Non è facile fare arrivare i soldi alle ONG che lavorano in zone di crisi
Spesso le transazioni finanziarie sono rallentate dallo zelo delle banche americane, e c'entrano le rigide misure antiterrorismo
di Rob Kuznia – The Washington Post
Mentre lo scorso anno le forze armate siriane e i loro alleati devastavano la città di Aleppo nel corso di un’offensiva per sconfiggere i ribelli, Anas Moughrabieh, un medico siriano, stava cercando di curare i feriti in videoconferenza dal suo ufficio a Detroit. La situazione era molto grave. All’ospedale arrivarono d’urgenza diverse persone con serie ferite alla testa, ma la sostanza usata per diminuire la pressione nel cervello, la soluzione salina ipertonica, era finita. Erano finite anche le scorte minime di medicine e altro materiale necessario per i soccorsi. I feriti non furono curati al meglio e molti di loro, tra cui anche bambini, morirono.
Moughrabieh osservò impotente a 9mila chilometri di distanza quello che stava succedendo. Il problema dell’ospedale, gestito dalla Syrian American Medical Society, un ente benefico con sede a Washington che vive di donazioni, non era la mancanza di finanziamenti, e in questo caso nemmeno la brutalità del regime siriano. Il problema era una banca americana. Durante il violento assedio di Aleppo, la Syrian American Medical Society aveva provato a versare 80mila dollari a un fornitore turco, in modo che i suoi ospedali potessero ricevere i rifornimenti di scorte mediche. Ma la banca americana, con il suo zelo nell’assicurarsi che i fondi non venissero diretti a terroristi all’estero, aveva ritardato il versamento. I soldi furono depositati solo sei mesi dopo, quando l’assedio era finito. «I pazienti tenuti in vita artificialmente non possono avere pazienza», ha detto Moughrabieh, «o vivono o muoiono».
I guai dell’ospedale gestito dalla Syrian American Medical Society raccontano una storia più ampia. In un momento di storica emergenza umanitaria, le banche sono sempre più restie a fare affari con gli enti benefici che operano in zone colpite da catastrofi, per paura di finanziare il terrorismo internazionale. La questione è conosciuta come “derisking”, un riferimento al modo in cui le banche cercano di evitare i rischi invece che gestirli, e prosegue ormai da circa tre anni, soprattutto come conseguenza indesiderata degli aumentati sforzi per contrastare i finanziamenti al terrorismo. «L’incapacità di ottenere assistenza umanitaria per i profughi di conflitti politici o catastrofi naturali può portare a morire di fame, assideramento o malattie», ha concluso un rapporto del 2016 della Banca Mondiale. «A essere danneggiati dal derisking sono soprattutto i vecchi e i giovani, che per questo stanno letteralmente morendo».
Secondo uno dei due nuovi studi che mostrano per la prima volta la portata degli effetti che il derisking ha avuto sulle organizzazioni che si occupano di aiuti nelle zone interessate da catastrofi, due terzi di tutti gli enti benefici americani che operano all’estero stanno avendo difficoltà nell’accesso ai servizi finanziari. «Sono rimasta sorpresa», ha detto Kay Guinane, direttrice di Charity & Security Network, una rete che lavora in zone di crisi e che ha sede a Washington: «Penso che nessuno di noi avesse idea di quanto grande fosse davvero il problema finché non abbiamo ottenuto questi dati».
L’altro rapporto, pubblicato il mese scorso dalla International Human Rights Clinic della Duke University School of Law e dal Women Peacemakers Program, che ha sede nei Paesi Bassi, ha scoperto che i finanziatori istituzionali come i governi occidentali, le grandi fondazioni e le banche trascurano sempre di più le organizzazioni per i diritti umani che concentrano il loro lavoro in paesi come la Siria o l’Iraq. Una di queste associazioni di cittadini fornisce un’istruzione laica ai bambini siriani, per contrastare quella delle scuole dello Stato Islamico. «I diritti delle donne e chi li difende finiscono spesso nel mirino di queste banche avverse al rischio e di questi enti regolatori troppo zelanti», ha detto Jayne Huckerby, professoressa di giurisprudenza alla Duke University e una delle autrici dello studio.
