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  • Martedì 18 aprile 2017

Quindi la Turchia non è più una democrazia?

La risposta è che non lo è più, ma non è successo col referendum di domenica

Recep Tayyip Erdogan (Yasin Bulbul/Presidential Press Service via AP)
Recep Tayyip Erdogan (Yasin Bulbul/Presidential Press Service via AP)

Domenica quasi 50 milioni di turchi hanno deciso con un referendum di trasformare il sistema istituzionale del loro paese in una repubblica presidenziale, dando nuovi grandi poteri al presidente Recep Tayyip Erdoğan. La riforma costituzionale, che è stata al centro del dibattito politico turco per mesi, ha già provocato molte reazioni preoccupate, soprattutto dei paesi europei che stavano discutendo di un’eventuale entrata della Turchia nell’Unione Europea. Murat Yetkin, giornalista e opinionista del quotidiano turco Hurriyet, ha scritto che il voto di domenica è stato «il più controverso degli ultimi anni», mentre l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), che tra le altre cose si occupa di monitorare la regolarità dei processi elettorali, ha detto che il referendum non ha rispettato gli standard internazionali richiesti per una votazione corretta. Quindi è vero che la Turchia sta diventando uno stato autoritario, come si legge un po’ ovunque?

La risposta breve è sì, ma bisogna tenere conto di una cosa: non lo è diventato domenica, il giorno del referendum. La Turchia non è più un paese democratico da tempo, da quando è diventato “normale” arrestare i parlamentari di opposizione, chiudere i giornali critici col governo, licenziare centinaia di migliaia di insegnanti e altri dipendenti pubblici solo perché sospettati – spesso senza prove – di essere lontani dalle posizioni del presidente.

Cosa prevede la riforma
Prima del voto, almeno sulla carta, il sistema turco era di tipo parlamentare, simile a quello italiano. Ogni quattro anni si tenevano le elezioni legislative e il Parlamento votava la fiducia a un governo, titolare del potere esecutivo. Il presidente della Repubblica, sempre in teoria, era una figura imparziale: per ricoprire quel ruolo doveva dimettersi da qualsiasi carica di partito ed essere super partes. Nella realtà da un paio di anni le cose erano già molto diverse.

Il sistema turco ha cominciato a cambiare di fatto nel 2014, quando Erdoğan, dopo avere raggiunto il limite di mandati da primo ministro, è stato eletto presidente. Da allora, mossa dopo mossa, Erdoğan ha usato la sua grande popolarità per rafforzare i suoi poteri: uno dei momenti più importanti di questo processo è stato l’allontanamento nel maggio 2016 dell’ex primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, con cui da tempo Erdoğan aveva diversi contrasti.

Davutoğlu era la persona più moderata del governo turco, quella che parlava con i leader europei, che si opponeva alle incarcerazioni preventive di giornalisti e accademici oppositori del governo e spingeva per dialogare con i ribelli curdi del sud-est della Turchia. Dopo Davutoğlu non c’è più stato un capo del governo in grado di fare da contrappeso a Erdoğan. Il voto di domenica ha consolidato la posizione del presidente e gli ha dato ulteriori poteri: grazie alla riforma d’ora in avanti Erdoğan sarà titolare del potere esecutivo (mentre la figura del primo ministro sarà abolita), potrà ricoprire incarichi all’interno del suo partito e potrà esercitare maggiore influenza su uno degli organi di giustizia più importanti del paese. Le modifiche più importanti decise dalla riforma approvata domenica sono state così sintetizzate in un’infografica dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).

Di per sé queste modifiche non significano la trasformazione di un sistema democratico in uno autoritario: sia gli Stati Uniti che la Francia hanno sistemi presidenziali e allo stesso tempo sono democrazie, per esempio. Ma nel caso della Turchia le cose sono diverse. L’insofferenza di Erdoğan per qualsiasi forma di opposizione aveva già ridotto moltissimo la libertà di stampa: negli ultimi mesi – e in particolare dopo il tentato colpo di stato di luglio, poi sventato dalle forze militari fedeli al governo – in Turchia sono stati arrestati più di 100 giornalisti, spesso sulla base di minuzie, e sono stati chiusi o trasformati radicalmente diversi quotidiani e televisioni prima critici con il governo, come Zaman.

