«Il lettore vuole un pizzico di dramma»
È una delle cose che spiegano i protagonisti del romanzo di Enrico Franceschini sul giornalismo italiano, le sue sciatterie e la sua umanità
Enrico Franceschini, corrispondente del quotidiano Repubblica da più di trent’anni e moltissimi posti (ora a Londra da tanto), ha pubblicato un romanzo per Feltrinelli, Scoop, dedicato alla vita e al lavoro degli inviati all’estero nel giornalismo italiano e immediatamente precedente l’introduzione di internet. Il romanzo è insieme una spietata presa in giro delle debolezze e cialtronerie del mestiere ma anche un’affezionata celebrazione dell’umanità e passione dei suoi protagonisti. Franceschini, che ha sessant’anni, costruisce un giovane protagonista per fare immedesimare il lettore nelle sue ingenuità e curiosità: nella storia il giovane redattore viene spedito per un equivoco a scrivere di una rivoluzione sudamericana che non c’è, ma i suoi arrabattati reportage attirano l’attenzione competitiva degli altri giornali e generano una vera rivoluzione e una storia: nelle pagine che seguono il suo desolato albergo viene improvvisamente affollato da più esperti colleghi arrivati a coprire l’evento inesistente (e a renderlo reale).
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“Ti andrebbe una brioscina?”
La voce lo fa sobbalzare. Dal tavolo alle sue spalle, lo ha raggiunto camminando a piedi nudi sull’erba un tipo sulla sessantina abbondante. Statura media, capello grigio portato lungo, panza prominente, aria da marpione. Andrea, esterrefatto, non spiccica parola.
“Be’, hai perso la voce? Ti ho chiesto se ti andrebbe una brioche. Ho visto che è un pezzo che fai la posta alla cameriera. Te ne offro una delle mie.”
Il sorriso è gentile, il tono anche. E poi finalmente qualcuno gli parla. In italiano, addirittura. “Be’, sì, grazie, mi andrebbe… ho una fame boia a dire la verità.”
“E magari vorresti anche un caffè, eh?”
Andrea fa cenno di sì, il suo benefattore strizza l’occhio alla stessa cameriera che lo aveva ignorato un attimo prima, “un cafecito por el mi amigo, Consuelo,” chiede nel suo spagnolo maccheronico, lei accenna un inchino e parte come un razzo a prendere il cafecito.
“Ma come ha, come hai, come avete fatto?”
“Che fai?, mi dai del voi? Oh, Consuelo è una vecchia amica. La conosco da quando aveva vent’anni. È ’na vita che vengo al Camino Real. Anche se mancavo da qualche anno, dall’ultimo golpe per essere precisi. Li fanno a cadenza triennale, ormai. Una volta erano meno frequenti, ma scorreva più sangue. Anche i golpisti non sono più quelli di una volta! Ma qui hanno buona memoria. Anche perché noi li aiutiamo a rinfrescarsela. Consuelo non mi ha dimenticato.”
Consuelo è già tornata, con una cuccuma di caffè fumante e due tazze: “Para vosotros, mi amor,” dice all’interlocutore di Andrea, poi gira sui tacchi e va a occuparsi d’altro.
“Be’, allora grazie,” ripete Andrea versandosi il liquido nero. “E complimenti. Non so come ha, come hai…”
“Senti giovanotto, tu fai il giornalista vero?”
“Diciamo che l’ho fatto per un po’ e vorrei continuare a farlo, ma non sono più così sicuro di esserne capace… e nemmeno che me lo lasceranno fare ancora a lungo.”
“Be’, fra giornalisti ci si dà del tu, non lo sapevi? A parte con i direttori, naturalmente. Ma io in quella categoria non tengo a entrarci: ci si diverte molto di più in questa. E comunque sarebbe tardi, alla mia età. Qua la mano, compare: Leandro Tarchetti.”
Andrea gliela stringe e dice il suo nome.
“Oh, lo so benissimo chi sei e per chi scrivi. Lo sappiamo tutti. Ti abbiamo adocchiato subito. Perché credi che siamo arrivati tutti qui in branco? Per il tuo primo articolo.”
“Be’…” Muratori è quasi inorgoglito di aver provocato un tale sconquasso.