Il mondo sta affrontando la più grande crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale. Le Nazioni Unite calcolano che 65 milioni di persone siano state sfollate a causa del cambiamento climatico e della guerra, e che altri 20 milioni rischino di morire di fame. Somalia, Nigeria e Sud Sudan sono devastate da siccità e carestie; in Yemen un blocco guidato dai sauditi sta facendo morire di fame degli innocenti; il governo siriano blocca gli aiuti diretti al suo popolo e questo mese ha ucciso 80 civili usando delle armi chimiche. Recentemente il derisking ha portato anche alla chiusura di orfanotrofi in Libano e in Sudan, al taglio degli aiuti alle minoranze perseguitate in Myanmar e alla fine di programmi scolastici per gli studenti in Afghanistan, stando al rapporto di Charity & Security Network.
Il rapporto di Charity & Security Network, che è stato finanziato dalla Bill and Melinda Gates Foundation, sostiene di essere il primo studio empirico completo sull’impatto del derisking bancario sulle organizzazioni no profit. I 305 enti benefici presi in esame dallo studio hanno detto di aver subìto ritardi nei bonifici, richieste insolite di documentazione supplementare, tariffe maggiori e chiusure di conti bancari. La situazione è la conseguenza dei tentativi in buona fede di rafforzare i controlli sui finanziamenti al terrorismo seguiti agli attacchi dell’11 settembre 2001. Da allora il dipartimento del Tesoro americano ha classificato nove enti benefici statunitensi e altri 54 a livello mondiale come sostenitori del terrorismo. Dal 2009 nessuna organizzazione benefica statunitense è stata inserita nell’elenco, ma il rapporto sostiene che almeno 5875 organizzazioni delle circa 8665 totali con sede negli Stati Uniti e che operano all’estero siano state danneggiate dalle pratiche bancarie per colpire il terrorismo.
Un’organizzazione di Washington che si occupa di promuovere l’uguaglianza di genere nell’Africa sub-sahariana, in America Latina, in Libano e in altre zone del mondo, ha subìto dei danni dopo che il 10 marzo Citibank aveva congelato i suoi conti bancari. «I nostri assegni hanno iniziato a tornare indietro», ha raccontato un dirigente dell’ente, che ha chiesto che il nome della sua organizzazione non venisse pubblicato per paura di ritorsioni che potrebbero bloccarne ulteriormente le attività: «lavoriamo per migliorare la vita delle persone nel mondo. Non commerciamo armi o altre cose orribili. Sono fuori di me per la frustrazione».
Sue Eckert, autrice principale dello studio di Charity & Security Network ed esperta degli incroci tra economia e sicurezza nazionale, ha detto che la natura fondamentale dei finanziamenti al terrorismo sta cambiando, in parte per via dell’atteggiamento più severo adottato in primo luogo dalla banche nei confronti dei tradizionali flussi finanziari. «Per la maggior parte oggi i finanziamenti non arrivano attraverso canali formali», ha detto Eckert, sottolineando come i finanziamenti allo Stato Islamico spesso «derivino dal controllo fisico del territorio: dal petrolio, dalla vendita di reperti, dalle tasse e dall’estorsione, come nel caso dei riscatto per i rapimenti».
I soci delle banche riconoscono il problema. Rob Rowe, vicepresidente dell’American Bankers Association, ha detto che il caos generato dalla guerra civile in Somalia, per esempio, ha impedito alle banche di valutare la situazione. «Purtroppo le banche non possono mandare finanziamenti», ha detto Rowe, «valutano la cosa e dicono: “Non siamo in grado di distinguere un ente benefico che sta cercando di ottenere soldi per una famiglia che muore di fame da uno che è pronto a comprare una scorta di armi da fuoco per sparare ai civili. Non abbiamo informazioni sufficienti e non possiamo prendere la decisione. Se facciamo un errore siamo noi poi ad avere problemi».
