L’economia mondiale è finalmente ripartita?
Diversi indici e segnali sembrano dire di sì, e stavolta per davvero, ma restano dei rischi più politici che economici
Dopo quasi un decennio di crisi, l’economia mondiale sembra essersi finalmente ripresa. Economisti e istituzioni internazionali sono concordi nel dire che al momento tutti i segnali puntano nella stessa direzione: una ripresa con basi solide e destinata a durare. Ma questa situazione avviene all’ombra di quelli che secondo molti sono rischi politici, di cui il mondo non si è ancora liberato, e che possono compromettere questa ripresa: leader nazionalisti e populisti che rischiano di mettere in pericolo il commercio internazionale; crisi politiche internazionali che minacciano la stabilità e la fiducia degli operatori economici.
«L’economia mondiale ha acquistato slancio sin dalla metà dell’anno scorso», ha detto a metà aprile Maurice Obstfeld, direttore delle ricerche presso il Fondo Monetario Internazionale. In effetti è la prima volta in anni recenti che le previsioni per la crescita economica futura sono state riviste al rialzo invece che al ribasso. Secondo l’FMI l’economia mondiale crescerà del 3,5 per cento nel 2017 e del 3,6 per cento nel 2018, rispetto al 3,1 per cento del 2016. «L’accelerazione avrà una base solida, ancorata allo sviluppo dei paesi emergenti e di quelli a basso reddito, dove abbiamo visto guadagni sia nella manifattura che nel commercio», ha detto Obstfeld.
Negli stessi giorni anche il Financial Times ha annunciato che i suoi indici di misurazione, realizzati in collaborazione con il centro studi del Brookings Institution, mostrano che la ripresa globale ha una «base solida». L’indice FT-Brookings è formato comparando una serie di indici dell’economia reale, delle prestazioni dei mercati finanziari e della fiducia degli investitori con le loro medie storiche, sia per l’economia mondiale che per ogni paese e gruppi di paesi separatamente. L’indice dei paesi emergenti, per esempio, mostra una forte ripresa dopo gli ultimi 3-4 anni di stagnazione. Cina e India, in particolare, sembrano aver superato i recenti periodi turbolenti e i loro indici mostrano prospettive superiori alle medie storiche.
Lo scorso marzo l’Economist scriveva: «Oggi, dieci anni dopo la più grande crisi finanziaria dai tempi della Grande Depressione, l’economia sta finalmente cominciando a riprendersi. In America, Europa, Asia e nei mercati emergenti, per la prima volta a parte una breve ripresa nel 2010, tutti i motori sembrano essere ripartiti all’unisono». Gli elementi più importanti della ripresa sembrano essere la fine dei peggiori timori nei confronti della Cina, che un anno fa sembrava navigare in cattive acque e invece, almeno per il momento, sembra aver recuperato la sua stabilità, e l’aumento dell’inflazione, in parte causato dall’aumento dei prezzi del petrolio, che è tornato a livelli desiderabili nelle principali economie avanzate: una media superiore al 2 per cento, secondo l’OCSE. Persino l’Europa, da tempo considerata una delle aree economiche più in difficoltà del mondo, ha mostrato segnali di recupero. Con la vistosa eccezione dell’Italia, che continua a restare in grosse difficoltà, la disoccupazione nella zona euro ha raggiunto il minimo dal 2009 e la fiducia nell’economia è al livello più alto dal 2011.
Nonostante questi dati, però, in molti rimangono scettici. Oltre che dalla crisi, gli ultimi dieci anni sono stati caratterizzati da un alto numero di “false albe”, come vengono a volte definite le riprese dell’economia che si rivelano soltanto apparenti. Dal 2008 a oggi quasi ogni anno gli indici hanno mostrato apparenti segnali di recupero, bloccati poi da una serie di eventi dannosi: la crisi dei paesi che condividono l’euro come moneta, il crollo nel prezzo del petrolio, i timori per una crisi della Cina. Nonostante indici e statistiche mostrino una ripresa apparentemente solida, sono possibili eventi che potrebbero causare un’inversione di tendenza.
I rischi principali, almeno secondo l’Economist, questa volta non sono economici ma politici. In particolare, il problema principale sarebbero le ideologie e i programmi nazionalisti e protezionisti di alcuni politici in ascesa in molti paesi sviluppati. «La rivolta populista continua a diffondersi, alimentata da anni di crescita anemica», scrive l’Economist. Se il ritorno della crescita economica dovesse arrivare sotto la guida di questi personaggi, il rischio è vederli confermati nelle loro posizioni fino a che le loro politiche non inizieranno a produrre gravi danni alla crescita economica.
E ci sono anche altri rischi. Le banche centrali, in particolare, avranno un ruolo delicato nei prossimi mesi: ora che l’inflazione sembra essersi ripresa, dovranno ridurre le loro iniezioni di liquidità nell’economia (i famosi “quantitative easing”) ma dovranno farlo in maniera equilibrata, bilanciando il rischio di vedere schizzare l’inflazione con quello di far soffrire i mercati e coloro che cercano di farsi prestare denaro, che potrebbero finire danneggiati da un improvviso alzarsi dei tassi di interesse, una delle prime conseguenze di politiche più restrittive da parte delle banche centrali. «L’Europa, in questo scenario, è particolarmente vulnerabile», scrive l’Economist, perché la BCE ha quasi raggiunto i limiti legali al suo programma di acquisto di titoli, che ha permesso a paesi come l’Italia di continuare a finanziarsi sui mercati a un prezzo molto più basso di quello che avrebbero ottenuto senza il suo intervento. Una fine drastica dell’operazione della BCE potrebbe essere estremamente rischiosa per i paesi più deboli dell’eurozona.
Ma il rischio più grande, scrive l’Economist, rimane la lezione che i politici potrebbero trarre da questo inizio di ripresa, e cioè che le loro politiche protezioniste o poco ortodosse funzionano. Donald Trump ha già iniziato a prendersi il merito dell’aumento dei posti di lavoro che si è verificato negli Stati Uniti nel corso dell’ultimo periodo, ignorando il fatto che sono 77 mesi consecutivi che l’economia americana aumenta il numero di posti di lavoro creati. Altri politici potrebbero credere alle sue parole e decidere di implementare politiche simili alle sue nei propri paesi, così come il successo dell’economia sovietica negli anni Trenta spinse molti governanti ad adottare sistemi dirigisti nei loro paesi, nella speranza di replicarne il successo. Per il Fondo Monetario Internazionale, un ritorno alle politiche protezioniste da parte dei paesi in via di sviluppo, magari per imitare l’apparente successo di azioni simili nel mondo sviluppato, rappresenta al momento il rischio principale per il recupero dell’economia globale.
Anche l’Economist scrive che le ricette di Trump e dei suoi potenziali emuli non possono che essere dannose per l’economia globale. Il suo protezionismo potrebbe portarlo a ingaggiare una guerra commerciale con la Cina, con conseguenze potenzialmente dannose in tutto il mondo, soprattutto se simili politiche diventeranno comuni mano a mano che altri paesi proveranno a imitare il suo apparente successo. «I populisti non meritano alcun credito per la ripresa economica», conclude l’Economist, «ma hanno il potere di spazzarla via».