Lo Xanax sta cambiando la musica americana
L'influenza dell'uso di oppioidi e psicofarmaci sui cantanti moderni è sempre più evidente, un po' come succedeva in passato con i generi musicali più popolari, scrive il Washington Post
di Chris Richards – The Washington Post
Droghe e musica. Musica e droghe. A volte vanno di pari passo. Perlomeno nell’immaginario popolare. Se il jazz era perseguitato dall’eroina, il rock è sbocciato con gli acidi, i beniamini della disco music si agghindavano fatti di cocaina e l’emotività dei frequentatori di rave aumentava con l’ectasy, il recente singolo di Lana del Rey, “Love”, ha il suono di due milligrammi di Xanax ridotti in polvere e abbandonati a una brezza del Pacifico all’interno della mente di chi ascolta. “Don’t worry, baby”, canta ripetutamente Del Rey nella conclusione delicata della ballata, con la voce che cade in basso e l’articolazione delle parole che si fa fiacca. È il tipo di canzone che ti solleva pacatamente e ti porta fuori dalla tua vita, per poi scomparire.
Ascoltare “Love” sotto Xanax potrebbe sembrare ridondante, ma nell’America sclerotica di oggi – in cui le persone in cerca di sollievo ingurgitano oppiodi e benzodiazepine in quantità record – il legame tra i suoni e gli stupefacenti sembra essere dilagante. In un periodo in cui tutti quanti sembrano fare uso di droghe, la musica di tutti gli artisti ha sempre più il suono di un “pop da pasticca”.
Si potrebbe sostenere che farmaci e musica pop siano sempre andati in parallelo piuttosto che in tandem, visto che entrambi cercano di alleviare i sintomi di un’epoca. Ma gran parte della musica americana di oggi richiede esplicitamente di essere ascoltata in contesto farmacologico. I nomi dei marchi dei medicinali continuano a spuntare nelle canzoni, soprattutto nella musica rap, dove Xanax, Percocet e altri medicinali vengono da tempo lodati per la loro capacità di anestetizzare l’agonia dell’esistenza. Anche il “pop da pasticca” del 21esimo secolo ha un suono. È liscio, morbido e fermo. Un’avversione alle svolte impreviste. Non è una cosa nuova, ma è sempre più diffusa. Lo si può sentire nel falsetto sedativo di The Weeknd, nella rilassatezza imperturbata di Rihanna, nelle strofe più morbide di Drake e persino negli angoli più smussati di Justin Bieber. Sulle piste da ballo emerge in maniera più evidente nel ritmo smorzato della tropical house, uno stile più delicato che Kygo e altri importanti produttori hanno usato per mitigare l’intensità di diversi festival di musica dance elettronica degli ultimi anni.
In un certo senso la musica moderna è sempre stata “musica da pasticche”. Stupefacenti e pop furono cuciti permanentemente nel tessuto culturale americano poco dopo la Seconda guerra mondiale, quando una serie di nuove sostanze psicotrope venne introdotto sul mercato, più o meno nello stesso periodo in cui nasceva il rock and roll. Da allora entrambi sono una fonte di consolazione, un parallelismo che di sicuro è ancora presente anche in Lana Del Rey, le cui ninna nanne poco appariscenti evocano spesso il fascino offuscato del sogno americano dei tempi andati.
Nella musica rap, dove gli artisti si preoccupano di più di controllare il futuro, c’è chi ha tentato di ricreare gli effetti della psicotropia contemporanea, mentre altri hanno lottato per disintossicarsi. In “Coloring Book”, il suo disco del 2016 vincitore di un Grammy, Chance the Rapper ha messo in rima l’abbandono della sua dipendenza da Xanax: «Last year, got addicted to Xans/Started forgetting my name and started missing my chance». In un pezzo del 2014, Schoolboy Q ha raccontato le sue sperimentazioni con un intero armadietto di farmaci da prescrizione: «Percocets, Adderall, Xanny bars, get codeine involved/Stuck in this body high, can’t shake it off». L’anno scorso, in una della sue canzoni, Isaiah Rashad ha parlato con disprezzo della dipendenza da Xanax che gli è quasi costata la carriera: «Pop a Xan, baby. . . . Only pop it ’cause you heard it in a song».