Il settore finanziario è stato intimorito da un’ampia serie di sanzioni ad alto livello. Nel 2012 HSBC, la maggiore banca britannica, ricevette una multa di quasi due miliardi di dollari dopo che un’indagine del dipartimento di Giustizia statunitense giudicò insufficienti i suoi controlli sul riciclaggio di denaro. Nel 2014 BNP Paribas, che ha sede a Parigi, fu multata di quasi 9 miliardi di dollari per aver violato le sanzioni imposte contro Sudan, Cuba e Iran. Tra le altre cose, BNP è stata accusata di aver eliminato alcune informazioni da diversi bonifici in modo che potessero passare attraverso il sistema americano senza generare sospetti.
A volte è capitato che venissero chiusi anche i conti bancari di organizzazioni benefiche affermate. All’inizio del 2015 successe alla Syrian American Medical Society. A febbraio 2015 Chase Bank chiuse il conto dell’ente fornendo poche spiegazioni. Il dipartimento relazioni media di JPMorgan Chase non volle commentare la vicenda. «Durante il periodo del congelamento dei conti non potevamo trasferire soldi e non potevamo pagare il nostro staff negli Stati Uniti», ha raccontato Randa Loutfi, pediatra e direttrice dei programmi dell’organizzazione. I dirigenti della Syrian American Medical Society si affrettarono a cercare una nuova banca. Importanti istituzioni finanziarie, però, declinarono cortesemente la richiesta, perché il fatto che il nome dell’ente contenesse la parola “Syria” rendeva immediatamente le banche diffidenti. «Facemmo vedere alla banche la licenza con la quale lavoriamo, che arriva dal governo», ha detto Loutfi, «ciononostante molte banche erano spaventate. Avviarono le procedure e poi ci dissero: “Scusate, non possiamo continuare”». Ci sono voluti dei mesi perché l’organizzazione – che solamente nel 2014 ha curato circa 1,4 milioni di siriani – riuscisse a rimettere le sue finanze in ordine, finendo per dividere i suoi fondi tra tre piccole banche del Midwest americano.
Dal 2015 cinque banche diverse hanno chiuso i conti correnti di un’altra organizzazione con sede negli Stati Uniti, la Syria Relief & Development, che gestisce circa 30 ospedali in Siria e ha un programma per dare rifugio in Giordania ai profughi siriani. Mais Balkhi, una delle responsabili dell’organizzazione, che ha sede in Kansas, ha detto che avere a che fare con le banche è una delle difficoltà maggiori dell’ente: «Gli attacchi sono aumentati e le persone stanno morendo, ma a volte non siamo in grado di dare aiuto perché le banche ci chiudono i conti e ritardano le transazioni».
Gran parte dell’attenzione rivolta alla possibilità che le organizzazioni benefiche operino facendo da facciata al terrorismo si fonda su una semplice espressione: “particolarmente vulnerabili”. Dopo l’11 settembre, il clima di sfiducia nei confronti degli enti benefici è stato creato anche grazie a un’organizzazione molto influente ma poco conosciuta chiamata Financial Action Task Force, un gruppo di consulenza istituito negli Stati Uniti nel 1989 per combattere il riciclaggio di denaro. Subito dopo gli attentati alle Torri Gemelle, la Financial Action Task Force estese il suo campo d’azione ai finanziamenti al terrorismo, giudicando le organizzazioni no profit come “particolarmente vulnerabili” allo sfruttamento da parte dei terroristi. Nel giugno 2016, riconoscendo i danni causati agli enti benefici, la Financial Action Task Force decise di rimuoverli da questa classificazione. Negli Stati Uniti, però, il manuale usato dagli esaminatori delle banche statali e della banca federale che indagano sulle scorrettezze etiche e giuridiche delle banche segue ancora il vecchio standard, sostengono i portavoce di alcune organizzazioni benefiche.
Non sempre il derisking bancario è il problema più urgente che deve affrontare chi si occupa di fornire aiuti nei paesi devastati da crisi. Nel 2016 quattordici medici della Syrian American Medical Society sono stati uccisi in zone di combattimento, perlopiù a causa di bombe cadute su degli ospedali. Le difficoltà con le banche, però, aumentano i problemi. «Aggiungere i soldi a tutte le altre difficoltà è una cosa stupida», ha detto Loutfi, «ne abbiamo già abbastanza».
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