La bancarotta di Porto Rico
L'isola sta attraversando da dieci anni una profonda crisi economica, e ha richiesto l'intervento di un tribunale poiché deve ai suoi creditori 73 miliardi di dollari che non ha
Mercoledì 3 maggio Porto Rico, che sta attraversando da dieci anni una profonda crisi economica e fiscale, ha richiesto a un tribunale la bancarotta assistita poiché deve ai suoi creditori 73 miliardi di dollari che non ha. Si tratta del più grave fallimento municipale nella storia americana: nel luglio del 2013 Detroit aveva dichiarato bancarotta dopo circa quarant’anni di declino economico, ma il comune aveva accumulato 18 miliardi di dollari di debiti. Il fallimento di Detroit prevedeva poi per gli investitori la protezione garantita dalle leggi sulla bancarotta statunitense, che stabilisce un metodo con cui gli investitori stessi possono recuperare almeno parte del loro denaro. Non essendo formalmente territorio statunitense, Porto Rico non può invece contare sulla legge statunitense che tutela gli enti pubblici che dichiarano insolvenza.
Porto Rico è un’isola dei Caraibi ed è un territorio non incorporato degli Stati Uniti: è cioè uno stato associato, da tempo in trattative per diventare il cinquantunesimo stato americano. Porto Rico ha circa tre milioni di abitanti, un tasso di disoccupazione superiore al 12 per cento (più del doppio rispetto alla media statunitense) e un tasso di povertà del 45 per cento. I creditori di Porto Rico sono in prevalenza grandi società finanziarie di Wall Street e fondi speculativi privati che hanno comprato il debito di Porto Rico a un alto tasso di interesse, visto l’alto rischio, ma comprendono anche obbligazioni di enti pubblici che forniscono servizi come acqua o energia elettrica, che garantiscono la costruzione di strade e il funzionamento del sistema fognario. Oltre al debito delle obbligazioni, Porto Rico deve quasi 40 miliardi di dollari in pensioni ai lavoratori e agli ex lavoratori del settore pubblico. I numerosi debiti includono infine obbligazioni a garanzia generica, che secondo la costituzione di Porto Rico devono essere ripagati ai creditori ancora prima del salario dei lavoratori.
La richiesta di protezione dai creditori è stata fatta a una corte degli Stati Uniti di San Juan dal governatore del territorio, Ricardo Rossello, che in precedenza si era invece impegnato a migliorare i rapporti con gli Stati Uniti e soprattutto a ripagare i debiti. Nonostante le trattative in corso tra governo e creditori, Rossello – che è in carica dallo scorso gennaio – ha invocato una specifica legge conosciuta come Titolo III, che permette di affidare a un tribunale federale il compito di giudicare le dispute con gli investitori e cioè chi dovrà essere pagato e quanto: «Abbiamo preso questa decisione perché protegge al meglio le persone», ha dichiarato Rossello. Non essendo stata trovata finora un’intesa con i creditori (il piano fiscale del governo copriva il pagamento di meno di un quarto dei debiti dovuti) si dovrà dunque procedere con la maggior ristrutturazione del debito mai effettuata negli Stati Uniti. Con la bancarotta e la mediazione di un tribunale le perdite dei creditori saranno molto probabilmente più alte e le reazioni alla decisione del governo portoricano sono state infatti negative.
La crisi di Portorico va avanti da tempo ed è il risultato di una cattiva gestione delle finanze e dell’economia. Negli ultimi dieci anni il paese è praticamente sempre stato in recessione. All’inizio del Ventesimo secolo l’economia dell’isola si basava sull’agricoltura. Verso la fine degli anni Quaranta una serie di progetti favorirono la nascita di industrie e la crescita del settore manifatturiero: cominciarono ad arrivare investimenti stranieri, attratti anche da un trattamento fiscale conveniente concesso dagli Stati Uniti. Gli incentivi furono però ritirati nel 2006 e allora cominciò la crisi. Nel 2006 il governo portoricano chiuse il Dipartimento dell’istruzione, decine di altri enti governativi e gli istituti scolastici pubblici. L’enorme macchina burocratica, l’elevato costo dell’elettricità, il calo negli investimenti, la migrazione – e dunque la diminuzione della base imponibile – hanno fatto il resto. Si calcola che lo scorso anno circa 62 mila residenti abbiano lasciato l’isola. Nel frattempo il governo ha alzato le tasse, tagliato il personale e ridotto le pensioni in un inutile tentativo di riportare il debito sotto controllo. Queste azioni hanno ritardato l’accumularsi del debito ma hanno al contempo danneggiato gli sforzi di rilanciare l’economia.
Da oltre un decennio il governo di Porto Rico e le sue società municipali, scrive il Wall Street Journal, chiedono prestiti per guadagnare tempo e rimandare profonde e necessarie riforme economiche. Dall’altra parte, nonostante l’evidente crisi e credendo che a un certo punto l’economia dell’isola si sarebbe ripresa, per anni gli investitori hanno continuato ad acquistare titoli di Porto Rico che offrivano rendimenti elevati. La crisi finanziaria è stata mantenuta sotto controllo tagliando la spesa e raccogliendo sempre più soldi dai mercati azionari. Negli anni però il rating di Porto Rico è stato declassato fino ai livelli considerati “spazzatura”, e l’isola ha dovuto pagare tassi sempre più alti per ottenere nuovo denaro. Nell’agosto del 2015 il paese ha dichiarato lo stato di insolvenza.