E quindi Obama aveva torto sulla Siria?
Lo dimostrerebbe il successo dell'attacco militare deciso da Trump in risposta al bombardamento chimico compiuto da Assad, e ci sono buoni argomenti per sostenerlo
La decisione di Donald Trump di attaccare una base aerea del regime siriano di Bashar al Assad in risposta al bombardamento chimico contro i civili nella provincia di Idlib è stata accolta positivamente da diversi analisti ed esperti di guerra in Siria. Molti di loro, anche i più critici di Trump, hanno preso l’attacco come episodio esemplare per dimostrare l’inadeguatezza della strategia dell’amministrazione Obama nella guerra siriana. L’argomento, molto in sintesi, è questo: avete visto che era possibile punire militarmente gli eccessi del regime di Assad senza per forza provocare reazioni spropositate dei suoi alleati e senza far scoppiare la Terza guerra mondiale? Chi sostiene questa linea, come l’analista Charles Lister, crede che Obama non abbia fatto abbastanza in Siria, che avrebbe dovuto usare anche mezzi militari per convincere Assad a limitare le violenze sui civili: in pratica che non abbia fatto abbastanza guerra. La posizione di Lister è condivisa da altri analisti, ma non è l’unica circolata negli ultimi giorni. In diversi si preoccupano delle conseguenze dell’attacco americano, che considerano imprevedibili, e sostengono che i pericoli di un’azione militare contro Assad continuino ad esistere oggi, così come esistevano durante la presidenza di Obama.
Negli ultimi anni della sua presidenza molti giornalisti e analisti hanno criticato duramente Obama, accusandolo di non avere una strategia chiara sulla guerra siriana. Le critiche non hanno riguardato tanto la guerra contro lo Stato Islamico, che ha portato a risultati significativi (nell’ultimo anno e mezzo lo Stato Islamico ha perso moltissimi territori e la maggior parte dei suoi leader è stata uccisa da droni americani), quanto piuttosto l’inazione verso il regime di Assad. L’episodio simbolo di questa strategia è stata la rinuncia di Obama all’uso della forza militare dopo l’attacco chimico compiuto dal regime di Assad contro alcuni quartieri di Damasco, nell’agosto 2013. Nell’attacco furono uccise più di 1.400 persone. Obama, nonostante l’anno precedente avesse minacciato che l’uso di armi chimiche da parte del regime era la “linea rossa” oltrepassata la quale gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in Siria, non fece alcuna contromossa militare. Andando contro l’opinione di diversi membri della sua amministrazione, decise invece di coinvolgere la Russia per avviare un processo che avrebbe dovuto portare allo smantellamento completo dell’arsenale chimico di Assad. Come si è visto, non tutto è andato però come sperato.
Ci sono diversi motivi che hanno spinto analisti ed esperti a criticare Obama. Il più significativo è che l’attacco deciso da Trump contro la base aerea siriana – quella da cui si pensa siano partiti gli aerei che hanno compiuto il bombardamento chimico nella provincia di Idlib il 4 aprile – era un tipo di opzione militare già sottoposta a Obama nel 2013, dopo l’attacco chimico su Damasco. A Obama era stata quindi presentata la possibilità di fare un bombardamento mirato, che sarebbe servito semplicemente a rendere la minaccia americana della “linea rossa” credibile. La scelta non era tra non fare niente e intervenire per destituire Assad, una strategia considerata molto rischiosa già allora, perché avrebbe implicato la creazione di un vuoto di potere che sarebbe stato riempito, nella peggiore delle ipotesi, dagli estremisti: c’erano soluzioni intermedie, i cui rischi erano limitati.
Se avesse risposto militarmente, da quel momento in avanti Obama avrebbe potuto minacciare di usare la forza contro Assad, e il regime siriano avrebbe saputo che il superamento di altre “linee rosse” avrebbe significato una reazione militare degli Stati Uniti. In un articolo su Politico, Lister ha scritto: «C’è una cosa che Obama non ha mai capito: i suoi sforzi per portare la pace sono falliti perché lui si è sempre rifiutato di considerare anche solo di minacciare di fare la guerra». Le deboli minacce di Obama, ha aggiunto Lister, hanno fatto sì che Assad sentisse un enorme senso di immunità per qualsiasi crimine commesso contro la popolazione civile siriana (e sono stati molti: le torture negli ospedali militari, gli assedi per ridurre alla fame la popolazione, i bombardamenti indiscriminati su Aleppo, l’uso di sarin, eccetera).
Come sembra dimostrare l’attacco deciso da Trump, anche la paura di una reazione sproporzionata della Russia potrebbe essere stato un calcolo sbagliato dell’amministrazione Obama. Coloro che nel 2013 si opponevano a qualsiasi uso della forza contro Assad, e che quindi appoggiavano la posizione di Obama, dicevano che colpire il regime siriano avrebbe portato inevitabilmente a una reazione durissima da parte della Russia, e nessuno voleva arrivare a uno scontro aperto con il governo di Mosca. Dall’attacco americano alla base aerea di Shayrat è passata più di una settimana, ma la tanto temuta reazione russa, quella che avrebbe potuto far iniziare la Terza guerra mondiale, ancora non c’è stata. Va considerata anche un’altra cosa: ai tempi dell’attacco chimico del 2013, il coinvolgimento della Russia in Siria era molto minore rispetto a quello odierno. La Russia ha cominciato a mandare uomini e mezzi militari per aiutare Assad nel novembre 2015; oggi, almeno sulla carta, il governo russo avrebbe molti più motivi per rispondere con durezza a un attacco americano che va contro i suoi interessi in Siria.