Poi c’è Future, l’innovatore della scena di Atlanta che potrebbe passare alla storia come il più appassionato promotore del sollievo farmacologico della storia della musica popolare. Future si è sempre presentato come un rinnegato, ma dal momento che le sostanze di cui pare abusi (Xanax, Percocet, Vicodin, Actavis, eccetera) sono tutte accessibili anche ai non-rinnegati, le sue spacconerie sui narcotici hanno un’aria più intima. Future porta il brivido del pericolo delle droghe/farmaci un po’ più vicino, anche se manda giù più pasticche del resto di noi. «Oh, ti sei drogato più di me», chiede in un pezzo del suo ultimo disco, «devi avere le allucinazioni». Sarà. Anche da sobri, è facile subire il fascino delle vertigini nelle canzoni di Future.
Il ruolo che i farmaci da prescrizione hanno avuto nella morte di alcune delle nostre popstar più amate, soprattutto nell’ultimo decennio, fa riflettere più intensamente. Michael Jackson, Whitney Houston e Prince sono morti con antidolorifici, ansiolitici, o un mix dei due, che circolavano nel loro corpo. E dal momento che negli Stati Uniti oppioidi e benzodiazepine vengono molto comunemente prescritti in combinazione, ognuna di queste morti sconvolgenti è sembrata stranamente familiare. Gli dei del pop, indistruttibili nelle loro canzoni, sono morti assumendo gli stessi farmaci che prendono tutti.
Indipendentemente da quanto direttamente stiano alterando il modo in cui viene prodotta la musica moderna, i farmaci moderni stanno influenzando in maniera più significativa il modo in cui quella musica viene ascoltata. Mentre i servizi di streaming online prendono piede al centro della cultura musicale, i farmaci continuano a plasmare le nostre abitudini di ascolto in modi che sembrano del tutto compatibili con un uso abituale di Xanax a scopo ricreativo. Lo streaming è pensato per sembrare un servizio cool che non disturba. Promette un ascolto fluido e privo di frizioni: un’esperienza del tutto prevedibile, anche quando non si ha un’idea precisa di quale sarà il brano successivo. La maggior parte degli algoritmi che generano i consigli d’ascolto nelle piattaforme più importanti sono progettati per suggerire musica simile a quella che si sta già ascoltando. Invece di “farsi un viaggio”, lo streaming permette di restare fermi. Il suono inonda l’ascoltatore, fluido e costante. In questo senso, l’estetica del “pop da pasticca” e l’esperienza dello streaming musicale vanno a braccetto. Realizzare un singolo di successo usando eleganti sintetizzatori, una morbida batteria elettronica e mormorii aggiustati con Auto-Tune potrebbe bastare per coinvolgere il pubblico, ma non è sufficiente per conquistarlo. Il dominio appartiene alle superstar disposte a replicare il loro suono morbido in massa per poi presentarlo sulle piattaforme di streaming, come hanno fatto di recente Drake e The Weeknd con i loro dischi di grandissimo successo ed eccessivamente lunghi in modo sfacciato (“More Life” e “Starboy”, rispettivamente).
Invece di creare suoni nuovi o stili innovativi, questi artisti stanno definendo l’epoca attuale muovendosi comodamente avanti e indietro all’interno del loro territorio conosciuto. Per una pop star è una cosa tanto pigra, priva di immaginazione e orribile? Nell’America di Donald Trump è difficile capire quale sia il proprio territorio familiare, e le nostre priorità psicotrope sono cambiate. Una volta volevamo essere sbalorditi. Ora preferiamo farci massaggiare la mente.
Di certo il suono capace di soffocare l’ansia del “pop da pasticche” è destinato a contribuire alla definizione di questo momento nella nostra memoria collettiva, nello stesso modo in cui il rock della fine degli anni Sessanta pulsa ancora oggi come una visione sotto LSD, o quello in cui il glam metal della metà degli anni Ottanta evoca ancora la cocaina. Per il momento, però, speriamo che nella nostra tranquillità farmacologica ci siano delle grandi verità. Invece di cercare l’illuminazione con un acido, forse possiamo trovare la grazia con una pillola, o un nuovo disco di Lana Del Rey.
© 2017 – The Washington Post