“Ma non per quello che hai scritto o per come l’hai scritto, scusa se te lo dico, eh?” lo smonta subito l’altro. “Abbiamo pensato che se quella vecchia volpe del tuo direttore aveva mandato qui uno sconosciuto, doveva esserci sotto qualcosa. E allora bisognava non farsi fregare. Ma uno è stato più veloce ed è riuscito a fregare te e noi. Quello là.”
Indica un uomo pelato sul bordo opposto della piscina, con mazzetta di giornali sul tavolo ancora intonsa, colazione non toccata, sigaretta fra le dita, cameriere e camerieri che pendono dalle sue labbra. Sembra concentrato su di sé, ma si accorge con la coda dell’occhio di essere nell’obiettivo del collega Tarchetti e, interrompendo il suo fiume di parole in piena, mette le mani a imbuto davanti alla bocca e fa, “vecchio mignottone, lascia stare i regazzini”, strizza l’occhio, spara una pernacchia e ricomincia a concionare il suo uditorio.
Tarchetti fa un cenno di assenso e intanto fa ruotare le dita come a dire che quello parla, parla, parla.
“Ercole Bertoldi. L’Ercole delle parole. Logorroico quando parla e quando scrive. Ma, bisogna ammettere, forse il più bravo a scrivere e certo il più bravo a inventare. Il tuo articolo è stato l’amo. Ma il suo è stato la balena che ha abboccato e ci ha fatto correre tutti qui. Solo che ormai il colpo grosso l’ha fatto lui. Tenendo conto di quanto ci vuole per arrivare a Esmeralda dall’Italia, secondo me lo ha scritto da Città del Messico… o magari ancora prima di partire, da Roma.”
Andrea ascolta, incantato, senza neanche capire bene cosa sente. Intanto ha finito la brioche e si è persino imburrato una fetta di pane tostato.
Tarchetti ferma al volo Consuelo di ritorno e le ordina una birra. “Una cerveza anche per te, giovanotto?”
Lui scuote la testa: “No grazie, magari un altro caffè”.
Il suo nuovo amico si accende una sigaretta e gliene offre una.
Scuote di nuovo la testa: “Non fumo, grazie”.
“Non bevi, non fumi… ma che cazzo di giornalista sei?! Non mi dire che non fai nemmeno un’altra cosa,” lo apostrofa l’altro, poi si accorge che ci è rimasto male e gli dà una pacca sulla spalla, ridacchiando, “ti insegnerò io, vedrai che questo viaggio sarà il tuo battesimo del fuoco.”
Andrea dice che sarebbe già contento se riuscisse a trasmettere in tempo il prossimo pezzo, ammesso che riesca a scriverne uno.
“Ti ho visto ieri sera,” commenta Tarchetti sorseggiando a collo la cerveza. “Hai dato la mancia al portiere?”
“Quando sono arrivato?”
“Ma no! Quando hai prenotato la telefonata.”
Silenzio.
“Qui devi ungere, è il primo comandamento. Ungere sempre, a buon rendere: tanto non sono mica soldi tuoi, no?”
“Le mance si mettono in nota spese?”
“Non credi? Poi te lo insegno io, come si fa una nota spese. Comunque la mancia al portiere, quando vuoi telefonare al giornale, è obbligatoria. Gliel’abbiamo data tutti.”
Andrea finisce il secondo caffè, rimuginando. Deve starlo ad ascoltare? Gli dà buoni consigli o vuole prenderlo in giro?
“Ma se gliela danno tutti, la mancia, come fa il portiere a decidere l’ordine delle telefonate?”
Tarchetti sorride per l’ingenuità della domanda.
“Dipende da chi gliela dà più grossa. E dal grado di conoscenza che il portiere ha con ognuno di noi. I portieri d’albergo hanno la memoria lunga: magari uno gli ha fatto un favore speciale, gli ha portato qualcosa dall’Italia, la volta scorsa o due volte fa… ci sono debiti di riconoscenza di cui gli altri non sanno nulla. In ogni modo,” segnala a Consuelo la richiesta di una seconda birra, “il portiere sa come fare tutti contenti o come non lasciare nessuno scontento. Tranne te, naturalmente, l’unico che non gli ha mollato neanche un dollaro. Ma non devi prendertela, non è cattiveria. Anzi, dovresti essergli grato. Ti ha dato una lezione, affinché tu possa imparare. Così la prossima volta non sbaglierai. Quindi corri subito a dargli una mancia per stasera e il tuo articolo stavolta arriverà in tempo.”
