Quanto sono veri i documentari sulla natura?
Anche in quelli più apprezzati – come Planet Earth – ci sono alcune cose finte, a partire dai rumori: ma in altri casi sono molte di più
Negli ultimi giorni sta circolando molto online un video intitolato “Quanto sono falsi i documentari sulla natura”, realizzato dal filmmaker Simon Cade. Il video parte da Planet Earth II, la serie di sei puntate realizzata nel 2016 da BBC e trasmessa recentemente anche in Italia, considerata il miglior documentario sugli animali mai realizzato per la qualità e la spettacolarità delle riprese. L’autore parte da un’osservazione tanto evidente quanto trascurata, quando si guarda Planet Earth II: la grande maggioranza dei suoni che si sentono sono finti. E il motivo è piuttosto ovvio: come si fa a catturare con un microfono i suoni prodotti da un orso polare a decine di metri di distanza?
Cade specifica subito che la sua non è in nessun modo una critica agli autori di Planet Earth II, che non potevano fare diversamente: le riprese sono caratterizzate da una grande drammaticità e sono molto cinematografiche, e accompagnarle con i rumori registrati dalla telecamera, che comprendono per esempio le pale degli elicotteri in movimento, le rovinerebbe. In certi casi, quando si riprendono gli animali da lontano, i rumori non ci sarebbero proprio. Quando Planet Earth II è stato trasmesso in Regno Unito, lo scorso autunno, alcuni utenti dei social network si sono lamentati del fatto che i rumori fossero finti.
Alcuni giornali avevano ripreso le critiche e per un po’ si era parlato della questione, come era già successo in occasione di La caccia, un’altra serie di documentari di BBC usciti nel 2015. Allora la sound engineer della serie Kate Hopkins aveva spiegato che il rumore di un orso polare che camminava sulla neve era stato ricreato sbriciolando grumi di una polvere alimentare e cristalli di sale, mentre quello di ossa spezzate era stato simulato spezzando del sedano, e quello di una carcassa smembrata da un predatore sbucciando lentamente un’arancia.
Ma nonostante qualche indignazione, diversi esperti erano intervenuti in difesa dei produttori della serie. Matt North, un fonico freelance esperto di mixaggio e post produzione, aveva spiegato che quello utilizzato dai produttori di Planet Earth II era l’unico modo per rendere coinvolgente il documentario, e aveva notato che presentare la questione come una scoperta era un po’ offensivo verso gli spettatori, per i quali è piuttosto facile accorgersi che molti suoni non possono essere stati registrati per davvero. Poi però aveva capito che i meno esperti avrebbero potuto facilmente essere tratti in inganno, proprio per la natura molto immersiva dell’esperienza che prova chi guarda la serie. North aveva ipotizzato anche che vista la complessità di molte scene, è probabile che i cameraman abbiano dovuto comunicare spesso tra loro per coordinarsi, producendo rumori che sarebbero poi dovuti essere tagliati.
Nel video, però, Cade prosegue la sua analisi sui documentario spiegando che quella dei suoni ricreati in studio è solo una parte delle finzioni utilizzate. Anche in questo caso, la premessa è che non è una colpa o una truffa dei produttori della serie, ma un artificio che serve a rendere Planet Earth II più coinvolgente, e ripagare gli anni di riprese che sono stati necessari per mettere insieme tutto il materiale. La serie di BBC è una di quelle con il budget più alto, tra i documentari naturalistici: questo consente ai produttori di passare giorni per riprendere lo stesso animale, accumulando molte ore di materiale. Quando viene il momento di montarlo in uno spezzone di pochi minuti, nella stragrande maggioranza dei casi vengono utilizzate riprese fatte in momenti e contesti diversi, magari anche ad animali diversi, messe insieme in modo che sembrino riferirsi alla stessa scena. Un esempio che fa notare Cade nel suo video: quelle che vediamo nei documentari nella maggior parte dei casi non sono famiglie, anche se spesso viene data quell’impressione. L’obiettivo di queste tecniche è rendere più coinvolgente il documentario attraverso l’umanizzazione degli animali, simile a quella che fa Pixar nei suoi film. Per lo stesso motivo la musica ha un’importanza fondamentale, e viene scelta e composta accuratamente.