Anche la vita degli avversari politici di Erdoğan è diventata molto più complicata: per esempio nel novembre scorso era stato fermato e poi rilasciato il più carismatico oppositore di Erdoğan, il leader curdo Selahattin Demirtaş. Martedì il principale partito di opposizione turco, il Partito popolare repubblicano (CHP), di orientamento laico e vicino alle idee del fondatore dello stato turco Mustafa Kemal, ha annunciato di voler presentare richiesta di annullamento del voto alla Commissione elettorale a causa di presunti brogli. Nel frattempo Erdoğan ha già detto che ignorerà le denunce di irregolarità elettorali fatte dall’OSCE: «Continueremo per la nostra strada. Non c’è un solo paese europeo che tiene delle elezioni così democratiche», ha detto.

Cosa cambierà ora
Una delle conseguenze più annunciate e discusse riguarda il futuro della Turchia nell’Unione Europea, per la verità già traballante da tempo. In passato Erdoğan aveva mostrato di essere poco incline a fare compromessi con l’Unione Europea e dopo il tentato colpo di stato del luglio scorso il governo turco aveva anche annunciato la possibile reintroduzione della pena di morte, una misura incompatibile con i trattati europei. Guy Verhofstadt, uno dei più influenti politici liberali nella UE ed ex primo ministro del Belgio, ha detto che l’unica conclusione logica del referendum di domenica è l’interruzione dei negoziati per l’entrata della Turchia nella UE e il ripensamento delle relazioni con il governo turco. Durante la campagna elettorale per il referendum, Erdoğan si era inoltre scontrato apertamente con alcuni governi europei in merito all’organizzazione di manifestazioni filo-governative che avrebbero dovuto convincere i turchi residenti in Europa a votare a suo favore. Diversi analisti avevano scritto che il vero obiettivo di Erdoğan era l’ottenimento dei consensi dei nazionalisti turchi, contrari alla UE, la cui base politica si era in precedenza allontanata dalle posizioni del presidente. In pratica Erdoğan aveva mostrato di poter sacrificare senza troppe reticenze il suo rapporto con l’Unione Europea per questioni di opportunità politica interna.

Non sono in pericolo solo i negoziati per l’entrata della Turchia nella UE. Potrebbe essere rimesso in discussione anche l’accordo sui migranti tra governo turco e UE entrato in vigore nel marzo 2016, che prevede che la Turchia riceva dei soldi per bloccare il flusso dei migranti diretti in Europa. Se dovesse succedere l’UE dovrà ripensare una nuova strategia per affrontare il tema dei migranti, una questione su cui finora ha mostrato molta debolezza e divisioni interne.

I cambiamenti contenuti nella riforma costituzionale entreranno in vigore solo dopo le elezioni parlamentari e presidenziali del novembre 2019, ma qualcosa sugli effetti del referendum si potrà capire anche prima: sia perché, come detto, la trasformazione della Turchia in un sistema autoritario è in corso da tempo, sia perché due novità saranno introdotte da subito. Erdoğan potrà tornare ad avere incarichi all’interno del suo partito (il Partito per la giustizia e lo sviluppo, AKP la sigla in turco), un ruolo che aveva dovuto abbandonare nel 2014 quando si era candidato alla presidenza. Inoltre al 40esimo giorno dalla pubblicazione dei risultati ufficiali del voto di domenica cambierà anche la composizione del Consiglio dei giudici e dei pubblici ministeri, uno degli organi di giustizia più importanti in Turchia e secondo Erdoğan uno dei più vicini a Fethullah Gülen, un influente religioso che vive negli Stati Uniti ed è stato accusato dal governo turco di essere l’organizzatore del tentato colpo di stato di luglio. Il numero dei membri del Consiglio verrà ridotto ma aumenteranno in percentuale le nomine che potrà fare il presidente. Dopo essersi attribuito il potere esecutivo, Erdoğan potrebbe quindi aumentare notevolmente la sua influenza anche su quello giudiziario.

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Aggiornamento mercoledì 19 aprile – La commissione elettorale turca ha rifiutato la richiesta dei due principali partiti di opposizione del paese di annullare il risultato del referendum a causa di presunti brogli elettorali.