Ercole Bertoldi deve aver terminato la sua arringa ai camerieri: si muove verso un tassista sul vialetto che porta al piazzale davanti all’albergo.
“Non ringraziarmi, giovane Andrea,” riprende magnanimo Leandro. “Sono stato un novellino anch’io. Lo sono stati anche tutti loro, compreso Ercole. E tutti abbiamo avuto bisogno di lezioni.”
“Ma tu sei il primo che mi rivolge la parola.”
“Certo. Anche questo fa parte delle regole. Nessuno dei grandi inviati rivolge la parola a un novellino, all’inizio.”
“E… tu… allora?”
“Per me è diverso. Io sono un ex grande inviato. Lavoro per un piccolo giornale, adesso. Hai presente un giocatore dell’Inter che passa all’Atalanta a lottare per non retrocedere e poi finisce nel Como in serie B?”
“Non hai l’aspetto di un giocatore di serie B.”
“Io non ho più ambizioni, né di carriera né di prestigio. Me ne frego. Non mi impegno. Non mi preoccupo di fare scoop, né di sgambettare la concorrenza. Mi godo la compagnia, i viaggi… e i benefit che se ne ricavano. Ma questi te li spiego un’altra volta. In un certo senso non mi sono mai divertito tanto, è un modo più rilassante di lavorare. Anche se, senza l’adrenalina della battaglia, della rivalità con gli altri, non è proprio più la stessa cosa. Ma pazienza. Gli anni passano, la vita va avanti, la pensione si avvicina… Però ho un secondo consiglio importante. Hai visto Bertoldi che parlava con quell’autista? Tu ne hai uno?”
“Sì, ce l’ho… si chiama Pedro, non mi ha mollato un secondo finora.”
“Finora, appunto. Diciamo che ce l’avevi, l’autista. Lo conosco Pedro, è un brav’uomo. Un buon autista. Ma se non stai attento te lo porteranno via e domattina prenderai un altro buco, partiranno tutti e tu resterai qui da solo in albergo a perderti un’altra storia da prima pagina.”
“Domattina? Quale storia?”
“Ma dai! Domattina ci sarà la spedizione nell’entroterra in cerca del primo contatto con i guerriglieri che scendono dalle montagne verso la capitale,” dice divertito Tarchetti accendendo l’ennesima sigaretta.
“Ma… ma… tu come diavolo fai a sapere che i guerriglieri scendono dalle montagne? E che domattina li incontrerete?”
Gli spiega che è sempre così. Il primo articolo descrive la capitale in preda alla tensione, le luci accese fino a tardi nel palazzo presidenziale, l’eco delle cannonate che risuonano lontane dalle montagne, le pale degli elicotteri che ronzano, ronzano, ronzano, come quelle di un ventilatore. Il secondo articolo è sempre l’incontro con i guerriglieri al limitare della giungla, sullo stile dello scoop dell’incontro di Bertoldi con il comandante del fronte di liberazione.
Andrea, che non l’ha letto, vorrebbe saperne di più.
“La solita paccottiglia. Si sarà inventato tutto. Scritto bene come al solito, però. Dorato crepuscolo sulla foresta tropicale. Il suo repertorio. Gli viene che è una meraviglia.”
Il terzo articolo, continua Tarchetti, descrive i primi scontri armati alla periferia della città. Il quarto è la brutale repressione dell’esercito, rappresaglia sui campesinos che hanno ospitato i guerriglieri in un villaggio, torture per estorcere confessioni, le donne che piangono stringendo al petto i figli mentre i soldati portano via i mariti. E così di seguito.
“Ma dai, non scherzare! Come puoi prevedere che andrà a finire così? Qui non sta succedendo proprio un bel niente, e tu mi stai prendendo per i fondelli.”
