C’è una “invasione” di musulmani in Italia?
E cosa dice la legge sulla possibilità di indossare il velo? I dati su due questioni molto discusse
Una delle questioni più raccontate e citate come conseguenza delle migrazioni, in Italia ma non solo, è la diffusione in Occidente dell’Islam: quella che di norma sarebbe già una complessa integrazione di culture e tradizioni diverse – succede anche con la comunità cinese, per esempio, che musulmana che non è – è diventata ancora più complessa per gli attentati islamisti degli ultimi quindici anni nelle città di mezza Europa e per la paura e diffidenza che hanno generato (e che in certi casi è stata alimentata per ragioni elettorali). Anche per questo motivo è diventato comune negli ultimi anni sentir parlare di una presunta “invasione” musulmana in Europa, e di un’altrettanto invadente diffusione di costumi e precetti come quello per cui le donne dovrebbero coprirsi la testa con un velo; e ne sono nate quindi anche discussioni sull’opportunità di vietare questo comportamento per legge. Per quanto riguarda l’Italia però, al momento non si può parlare né di invasione né di divieti per le donne.
Se si guardano i dati pubblicati dall’ISTAT nel 2015 sull’appartenenza e la pratica religiosa tra i cittadini stranieri, si scopre che in realtà poco più di un quarto degli stranieri residenti in Italia è musulmano, circa un milione e mezzo: la maggioranza invece – che corrisponde al 56 per cento della popolazione straniera – si dice cristiana (il 27 per cento ortodosso, il 25,1 cattolico e il 2,7 protestante); resta poi un 7,1 per cento di persone che dicono di essere atee e un 3 per cento circa di buddisti. Facendo una graduatoria tra le diverse cittadinanze in base alla religione di appartenenza, risulta che la maggioranza dei musulmani proviene dal Marocco (il 34 per cento), seguiti dall’Albania (15,3 per cento) e dalla Tunisia (8,3 per cento). Tra i cristiani ortodossi i primi sono i romeni (il 62,2 per cento), poi gli ucraini (11,9 per cento) e i moldavi (9,1 per cento). I buddisti sono invece in maggioranza cinesi (il 63,8 per cento), seguiti dai srilankesi (18,8 per cento).
Per quanto riguarda il velo, in Italia non esiste una legge che vieti espressamente di indossarlo in una delle versioni legate alla religione musulmana (quella che si vede più comunemente in Italia si chiama hijab, che copre i capelli e il collo lasciando scoperto il viso). Esiste però una legge del 1975, chiamata anche “legge Reale”, che all’articolo 5 stabilisce il «divieto di usare caschi protettivi, o qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo». Nel 2009 era stato presentato un progetto di legge di modifica di quell’articolo per far sì che nel divieto rientrasse esplicitamente l’indossare il burqa o il niqab (il primo copre la donna fino ai piedi, che riesce a vedere attraverso una rete di tessuto in prossimità degli occhi, mentre il secondo copre completamente il capo lasciando scoperti solo gli occhi). L’iter del progetto di legge si è fermato prima dell’approvazione; stando alle leggi ora in vigore i giudici tendono a far rientrare l’utilizzo di burqa e niqab tra i giustificati motivi che la legge Reale prevede per ragioni culturali o religiose.
Su questo argomento c’è poi una sentenza recente della Corte di giustizia europea, secondo la quale le aziende private possono vietare ai loro dipendenti di indossare indumenti che siano «segni religiosi», come il velo islamico o un crocifisso al collo. La Corte è stata chiamata a decidere rispetto a due ricorsi, uno belga e uno francese, su due donne musulmane che ritenevano entrambe di essere state discriminate perché i rispettivi datori di lavoro avevano vietato loro di portare il velo. Nelle due sentenze la Corte ha stabilito un quadro preciso entro il quale questo tipo di divieto può essere attuato senza essere discriminatorio: è necessario che il divieto di indossare un velo islamico derivi da una norma interna di un’impresa privata che obblighi a non indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro. Questa regola interna, cioè, non deve avere a che fare con una determinata confessione religiosa o con una persona in particolare, ma con una più generale politica di neutralità dell’azienda.
Quello della Corte di giustizia europea – che ha il ruolo di interpretare il diritto dell’UE per garantire che sia applicato allo stesso modo in tutti gli stati membri – è un parere vincolante per le decisioni finali dei giudici dei singoli stati membri. La Corte non risolve però le controversie nazionali, che spettano comunque ai giudici belgi e francesi, i quali devono risolvere le rispettive cause conformemente alla decisione della Corte. Le sentenze della Corte vincolano comunque anche i giudici nazionali degli altri paesi ai quali venga sottoposto un problema simile.