La più grande comunità straniera in Italia
È quella romena, anche grazie alla vicinanza geografica e al fatto che l'italiano e il romeno siano due lingue abbastanza simili
di Marina Petrillo
Da qualche anno, la comunità straniera più numerosa in Italia è quella romena, che vale il 22,9 per cento degli stranieri residenti sul territorio, seguita da quella degli albanesi che sono il 9,3 per cento e da quella dei marocchini, l’8,7 per cento. I romeni hanno cominciato a migrare nei paesi del Mediterraneo soprattutto dopo le misure restrittive dell’immigrazione applicate a partire dal 1994 in Germania e Israele (lo racconta nel dettaglio Pietro Cingolani nel suo libro Romeni d’Italia). In Italia il loro numero è cresciuto tantissimo dopo il 2007, con l’entrata della Romania nell’Unione Europea, e ha superato il milione di presenze in Italia fra il 2010 e il 2012: nel 2016 erano 1.151.000 (le comunità straniere maggiori in Germania e Regno Unito – turchi e polacchi – sono rispettivamente di 1.352.000 e 931.000 persone).
Prevalentemente di religione cristiana ortodossa, i romeni titolari di imprese in Italia sono circa 48 mila; gli altri lavorano soprattutto nell’assistenza familiare e nella ricezione alberghiera, ma anche nell’informatica e nei servizi alle imprese, nell’industria, nell’agricoltura. Sono anche la nazionalità che si muove di più in Europa: nel 2013, secondo i dati Eurostat, un decimo di tutti i romeni risiedeva all’estero, con la comunità maggiore appunto in Italia, seguita da un’altra molto grande in Spagna (è interessante che la maggiore comunità straniera in Romania, con appena 14mila persone, sia italiana). Intanto, secondo gli stessi dati, le proiezioni demografiche indicano che l’età media della popolazione romena aumenta così rapidamente che per il 2050 la Romania potrebbe avere 4 milioni di cittadini in meno.
Malgrado una presenza così forte, in proporzione i romeni contano molti meno nati in Italia rispetto agli immigrati di altre nazionalità. Facendo un confronto in base al rapporto Istat del maggio 2016, tra i minori figli di cinesi sono nati in Italia quasi l’89 per cento, mentre tra i minori romeni quelli nati in Italia non arrivano al 65 per cento (un po’ come succede anche tra i figli di immigrati ucraini, che sono meno del 60 per cento). È uno degli effetti della cosiddetta “frammentazione transnazionale”: a volte è soltanto un genitore a migrare, molto spesso la madre, mentre i figli vengono affidati ai parenti in patria. C’entra anche l’inclinazione a mantenere un legame molto forte col paese d’origine, grazie alla vicinanza geografica: il periodo di trasferimento può durare anche molti anni senza per questo essere per tutta la vita, e molti romeni rientrano in patria quando le condizioni economiche lo consentono, a volte molto prima della pensione. Allo stesso tempo, i dati sui nati in Italia da genitori romeni ci dicono che è molto elevata la percentuale di giovani che dicono di sentirsi italiani, il 45,8 per cento. In parte, gli studiosi pensano che questo possa essere favorito dalla prossimità linguistica fra il romeno e l’italiano.
I romeni non hanno bisogno di visti particolari per stare in Italia a lavorare o a studiare. Molti giovani romeni trascorrono così in Italia periodi anche molto lunghi, ma senza necessariamente fermarsi per sempre. Qui imparano l’italiano con grande facilità, a volte senza traccia di accento: il romeno e l’italiano sono entrambe lingue neolatine e la Romania è circondata da paesi dove si parlano lingue slave, e anche per questo l’attrazione per l’italiano è molto profonda. Avendo poi la possibilità di rientrare in Romania per brevi periodi con una certa regolarità, i giovani si sentono davvero familiari con due patrie.