“Allora faremo succedere qualcosa noi con i nostri articoli, altrimenti ci richiamano a casa fra due giorni, e addio vacanza ai Tropici e note spese. Credimi: va sempre più o meno come ti ho detto, naturalmente con qualche piccola variante. Un po’ perché i conflitti si somigliano tutti. Un po’ perché siamo sempre noi, sempre gli stessi, a raccontarli. E quando hai raccontato due-tre volte un golpe o una rivoluzione, ti accorgi che è sempre la stessa storia: potresti ripubblicare l’articolo di tre anni prima con date e nomi cambiati e non se ne accorgerebbe nessuno. Del resto, i lettori sono abituati a questo tipo di racconti. Sono come i gialli di Maigret, la trama cambia ma l’atmosfera è sempre la stessa. E noi per intrattenerli cambiamo il paese. Una volta la storia si svolge tra le risaie dell’Indocina, un’altra tra le dune e le oasi nel deserto, un’altra ancora lungo un fiume limaccioso nel cuore di tenebra africano… Oppure, come adesso, nel fitto della giungla latinoamericana.”
Andrea ascolta come se gli venisse raccontata una favola prima di addormentarsi. E va be’, saranno balle, si starà prendendo gioco di lui, ma è divertente ascoltare questo vecchio panzone. Imburra un altro toast, ci aggiunge la marmellata, si versa una terza tazza di caffè. Ma come si sceglie lo scenario? Perché adesso sono in questa giungla latinoamericana, dove secondo l’ambasciatore italiano non sta succedendo un bel nulla?
“Per prima cosa, non dare retta a quello che ti dicono gli ambasciatori. Non vogliono guai, non vogliono giornalisti in mezzo ai piedi, non vogliono notizie. Se succede qualcosa, vogliono essere loro a rivelarlo per primi al ministero degli Esteri con un telegramma. Avrei voluto vedere la faccia del nostro ambasciatore a Esmeralda, quando è uscito l’articolo di Bertoldi! Gli sarà venuto un colpo… Comincia una nuova guerra fredda tra Usa e Urss e lui non ha avvertito il ministero! Io mi faccio un tuffetto per rinfrescarmi, e tu?”
Andrea fa segno di no. L’altro si toglie maglietta e calzoncini, scalcia via le ciabatte e in due balzi è in acqua. Fa soltanto un paio di bracciate, esce, si avvolge nell’asciugamano dell’albergo che la solerte Consuelo è venuta a portargli, ordina una terza birra, accende ancora una sigaretta e torna a sedersi vicino a lui.
“Insomma: non bevi, non fumi, non ti tuffi in piscina… che fai per rilassarti?”
“Be’, non so, leggo un libro… Ne avevo portati con me una caterva, ma le mie valigie si sono perse tra Milano e Città del Messico, non le hanno ancora ritrovate.”
“Un inviato viaggia sempre solo col bagaglio a mano. Quel che non riesce a mettere in valigia, lo compra con i soldi del giornale quando arriva sul posto e poi casomai la valigia se la compra per il viaggio di ritorno.”
Andrea preferisce non esibire gratitudine per l’ennesima volta. Se c’è da imparare, imparerà. Piuttosto, torna alla questione che gli sta più a cuore capire.
“Ma perché siamo qui nella giungla dell’America Centrale e non, che so, in una risaia dell’Estremo Oriente?”
Tarchetti butta fuori il fumo con voluttà, come se riflettesse. Invece pensa che gli piace fare da maestro a questo pivellino. Gli affiorano alla memoria tanti ricordi di quando anche lui era giovane e ingenuo. Dovrebbe scrivere un libro di memorie. Ma non è il tipo a cui la sera piaccia stare chiuso in casa a scrivere. C’è sempre di meglio da fare.
