Le memorie dell’Asmarina
Il quartiere di Milano abitato dai figli e i nipoti degli eritrei che arrivarono in Italia negli anni Settanta vede un po' di cose cambiare
di Marina Petrillo
Da bambini a Milano, negli anni Settanta, in un piccolo rettangolo di città che si estende fra i bastioni di Porta Venezia e viale Tunisia, si gustava per la prima volta lo zighini, lo spezzatino eritreo da mangiare con le mani aiutandosi con il pane chiamato ‘njera. Se allora era una scoperta, oggi fa parte della storia della città. Ribattezzato Asmarina, un’Asmara in miniatura, il quartiere è ancora vivace e sempre più mescolato. Tanti suoi abitanti originari del Corno d’Africa sono qui anche da quarant’anni, e i giovani sono molto attivi, fra ristorazione e cultura pop. Il rapporto con la città è stato sempre ricco, con un momento di forte tensione solo nel 2008, quando un giovane di 19 anni, Abdoul Guiebre detto Abba, venne inseguito e ucciso a sprangate da due baristi che lo accusavano di aver rubato un pacchetto di biscotti. I due, padre e figlio, vennero poi condannati a più di quattordici anni di prigione per concorso in omicidio volontario aggravato da motivi abbietti e futili.
I primi abitanti dell’Asmarina arrivarono negli anni Settanta, con le tensioni e il colpo di stato in Etiopia del 1974, che intensificò la lotta per l’indipendenza del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo contro l’esercito etiope. Vent’anni dopo, col referendum del 1993, l’Eritrea ottenne l’indipendenza dall’Etiopia, ma solo per diventare rapidamente uno dei regimi più oppressivi del mondo. Il presidente Isaias Afewerki, un tempo a capo del movimento indipendentista, ha impoverito e affamato il paese e imposto censura e delazione, sparizioni forzate e tortura, il divieto di espatrio e un servizio militare obbligatorio per uomini e donne che a volte dura per tutta la vita. L’Etiopia è il nemico storico, cosa che frattura un legame naturale eritreo-etiope della comunità habesha che invece fra gli esuli è facile riconoscere. La situazione è così difficile che secondo le Nazioni Unite tentano la fuga ogni mese in 5 mila su una popolazione totale di 5 milioni di persone.
A volte, essere italiani di altra origine significa diventare custodi dei ricordi e delle complesse eredità della comunità di origine, specialmente se come Medhin Paolos, 36 anni, hai «la passione per i cassetti polverosi». Insieme ad Alan Maglio, fotografo e appassionato di archivi come lei, ha diretto nel 2015 un documentario sulle sfaccettature della comunità habesha di Milano, Asmarina, parte di una ricerca sulla memoria che conta già eredi ancora più giovani, come Ariam Tekle, che sta preparando da tempo il documentario sulle seconde generazioni Appuntamento ai Marinai. «Il lavoro che facciamo è infinito», dice Medhin Paolos, raccontando come Asmarina sia nato dall’esperienza delle mostre fatte con Maglio. «Siccome la comunità raccoglie in sé tante, troppe comunità diverse, avevamo la sensazione che stavolta non potessero essere raccontate solo dall’immagine ferma, ma ci volesse il video». Nel loro documentario ci sono i volti e gli accenti milanesi degli eritrei di prima, seconda e terza generazione, dei meticci, degli italiani arrivati dall’Asmara negli anni Sessanta, dei musicisti che ritrovano il blues nella musica eritrea; e ancora, il fermento culturale dell’Asmarina, i testimoni della lotta politica eritrea, la rimozione italiana del periodo coloniale, i raduni annuali della comunità a Bologna, le donne negli abiti tradizionali bianchi, le discussioni su chi definisca il termine habesha, le reticenze improvvise e le spaccature quando si parla del regime eritreo.
Medhin Paolos si definisce una “milanese di origine non controllata”, nata a Milano da genitori eritrei arrivati in Italia proprio alla metà degli anni Settanta, «quando a Milano gli africani erano così pochi che si riconoscevano a chilometri di distanza!» Il padre arrivò nel ’73; veniva da un paesino sugli altipiani ma era bravo a scuola e in Eritrea era stato ammesso alle scuole italiane, di solito riservate solo ai meticci o ai più abbienti. Studiò ingegneria, andò negli Stati Uniti, poi in Italia. «Ha conosciuto mia madre a Milano, lei è arrivata nel ’75, aveva studiato meno di lui ma veniva dalla città, estroversa, sempre in prima linea alle feste della comunità come alle manifestazioni, mentre mio padre preferisce lavorare dietro le quinte». La migrazione con cui arrivarono a Milano i genitori di Paolos è ritratta nel libro fotografico Stranieri a Milano del 1986, realizzato da Lalla Golderer e Vito Scifo dell’Espresso.