Secondo Cade, ci si rende conto dell’importanza e dell’efficacia della narrazione nei documentari di Planet Earth II se si pensa a quanto è importante per lo spettatore sapere come va a finire la storia di un animale: nel caso di un piccolo di caribù inseguito da un lupo, per esempio, saremmo soddisfatti se non venisse mostrata la fine? In cui peraltro il caribù si salva? Un discorso simile riguarda il “tifo”: se lo spezzone è incentrato sui caribù che devono cercare di sopravvivere, noi spettatori speriamo che il caribù si salvi. Se invece i protagonisti sono i lupi, che devono riuscire a cacciare una preda per dare da mangiare ai propri piccoli, è probabile che faremo il tifo per i lupi. La giornalista di The Verge Elizabeth Lopatto ha chiesto al produttore di BBC Huw Cordey, che ha lavorato alla serie La caccia del 2015, perché raramente vengono mostrate le riprese in cui i mammiferi vengono sbranati dai predatori. Cordey ha spiegato che lo scopo del documentario era raccontare le strategie di caccia, facendo empatizzare gli spettatori nei predatori: ma l’empatia sarebbe probabilmente venuta meno se avessero mostrato un cerbiatto squartato.
Come fa notare lo stesso Cade, un documentario che evitasse tutti questi stratagemmi narrativi sarebbe estremamente noioso: riprese non editate di natura, senza musica, senza rumori. Planet Earth II, conclude Cade, riesce a bilanciare molto bene il realismo e la finzione, con il risultato che è un documentario emozionante e spettacolare, che ha avuto un successo di pubblico enorme senza ricorrere ad altri trucchi utilizzati da altri documentaristi, e in alcuni casi anche da BBC. Nel 2011, per esempio, si scoprì – da alcuni video diffusi dalla stessa BBC – che alcune riprese di cuccioli di orsi polari inserite nel documentario Frozen Planet erano state fatte in uno zoo olandese: il narratore, David Attenborough, non diceva che fossero allo stato brado ma neanche che erano nati in cattività. È una pratica in realtà molto diffusa, che Attenborough stesso ha difeso citando la sicurezza dei documentaristi e degli animali.
Uno dei casi più famosi di finzione nei documentari sulla natura risale al 1958, quando Disney produsse il documentario Artico selvaggio. In una scena diventata molto famosa venne mostrato un gruppo di lemming, delle specie di piccole marmotte, mentre si buttavano da una scogliera. La voce narrante spiegava che si stavano suicidando, e che erano gli unici animali con questo tipo di comportamento. Il documentario vinse l’Oscar ma si scoprì poi che la scena era stata organizzata, e i lemming erano stati spinti dai documentaristi a buttarsi dal dirupo.
Forme di finzione meno plateali continuano ancora oggi: Chris Palmer, un documentarista che ha scritto un libro sull’argomento, ha spiegato allo Huffington Post che per esempio capita che i produttori mettano delle caramelle nelle carcasse per attirare gli orsi, o che alcune sequenze siano fatte al computer (non in Planet Earth). Capita anche che alcune scene di lotta o di caccia siano organizzate dai produttori: come ha spiegato Palmer sul sito Documentary.org, questo succede soprattutto a quei documentaristi che non hanno molto budget, e devono mettere insieme del materiale valido in poco tempo. Non possono aspettare ore che succeda qualcosa di interessante agli animali, e allora intervengono. Se si tratta di fare in modo che una mosca finisca nella ragnatela di un ragno, non ci sono molte obiezioni: sarebbe inutile aspettare ore che succeda. Ma se si tratta di dare una scimmia in pasto a un boa? Succede, in natura, ma non sarebbe sbagliato farlo succedere?
Anche perché una conseguenza di creare artificialmente le condizioni per queste scene può comportare una percezione sbagliata nel pubblico. È quello che è successo a Randy Wimberg, un documentarista che qualche anno fa stava facendo delle riprese sugli squali vicino alle isole Bikini, nel sud del Pacifico. Wimberg si chiuse in una gabbia appesa a una barca, mentre i suoi colleghi cominciarono a tirare delle esche. Presto arrivarono gli squali, ma alcuni pezzi di carne usati per attirarli finirono nella gabbia: gli squali cominciarono a dare colpi alla gabbia per cercare di prenderli, finché uno ne ruppe un pezzo e riuscì a entrare e rimase incastrato, Wimberg provò a spingerlo fuori, senza riuscirci: sapeva che lo squalo si sentiva minacciato e avrebbe potuto attaccarlo, quindi uscì dalla gabbia. Ma il tutto era stato in qualche modo voluto, ha raccontato Palmer: in un’altra gabbia c’era un altro cameraman che riprese tutto, ottenendo una scena molto emozionante. Nel documentario finale non venne spiegato che erano state usate esche, e quindi la percezione data agli spettatori fu che gli squali siano propensi ad attaccare gli umani, quando in realtà è un fenomeno molto raro. E in tutto questo, Wimberg aveva rischiato grosso.