Storia dei dischi in vinile
Oggi è il Record Store Day, ma come siamo arrivati a mettere la musica su un supporto così strano e ingombrante?
Da alcuni anni i dischi in vinile hanno ritrovato una nicchia di mercato attiva e rinnovata, pur rimanendo una nicchia non molto rilevante dal punto di vista quantitativo. La moda e il nuovo interesse per i vinili sono portati avanti da persone che li ascoltano da decenni, per meriti anagrafici, e da altre più giovani che non partecipano al fenomeno per nostalgia quanto per attrazione verso uno degli oggetti più iconici del secolo scorso. Spesso la passione per i dischi in vinile si accompagna a una buona conoscenza: sia della musica sia delle cose tecniche necessarie per sentirla, la musica. Ma può darsi che tra chi si è avvicinato solo di recente ai vinili, o tra chi non si è avvicinato ma ne è comunque incuriosito, ci sia un po’ di confusione sul perché alcuni dischi siano più grossi di altri, sul perché alcuni si chiamino 33 giri e altri 45 giri, su come ci siamo arrivati ad ascoltarli, i vinili, e su quando ci siamo arrivati.
Il primo strumento sul quale l’uomo ha fatto girare un disco per sentire della musica è stato il grammofono, inventato negli Stati Uniti dal tedesco Emile Berliner, alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento. Il grammofono avrebbe presto sostituito un’altra invenzione, che era stata a sua volta rivoluzionaria, anche se non ebbe una vita molto lunga. Thomas Alva Edison, che il mondo ricorda soprattutto – erroneamente – per avere inventato la lampadina, aveva perfezionato una decina di anni prima un aggeggio che permetteva di riprodurre musica grazie a dei cilindri di ottone ricoperti con un foglio di carta stagnola, sui quali era impresso un solco da una puntina collegata a una membrana. Le vibrazioni della membrana, causate dal propagarsi dei suoni, facevano oscillare la puntina, che incideva la carta stagnola. Per riprodurre il suono registrato si applicava il processo inverso: una puntina leggeva i solchi sulla stagnola e faceva vibrare un’altra membrana, più elastica.
Thomas Edison con uno dei suoi primi fonografi, nel 1877. (Wikipedia/Libreria del Congresso)
All’inizio Edison pensava che la sua invenzione potesse avere soprattutto applicazioni professionali, per registrare la voce umana. Furono altri a perfezionarla e a trasformarla in quello che oggi conosciamo come giradischi. La prima evoluzione del fonografo di Edison arrivò quando nel 1880 i laboratori Bell sostituirono la carta stagnola – che si consumava molto in fretta – con uno strato di cera, sulla quale veniva inciso il solco. Gli apparecchi per riprodurre i cilindri erano ancora rari, presenti praticamente solo in alcuni locali (funzionavano come primitivi juke-box) e permettevano sia di registrare sia di riprodurre la musica o la voce: questo fu uno degli elementi che riuscì a prolungare la vita dei cilindri fonografici, che rimasero il principale supporto per la musica fino ai primi anni del Novecento.
Il primo a intuire che una superficie piatta e circolare sarebbe stata un supporto più pratico di un cilindro fu Berliner, che chiamò l’apparecchio per leggerla grammofono, alimentato a manovella come il fonografo. I primi dischi di Berliner erano in zinco e ricoperti di uno strato di cera: l’incisione del solco, con il metodo di Berliner, divenne laterale e non più verticale (la puntina scorreva a destra e a sinistra, e non dall’alto al basso).