Asmarina mostra le oscillazioni dell’identità, non solo quelle eritree, ma anche quelle italiane. «Non ho davvero radici, sono italiana a modo mio. La costruzione dell’identità è una cosa fluida per tutti, devi gestirti il fatto che hai una faccia d’altrove e l’accento di qui. È difficile crescere senza modelli, infatti se ci fai caso l’afro-italiano quando è un po’ smarrito finisce per rifarsi all’immaginario afro-americano. Io stessa ricordo che da piccola gli unici neri che vedevo in tv erano i Robinson, oppure l’attore nero di Drive In – in quel programma erano tutte macchiette, ma il nero mi metteva ansia, sul serio! Isaac George, ecco come si chiamava». Medhin Paolos, che viaggia molto, è andata in Eritrea solo un paio di volte, anni fa. «Lì la tua identità viene a galla, la senti più potente, e a casa ti senti più straniero. Io poi parlo malissimo la lingua, e uso termini obsoleti, tipici di chi non torna da tanto tempo, mi sgamano subito. Ma ormai ho fatto pace con molte cose, e sto bene nella mia pelle. Mi sento parte di una terra di mezzo che fra l’altro è anche molto popolata, mi piace e me la gioco. Ma credo sia un percorso che si può fare soltanto a livello individuale».
E a proposito di identità fluide, la scrittrice Erminia dell’Oro, di origini pugliesi ma nata e cresciuta in Eritrea e arrivata in Italia soltanto a vent’anni, contribuisce a mescolare le carte delle seconde generazioni. «Per lei comparire nel film è stata fra l’altro l’occasione per superare qualche riserva e scrivere un libro su Tsegehans Weldeslassie detto Ziggy, il giovane immigrato che parla nel finale». Il libro, intitolato Il mare davanti, racconta la vita, la fuga e il viaggio difficile di Ziggy sui barconi per arrivare in Europa. La voce del giovane è uno degli elementi più profondi di Asmarina, resa più pregnante dal contrasto con le reticenze degli eritrei ogni volta che si parla del regime. «La gente ha paura di parlare perché la dittatura ha braccia così lunghe da arrivare fino in Europa e alla diaspora», dice Paolos. «E oggi in alcuni espatriati c’è una forma di rimozione, negano che il regime sia davvero così terribile da spingere i giovani a rischiare la vita per fuggire; arrivano a sostenere che i giovani mentono, che sono solo migranti economici che esagerano per giustificarsi. A parte che non è vero, ma anche se lo fosse, è pazzesco che un migrante economico debba rischiare la vita per spostarsi, che non abbia la stessa libertà di movimento di cui godo io, che uso tutte le opportunità che mi dà l’essere italiana».
Da Lampedusa a Milano, osservare i flussi degli sbarchi non lascia dubbi: gli eritrei sono fra coloro che più intensamente affrontano il viaggio per mare per raggiungere l’Italia. In Asmarina si vede l’impatto scioccante degli sbarchi di oggi sulla rassicurante cornice del quartiere, delimitato dalle rocce artificiali dei giardini pubblici disegnati dal Piermarini. Lì sta parcheggiata l’ambulanza con cui i volontari cercano freneticamente di aiutare i giovani sbarcati al sud e giunti a Milano feriti e traumatizzati, che a Porta Venezia cercano qualcuno che parli la loro lingua. «Di pari passo con l’indottrinamento del regime che comincia sempre più presto» dice Paolos, «le famiglie li mettono in viaggio sempre più giovani, anche a dodici, quindici anni». Asmarina, alla fine, è soprattutto un film su Milano: «per me è vera quella cosa che si dice, che Milano è bella ma è tutta nascosta, che la devi trovare. L’inclusione non si vede ma c’è, molto forte secondo me. Anche adesso, sull’accoglienza dei migranti, in realtà il Comune non fa che appoggiarsi ai volontari, che portano tutto il peso sulle loro spalle, senza progetti a lungo termine. Nei primi tempi in cui i migranti venivano accolti e nutriti dal Comune sul mezzanino della Stazione Centrale [di Milano], i ragazzi eritrei dovevamo portarceli noi perché se ne occupassero. All’epoca c’era addirittura un cartello che prevedeva solo “profughi siriani”». Ziggy – che è qui da qualche anno, parla bene italiano e in Eritrea ha studiato matematica – è come uno strano specchio per Medhin Paolos. Hanno la stessa età, ma non potrebbero avere due destini più diversi. «Penso che avrei potuto essere io. Ti giuro, come nel film Sliding Doors. È solo un caso che io non sia una di quelle persone».