Non tutti però si sono mostrati entusiasti dell’azione militare di Trump contro Assad, e alcuni analisti continuano a condividere le preoccupazioni legate a un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nel casino della guerra siriana. Un conto è colpire e bombardare lo Stato Islamico, dicono, un altro è colpire Assad. Nel primo caso si sta parlando di un gruppo considerato una diretta minaccia alla sicurezza nazionale statunitense, contro cui si combatte una guerra all’interno di una coalizione internazionale che include molti stati; nel secondo la situazione è diversa: Assad non minaccia direttamente gli Stati Uniti e l’azione militare di rappresaglia per il superamento della “linea rossa” è stato un gesto unilaterale, compiuto in autonomia dagli americani. L’intera presidenza di Obama, ad eccezione dell’intervento in Libia nel 2011, ha evitato interventi del secondo tipo: Obama, fin dai tempi della sua prima campagna elettorale, ha criticato molto duramente le guerre che ha definito “di scelta”, quelle in cui non era in gioco la sicurezza nazionale statunitense, come la guerra in Iraq del 2003 decisa dall’amministrazione di George W. Bush. I sostenitori delle scelte di Obama continuano a pensare che anche un attacco mirato contro il regime di Assad avrebbe potuto portare a conseguenze imprevedibili in Siria. Inoltre, altro elemento da non dimenticare, avrebbe potuto provocare la dura reazione dell’Iran, importante alleato di Assad, paese con il quale Obama stava lavorando per raggiungere uno storico accordo per limitare il programma nucleare militare iraniano (l’accordo è stato poi concluso ed è stato definito da molti come uno dei successi più importanti dell’amministrazione Obama in politica estera).
Alcuni esperti hanno inoltre messo in dubbio che Trump sia effettivamente riuscito a ottenere due dei successi che gli vengono attribuiti per l’azione militare contro Assad: cioè che abbia convinto il regime siriano a non usare più le armi chimiche, e che abbia reso in maniera definitiva la sua minaccia militare credibile.
Aaron Stein ha scritto sul sito specializzato War On the Rocks: «L’uso di attacchi con missili da crociera [quelli usati dagli americani per colpire la base aerea siriana di Sharyat, ndr] per cambiare il comportamento di uno stato non ha avuto buoni risultati nella storia. È troppo presto per dire se gli attacchi contribuiranno al raggiungimento dell’obiettivo di impedire in futuro l’utilizzo di armi chimiche in Siria, o del secondo obiettivo espresso da alcuni membri dell’amministrazione Trump: forzare la Russia a rivalutare il suo sostegno per Bashar al Assad». Stein ha scritto che la rappresaglia potrebbe essere un’occasione mancata per Trump, perché potrebbe avere tolto del margine di manovra agli Stati Uniti di fronte alla Russia. Inoltre – come scriveva qualche giorno fa Mark Lynch, docente di relazioni internazionali alla George Washington University – è vero che la decisione di Trump di attaccare Assad ha dato alla amministrazione americana una nuova credibilità, quella che Obama non era riuscito a ottenere dopo il suo rifiuto di punire il regime a seguito dell’attacco chimico del 2013; ma è anche vero che la credibilità «è una creatura delicata»: alza l’asticella delle aspettative di chi combatte Assad e che da tempo chiede agli Stati Uniti un ruolo più rilevante nella guerra siriana, aspettative però che l’amministrazione Trump al momento non sembra intenzionata a soddisfare, visto che per sua stessa ammissione l’attacco aveva solo un intento punitivo, e rimarrà limitato.
Tra il primo e il secondo gruppo di esperti ci sono anche posizioni intermedie, come è normale quando si discute di questioni così complicate per le quali è di fatto impossibile prevedere le conseguenze. Alcuni analisti che condividono le prudenze di Obama, per esempio, hanno riconosciuto l’enorme problema derivante dal fatto di non avere mantenuto credibile la minaccia presentata con il discorso sulla “linea rossa”: quello che contestano alla precedente amministrazione non è tanto il fatto di non avere risposto militarmente ad Assad, una mossa che probabilmente sarebbe stata estranea alla dottrina militare di Obama, quanto piuttosto di avere stabilito in principio una “linea rossa” che non si aveva intenzione di rispettare (non fare promesse o minacce, a nemici o amici, che sai di non poter mantenere, dice una delle regole più condivise sul comportamento degli stati nella politica internazionale). Altri ancora pensano che sia da criticare l’intera lettura che l’amministrazione Obama ha fatto della guerra in Siria, in particolare l’idea che fosse possibile sconfiggere lo Stato Islamico mantenendo Assad al potere. Lister ha scritto al riguardo: «Gli sforzi militari contro lo Stato Islamico hanno avuto un sostanziale successo, ma il terrorismo rimane uno dei molti sintomi di una crisi più ampia, la cui causa principale è il regime di Assad. Non c’è modo di ignorare questa realtà». Secondo questa interpretazione, Obama avrebbe dovuto colpire Assad non solo perché aveva possibilità di farlo con un attacco mirato e non particolarmente rischioso, ma anche perché Assad è, in fin dei conti, la causa principale di una delle più importanti minacce alla sicurezza nazionale statunitense.