“Vedi,” risponde, “in genere nel mondo ci sono almeno mezza dozzina di guerricciole nello stesso momento. Chi può decidere qual è davvero la più importante, quella che merita l’attenzione del pubblico italiano, non così vasto in fondo e soprattutto lontano dagli eventi? Nessuno. È tutto assolutamente opinabile, una guerricciola vale l’altra. E dunque decidono i direttori, i caporedattori, insomma i giornali, in altre parole noi giornalisti. Decidiamo noi. E decidiamo in base a un principio elementare: la noia. Dopo un mese o due che raccontiamo nel dettaglio un conflitto nel Corno d’Africa, un caporedattore si stufa di leggere tutte le mattine la stessa solfa su leoni, watussi e cacciatori bianchi, richiama a casa l’inviato di guerra e dopo un po’ lo spedisce a seguire una guerretta in Asia. Non appena viene pubblicato il primo articolo sulla guerretta in Asia, un paio di altri direttori o redattori capi pensano: abbiamo esagerato con il Corno d’Africa, chi se ne frega di come finirà quella guerra, tanto più che probabilmente non finirà mai del tutto. Così richiamano anche loro gli inviati dall’Africa e li spediscono dietro a quell’altro in Asia, perché temono di prendere un buco e di aver valutato male quale sia il conflitto più importante. Nel giro di una settimana, come per una specie di contagio, si sono trasferiti tutti dall’Etiopia alla Cambogia. Perché la prima regola dei giornali è non credere mai in se stessi, bensì solo nella concorrenza, o – meglio ancora – nell’uniformità delle notizie. Il giornale ideale è quello che dà la stessa notizia in prima pagina dallo stesso paese con lo stesso titolo di tutti gli altri. Allora sì che sai di essere nel giusto.”
Andrea si gratta pensoso la testa.
“Prendiamo il lettore per il culo,” conclude.
“E perché mai? Per il lettore non fa nessuna differenza. Quelli che conoscono le situazioni internazionali e sono in grado di distinguere hanno altre fonti, perlopiù estere, l’‘Herald Tribune’, il ‘Times’, ‘Le Monde’. Non hanno bisogno di noi giornalisti italiani per sapere cosa succede e perché. Quello che vogliono tutti gli altri, diciamo i lettori medi, è un bel racconto esotico per distrarsi la sera, dopo cena: e dunque Africa, Asia, America Latina… qualsiasi folkloristico buco del culo del mondo, qualsiasi luogo dove il povero lettore non andrebbe mai in vacanza ma che un po’ lo affascina va benissimo. Vuole un pizzico di dramma, e noi glielo diamo.”
Andrea insiste: “Ma se il dramma non c’è, come ora in Cusclatán? Gli raccontiamo balle?”.
“‘Balle, balle’, che parolona insensata! In un modo o nell’altro il dramma viene sempre fuori da questi paesi. Vedrai se mi sbaglio. Intanto fai come ti ho detto: mancia al portiere e accordo con l’autista. Anzi, sai che ti dico? Di’ al tuo Pedro che saremo in due domani, così dividiamo il conto a metà e ti insegno un primo trucchetto con la nota spese. Ci vediamo domattina alle sei nella hall. Puntuale, eh? Ciao!”
(…)
La pacchia del Club Méditerranée infatti non dura. Una mattina, quando Andrea scende per la colazione trova la hall completamente invasa: ben più di quando ha assistito all’arrivo degli italiani. Stavolta ogni angolo della sala è riempito da una folla vociante, un cicaleccio in tutte le lingue che gli fa credere di trovarsi alle Nazioni Unite, dove peraltro non è mai stato. Inglese, francese, tedesco, giapponese o cinese, non saprebbe distinguerli, risuonano da ogni angolo della hall. Decine di inviati speciali provenienti da chissà quanti paesi sono in coda al check-in dell’albergo, attorniati da bauli, valigie, cineprese, cavi, tecnici, fotografi. In men che non si dica, al Camino Real non rimane neanche una camera vuota.
“Guaio, brutto guaio, bruttissimo guaio… anche se me l’aspettavo da un momento all’altro,” commenta Tarchetti.
“Non dovremmo essere orgogliosi? Tutta la stampa mondiale ci è venuta dietro.”
“I nostri colleghi stranieri sono gente che va a caccia di notizie. A loro non piace starsene sdraiati a prendere il sole in piscina.”
Gli americani – spiega Leandro – hanno più mezzi, più voglia di lavorare, più coraggio, e quelli sì che ogni tanto portano a casa uno scoop vero, che poi agli italiani tocca copiare il giorno dopo. Fortunatamente, scrivono da cani: qualsiasi articolo del “New York Times” è peggio di un bollettino dell’Ansa, sarebbe da riscrivere da cima a fondo. Non hanno verve, non sono brillanti, disdegnano gli aggettivi, scrivono come un appuntato dei carabinieri, ieri il tale ha fatto questo, questo e questo, partono dall’inizio della storia e te la spiegano come tu fossi sbarcato da Marte. Mentre gli italiani sanno che bisogna dare tutto per scontato, non dilungarsi in puntualizzazioni eccessive che fanno perdere il filo al lettore, piuttosto tenere insieme la storia per sommi capi, concentrarsi sui particolari eclatanti, iniziare dalla fine, magari con un po’ di suspense, e poi tornare all’inizio, se possibile con un collegamento tra lead del pezzo e chiusa in modo che sembri tutto più armonico.