La qualità delle registrazioni era inferiore a quella dei cilindri, ma era più facile registrare una traccia sui dischi e soprattutto farne più di una copia. I primi dischi furono venduti in Europa nel 1889 e avevano un diametro di 12,5 centimetri, ma erano poco più che un giocattolo. All’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento Berliner arrivò a vendere 1000 grammofoni e 25mila dischi all’anno, mentre i fonografi e i cilindri avevano vendite molto più basse. Nei primi anni del Novecento aprì a Montreal, in Canada, una fabbrica della sua società, la Victor Talking Machine Company: riuscì a perfezionare la qualità delle registrazioni, e a produrre dischi molto più grandi (con un diametro di circa 30 centimetri) che duravano più di tre minuti e mezzo, contro i due minuti dei cilindri fonografici. Edison riuscì a mettere sul mercato cilindri che duravano di più, e negli anni successivi continuò ostinatamente con il suo formato, chiedendo anche soldi alle altre società che lo volevano adottare. Questo contribuì alla progressiva scomparsa dei cilindri: negli anni Dieci i dischi presero definitivamente il sopravvento, e finalmente Edison cominciò a produrli, ma in modo che potessero essere letti solo dai suoi grammofoni e con poco successo. Gli ultimi cilindri furono prodotti da Edison alla fine degli anni Venti.
Un cilindro fonografico prodotto da Edison. (Wikipedia)
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il contenuto dei dischi o cilindri era soprattutto musica popolare o brevi monologhi comici: tra le canzoni più famose registrate in questo periodo ci fu “Hello! Ma Baby”, nel 1899. Dato che registrare non era facile, venivano utilizzati solo gli strumenti dal suono più potente, come gli ottoni, e le canzoni e gli sketch comici erano praticamente urlati. La maggior parte dei grammofoni esistenti era in posti pubblici, come le taverne, che chiedevano dei soldi ai clienti per suonare le canzoni che volevano. Nelle grandi città nacquero anche esercizi commerciali pensati appositamente per permettere alle persone di ascoltare musica o monologhi su richiesta: alcuni avevano a disposizione decine di titoli, che i clienti ascoltavano attraverso due tubi da accostare alle orecchie.
I primi grammofoni erano alimentati a manovella, e quindi la velocità alla quale veniva fatto girare il disco dipendeva dall’utilizzatore. Ovviamente c’era un numero di giri al minuto corretto, che veniva infatti indicato sul disco e poteva variare inizialmente tra i 60 e i 130. Alla fine dell’Ottocento furono messi sul mercato fonografi e grammofoni a molla, più affidabili, e ancora più avanti, negli anni Venti, furono attrezzati con un motore elettrico, che quindi consentiva di mantenere una velocità costante: nei primi vent’anni del Novecento i grammofoni si diffusero tra il grande pubblico, anche tra le persone meno ricche grazie alla progressiva diminuzione dei prezzi e alla nascita di generi nuovi, come il jazz. Il riconoscibile corno dei primi grammofoni cominciò a essere nascosto sotto il piatto per motivi estetici, e dal 1904 la RCA cominciò a incidere i dischi su entrambi i lati, per aumentare il numero dei minuti di musica.
Il logo della Victor Talking Machine Company, con disegnato uno dei primi modelli di grammofoni progettati per i dischi.
Il tenore Lucien Muratore e la soprano Lina Cavalieri durante una sessione di registrazione a Parigi, nel 1913. (Wikipedia)
A partire dalla metà degli anni Venti fu scelta la velocità di 78 giri al minuto, non si sa bene perché (forse fu usata per i primi dischi di questo tipo e poi mantenuta per abitudine). Dopo i primi esperimenti di Berliner con lo zinco e la cera, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il materiale principale usato per produrre i dischi fu la gommalacca, cioè il risultato della lavorazione delle secrezioni di un particolare insetto simile alla cimice, raccolte sugli alberi in Asia. In realtà furono anni di sperimentazioni con varie materie prime, finché una ebbe più successo delle altre: nel 1931 la RCA Victor, cioè il nome che aveva assunto la società di Berliner, introdusse il vinile, un materiale plastico resistente e leggero, molto adatto come supporto ma che era ancora troppo costoso da utilizzare. I primi dischi in vinile di RCA Victor erano anche incisi per essere letti a 33 giri al minuto (33 e un terzo, a essere precisi).
