Negozi aperti e giorni di festa, ancora
Se ne riparla dopo le proteste di Pasqua in alcuni centri commerciali, con discussioni – non sempre centratissime – su leggi e consumi, e paragoni col resto d'Europa
Sabato 15 aprile parte dei lavoratori e delle lavoratrici dell’outlet di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria, ha scioperato e protestato contro la decisione della proprietà McArthur Glen, con sede a Londra, di tenere aperti i negozi anche nel fine settimana di Pasqua per la prima volta in diciassette anni. Lo sciopero non ha dato grandi risultati – solo quattro negozi erano chiusi, gli altri erano aperti regolarmente – ma ci sono state mobilitazioni anche in alcuni centri commerciali della Puglia, dell’Emilia Romagna, del Lazio, dell’Umbria e della Toscana, sostenute dai sindacati CGIL, CISL e UIL, mentre in altre regioni, come Veneto e Marche, i sindacati hanno promosso campagne di informazione rivolte soprattutto ai cittadini. Il motivo delle proteste era, come nel caso di Serravalle, la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi introdotta nel gennaio del 2012 dal governo Monti.
Su questo stesso tema è in corso da anni una discussione che ha a che fare con la creazione di nuove opportunità lavorative in un momento difficile per l’occupazione, l’adeguamento del settore del commercio agli stili di vita di moltissime persone, soprattutto nelle grandi città, e la necessità per i lavoratori di conciliare il tempo dedicato al lavoro e quello libero.
Anche prima del 2011 in Italia certi negozi potevano restare aperti nei giorni festivi, ma oggi in Italia un negozio può restare aperto quanto e quando vuole, senza limiti legati ai prodotti venduti come avviene invece in altri paesi europei. Questa possibilità è stata introdotta dal decreto “Salva Italia” promosso dal governo di Mario Monti alla fine del 2011, in cui si dice che negozi e supermercati hanno la possibilità di restare aperti 24 ore su 24 e tutti i giorni della settimana, domenica compresa, pagando i lavoratori quanto previsto dalla legge per il lavoro notturno e festivo (di solito il 30 per cento in più della paga ordinaria). I sindacati, la Confesercenti e la Chiesa cattolica, con motivazioni diverse, criticarono quella proposta: sostenevano che le aperture prolungate non servissero a far aumentare i consumi, che esperimenti simili condotti in passato da alcune amministrazioni locali non avessero dato esiti positivi e che le aperture continuate potessero in qualche modo ledere i diritti dei lavoratori o delle persone credenti.
Al decreto “Salva Italia” si arrivò comunque per tappe. Una prima tappa verso la liberalizzazione fu nel 1998 il cosiddetto “decreto Bersani“, che riformò radicalmente il settore del commercio: sparirono le licenze per gli esercizi, furono eliminate le 14 tabelle merceologiche fino ad allora in vigore lasciando solo due settori, quello alimentare e non alimentare. Nel settembre del 2001 venne approvata la riforma del Titolo V della Costituzione, cioè la parte dedicata a comuni, province e regioni, attraverso la riscrittura di molti articoli e l’introduzione di nuove norme che determinarono un ampliamento dei compiti e delle funzioni attribuite a questi soggetti. La riforma del 2001 (approvata con una maggioranza di centrosinistra e poi confermata da un referendum) aveva lo scopo di dare allo Stato italiano una fisionomia più “federalista”, nella quale i centri di spesa e di decisione si spostassero dai livelli più alti a quelli più locali. La riforma specificava in particolare quali erano le competenze esclusive dello Stato, lasciando alle regioni il compito di occuparsi di tutte quelle non nominate esplicitamente, compresa la delega per le materie attinenti al commercio. Infine, nel gennaio del 2012, entrò in vigore la riforma di Monti, con la liberalizzazione totale dei negozi.
Verso la fine del 2014 la Camera decise di tornare indietro rispetto al decreto “Salva Italia”: approvò in prima lettura una nuova legge sugli orari dei negozi presentata dal Movimento 5 Stelle trasmettendola al Senato nel settembre dello stesso anno. Da quasi tre anni, la proposta è però bloccata e ancora in corso di esame in commissione. Prevede in particolare che le attività commerciali debbano chiudere almeno per 12 giorni festivi all’anno, in pratica tutte le festività più importanti. Prevede anche un’unica eccezione: ciascun esercente può derogare all’obbligo di chiusura, fino a un massimo di sei giorni, comunicandolo in anticipo al comune di riferimento.
Gli argomenti contro le liberalizzazioni e a favore della nuova legge sono quelli di un tempo: Anna Maria Furlan, segretaria generale della CISL, parlando dello sciopero pasquale di Serravalle, ha spiegato per esempio che «la legge del 2011 va corretta al più presto. Non vietando del tutto le aperture dei negozi nei giorni festivi, ma introducendo forme di contrattazione aziendale e territoriale in modo da tener conto delle esigenze particolari dei lavoratori». E ancora: «Si continua a lasciar intendere che l’Italia sia ancorata al passato, ma io ci tengo a dire che in quasi tutti i paesi del nord Europa le aperture domenicali son tutt’altro che libere. E lì McArthur Glen non se lo sogna nemmeno di richiedere l’apertura degli outlet nel giorno di Pasqua».
Secondo una ricerca dell’Osservatorio europeo della vita lavorativa, la tendenza in Europa vuole che si renda sempre più facile tenere aperti i negozi la domenica e, in generale, diminuire le restrizioni al lavoro nei giorni festivi. La ricerca si occupa in particolare del lavoro nei fine settimana e mostra come l’Italia insieme ad Austria e Germania sia in realtà uno dei paesi più conservatori in questo senso. I paesi scandinavi e il nord Europa in generale sono invece quelli dove più di frequente si lavora nei giorni festivi.
Percentuale dei lavoratori che lavorano la domenica, per numero di volte al mese
Uno dei responsabili della CGIL che si occupa della campagna contro le aperture nei giorni festivi ha aggiunto che la posizione del sindacato «non è una contrarietà a priori al lavoro domenicale. Il punto invece è un altro. È il modello di sviluppo del commercio che non è sostenibile. Non tanto a Milano, Roma o Torino, dove l’impatto delle liberalizzazioni volute da Monti è stato limitato. Ma nelle città di provincia, l’apertura di outlet e grandi magazzini 365 giorni all’anno ha segnato lo svuotamento dei centri storici. Il piccolo esercente non può reggere questo tipo di concorrenza che si basa sull’abbattimento del costo del lavoro e risponde solo alle logiche della grande distribuzione». Tutti i sindacati sostengono poi che i risultati promessi dalle liberalizzazioni (maggiori consumi e maggiore occupazione) non siano stati raggiunti.
L’Italia attraversa da tempo una crisi dei consumi e i dati ISTAT delle vendite al dettaglio negli anni subito successivi al decreto “Salva Italia” sembrano dare ragione ai sindacati. Dall’altra parte, però, le aziende che vogliono tenere aperti i negozi nei giorni festivi, pagando i costi conseguenti che sono più alti di quelli di un giorno feriale, non lo farebbero se fosse un’attività in perdita: evidentemente per loro i conti tornano.