I francesi somigliano agli americani come mezzi, voglia di lavorare e coraggio, ma tendono a scrivere il contrario di quello che scrivono gli americani: partono da un assunto ideologico. Un po’ come il collega Ribera, solo che lui scrive il contrario di quel che si aspettano i lettori e i francesi il contrario di quello che scrivono gli americani. Se gli americani sostengono che la guerriglia non combina niente, i francesi partono per le retrovie decisi a dimostrare che la guerriglia è il motore della storia. A differenza degli italiani, tuttavia, difettano di immaginazione, per cui se la guerriglia non la incontrano non scrivono un bel niente e addio reportage.
Gli inglesi sono come gli americani, ma con meno mezzi e meno ingenuità: hanno visto crollare un impero, il loro, gli sembra in effetti di sapere sempre tutto ancora prima che sia successo, un complesso di superiorità intellettuale di cui in Italia sappiamo qualcosa, avendo perduto a nostra volta un impero, seppure molto prima dei sudditi di Sua Maestà.
I giapponesi stanno sempre fra di loro, sorridono a tutti e hanno l’aria di non capire un accidenti: non c’è da biasimarli, poveretti, a cercare di spiegare ai figli del Sol Levante un posto come il Cusclatán che nemmeno gli europei sanno dov’è.
C’è il diffuso sospetto che i tedeschi siano i migliori, perfino meglio degli americani, ma Leandro non ha ancora trovato, nei tanti anni in cui ha girovagato per il mondo, un solo collega non tedesco che sappia leggere il tedesco, e se c’è certamente non si trova fra gli italiani: nessuno ha idea di che cosa ci sia davvero scritto sui giornali dei tedeschi, e dunque la loro bravura è condannata a restare un sospetto. Questo spiega perché, quando si vede citata la stampa straniera in Italia, si tratta sempre del “Times”, di “Le Monde” o di “El País”, scritti in lingue perlomeno masticabili, mai di “Die Welt” o dello “Spiegel”.
Tra quelli che invece gli italiani comprendono bene se non benissimo ci sono i “cugini” spagnoli. Non è solo un fatto di comunanza linguistica, sono anche quelli che somigliano di più agli italiani come carattere: spesso si esce in missione insieme, ci si fanno le note spese dei taxi a vicenda, si concorda cosa e come inventare, si va insieme anche a fare bisboccia… insomma, sono proprio brave persone. Il Cusclatán poi, e per estensione tutta l’America Latina, è terra loro, ex colonia spagnola, perfino il Brasile che colonia spagnola non lo è stata mai: dunque, con gli spagnoli si va sul sicuro, sanno bene come muoversi, da queste parti lo fanno da circa sei secoli.
E infine ci sono i solitari, come Erik, l’inviato di guerra della radio norvegese, ex commando delle forze speciali della Norvegia, sempre allegro, sempre pronto a partire, il più coraggioso, anche più degli americani: in breve, un pazzo furioso da cui è consigliabile stare alla larga, almeno fuori dall’albergo. In albergo, no, è un simpaticissimo compagnone, anzi è quello che beve di più, non si ubriaca mai e ha la voce migliore, le sere in cui Pierre, l’inviato di guerra di “Le Monde”, si mette finalmente al pianoforte e sembra di essere nella famosa scena di Casablanca.
In un modo o nell’altro, l’arrivo dei corrispondenti di guerra degli altri paesi spingerà anche gli italiani a uscire dal loro comodo rifugio, conclude Tarchetti. “Anche perché non abbiamo più tanto tempo. Sono tre settimane che raccontiamo ai lettori questo allegro posticino. Ne abbiamo al massimo ancora una o due per dare un degno finale alla vicenda. Poi i lettori si stancheranno, i direttori pure, il Cusclatán li annoierà a morte e noi verremo mandati a raccontare un’altra guerra da un’altra parte.”
- Luca Sofri: Cialtroni e pivelli