’ipotesi più improbabile e quella che necessita delle prove più solide e straordinarie per poter essere dimostrata, Trump lo ha fatto volontariamente per dare una mano ai russi, visto il rapporto di collaborazione e dipendenza di cui molti lo accusano fin dai giorni della campagna elettorale.
Di certo per la Casa Bianca c’è un problema politico che diventa ogni giorno più gigantesco: prima l’indagine senza precedenti sui presunti rapporti di collaborazione fra il comitato elettorale di Trump e la Russia, che sta accelerando e dovrebbe portare presto ai primi mandati di comparizione; poi la decisione – anche questa senza precedenti – di licenziare il capo dell’FBI, cioè il supervisore di quell’indagine, dando motivazioni contraddittorie per poi ammettere che Trump non era contento dell’inchiesta sulla Russia; poi l’incontro anomalo con i russi nello Studio Ovale e infine la rivelazione ai russi di informazioni così delicate e pericolose che erano state nascoste persino ai paesi alleati degli Stati Uniti.
Dopo la pubblicazione dell’articolo del Washington Post, i giornalisti che lavorano alla Casa Bianca hanno sentito urla molto forti provenire dall’ufficio stampa, che era chiuso a chiave. Lo hanno scritto su Twitter, dicendo che si distinguevano le voci di Steve Bannon, il più importante consigliere di Trump, del portavoce Sean Spicer e della vice portavoce Sarah Huckabee Sanders. Dopo pochi minuti dentro la stanza qualcuno ha alzato la tv a un volume così forte da coprire le urla.