Un 33 giri della Columbia. (Wikipedia)
Il passaggio dalla gommalacca al vinile fu praticamente contemporaneo a quello dal 78 giri al 33 giri, ed entrambi furono molto graduali. I 78 giri, che ormai erano stampati da entrambi i lati, duravano soltanto pochi minuti per facciata: i 33 giri invece duravano una decina di minuti per lato. Ma negli anni Trenta faticarono a trovare mercato, anche per via della Grande Depressione. Poi arrivò anche la Seconda Guerra Mondiale, che complicò il processo di sostituzione tra la gommalacca e il vinile e tra il 78 giri e il 33 giri. Alla fine fu la Columbia Records a presentare, nel 1948, il “long playing” (LP) in vinile per come lo conosciamo oggi: la sua incisione avveniva tramite microsolco, una tecnica resa possibile dalle qualità del vinile che permetteva di far stare molte più informazioni nel disco e quindi di prolungarne la durata. Pochi mesi dopo, RCA Victor rispose a Columbia introducendo sul mercato un vinile a microsolco a 45 giri, con un diametro di circa 18 centimetri (contro i 30 centimetri degli LP di Columbia). Il buco al centro dei 45 giri, quello per fissare il disco al piatto, era più grande e incompatibile con quello degli LP.
Un 45 giri di “I Walk the Line”, di Johnny Cash. (Wikipedia)
I 45 giri potevano contenere una canzone di pochi minuti per lato, e RCA li presentò subito come formato per i singoli, cioè per canzoni pubblicate autonomamente. Tradizionalmente, sul lato A del 45 giri veniva incisa la canzone più forte, mentre quella sul lato B poteva essere anche un semplice riempitivo (ma spesso non fu così). Ma RCA mise sul mercato anche gli “extended play” (gli EP), che aumentando il numeri di solchi – e diminuendo di conseguenza la qualità della registrazione – permettevano di mettere sui dischi due canzoni per lato. Iniziò quindi una “guerra dei formati”, tra 33 giri e 45 giri, tra Columbia e RCA Victor. Sia i 33 giri che i 45 giri sarebbero rimasti in commercio, ma i primi ebbero da subito più successo: anche RCA cominciò a produrli a partire dal 1950, periodo in cui i giradischi cominciarono a essere “a tre velocità”, costruiti cioè in modo da poter riprodurre tutti i formati (compresi i 78 giri), utilizzando un adattatore per riempire il buco più largo dei 45 giri. La maggior parte dei giradischi aveva anche un sistema per mettere automaticamente sul piatto un nuovo disco una volta finito di suonare il primo.
Fino sostanzialmente agli anni Cinquanta, quindi, i dischi uscivano con soltanto poche canzoni, perché potevano contenere meno di cinque minuti di musica per lato. Con gli LP, i minuti aumentarono fino a più di venti per ogni lato. Inizialmente furono impiegati soprattutto per la musica classica, perché consentivano di raccogliere intere opere prima divise su più dischi da 78 giri. Ma in poco tempo il formato dei 33 giri cambiò radicalmente la musica. Quelle che fino ad allora erano state raccolte di poche canzoni diventarono raccolte di più canzoni, finché qualcuno si rese conto che diverse canzoni una dietro l’altra potevano avere un senso complessivo: nacque così l’album, che rimane ancora oggi il principale medium musicale per gli artisti.
L’ultima grande rivoluzione tecnica dei dischi in vinile fu la registrazione in formato stereo: prima, i dischi erano tutti monofonici: il suono usciva cioè dal diffusore come unico flusso. Se i diffusori erano più di uno, ciascuno riproduceva lo stesso suono. La registrazione stereofonica fu inventata dall’ingegnere di EMI Alan Dower Blumlein nel 1931, che progettò un sistema per incidere due canali in un solo solco, sfruttando oltre al movimento orizzontale della puntina anche quello verticale. Le due distinte informazioni venivano lette indipendentemente e trasformate in due canali diversi nella diffusione del suono, mantenendo comunque la compatibilità con i giradischi mono, che continuavano a leggere solo uno dei due canali. I primi dischi in formato stereo furono messi in commercio solo alla fine degli anni Cinquanta.