Una tesi di laurea del 2015 di Veronica Canazza all’Università di Padova (L’italiano L2 nei romeni di seconda generazione: un’indagine sociolinguistica) ha testato nel Nord Italia un piccolo campione di parlanti romeni e moldavi (che appartengono allo stesso ceppo linguistico) per verificare come viene vissuto l’italiano come seconda lingua, dove e come viene imparato, e il rapporto che i giovani romeni conservano con la cultura d’origine. La tesi, concentrata sulla seconda generazione, parte da quello che era l’unico studio approfondito sulla contaminazione del romeno con l’italiano nei romeni di prima generazione, Mutamenti nel romeno di immigrati in Italia di Alexandru L. Cohal, del 2014.
Canazza dice che «il considerevole aumento della presenza di romeni in Italia fa modificare la percezione che gli italiani hanno di questa comunità. Cingolani identifica due tipi di discorsi pubblici, quello assimilazionista e quello criminalizzante. Nel primo caso, vengono sottolineati ed esaltati i presunti punti in comune tra la cultura di provenienza dei romeni e quella italiana, a partire dalle radici latine e cristiane, il senso del dovere, l’attaccamento ai valori della famiglia e della tradizione e in particolare l’attaccamento delle donne al “ruolo” di madri e mogli. I romeni vengono dunque rappresentati come portatori di valori che l’Italia industrializzata conosce ma ha perso da anni, e per questo più facilmente “integrabili”, rispetto ad altre popolazioni immigrate quali possono essere gli asiatici o i musulmani». Nella seconda variante, ricorda Canazza (e ne abbiamo visto anche di recente i sintomi con le dicharazioni del vicepresidente della Camera dei Deputati Luigi Di Maio), «i romeni vengono dipinti come un popolo quasi geneticamente portato alla criminalità, un pericolo per la sicurezza della nostra società».
La maggior parte dei giovani romeni intervistati da Canazza (62 su 68) ha imparato a casa come prima lingua il romeno, e solo 4 l’italiano. Quando viene chiesto che lingua usano i familiari per parlare con loro e viceversa che lingua usano loro per parlare rispettivamente con i genitori e i fratelli (con questi ultimi condividono di più la fruzione dei media italiani e della cultura popolare) emerge un quadro di forte dualità ma con una preferenza spiccata per l’italiano, e una fragilità dei padri romeni nell’uso dell’italiano. Canazza conclude che, come avveniva per le prime generazioni, sono le donne a fare «da traino per l’intera comunità verso una scelta socioculturale e linguistica mista; non sorprende dunque che più della metà delle madri degli intervistati comunichino con loro sia in italiano che in romeno, contro il 33 per cento dei padri, che sono soliti invece comunicare con i figli quasi solo in romeno. Tralasciando i casi in cui il padre è di nazionalità italiana oppure non presente nel nucleo famigliare, si tratta comunque di uno scarto molto elevato e si può affermare che i risultati di questa piccola indagine rispecchiano abbastanza fedelmente la situazione a livello macro».
Lo studio di Canazza sulle seconde generazioni conferma un altro dato che Cohal aveva rilevato per le prime generazioni: la maggior parte degli intervistati dichiara di aver raggiunto una buona conoscenza dell’italiano in meno di un anno, e senza ricorrere a corsi formali di lingua per stranieri, ma solo grazie all’immersione nei media italiani e alla conversazione, facilitata dalla similitudine fra le due lingue. Allo stesso tempo, dai loro resoconti si ricava che il romeno non è né spento né distante, e siccome può essere parlato in casa ma anche nei viaggi di ritorno in patria – dove la maggior parte di loro torna una o più volte ogni cinque anni – resta molto vivo, spesso contaminato dall’italiano nelle espressioni, nei vocaboli e nelle forme grammaticali. Una lingua mutante, di cui i giovani romeni cresciuti in Italia diventano ambasciatori proprio mentre da una parte ringiovaniscono il nostro paese e dall’altra il loro paese d’origine invecchia senza di loro.