Forse il Venezuela si è davvero stufato di Maduro
Le ultime proteste hanno coinvolto anche la parte più povera della popolazione, storicamente più vicina al governo socialista: che ha reagito con più violenza del solito
Il Venezuela sta attraversando da diversi anni una gravissima crisi politica, economica e sociale: le cose sono peggiorate via via e da tre settimane ci sono proteste quotidiane molto violente (più del solito) contro il presidente Nicolás Maduro e sono morte cinque persone. Secondo gli osservatori si tratta di una situazione diversa rispetto a quella degli anni passati: mentre prima le manifestazioni riguardavano soprattutto la classe media, queste nuove proteste coinvolgono anche gli abitanti dei quartieri più poveri e delle baraccopoli, storicamente solidali con la rivoluzione socialista dell’ex presidente Hugo Chávez e con il governo di Maduro. Le proteste hanno il sostegno internazionale e le opposizioni sono più forti: per questi motivi le circostanze rischiano di essere per il governo molto più pericolose che in passato, e quindi rischiano di causare risposte più violente.
La crisi politica in Venezuela si era aggravata nell’ottobre del 2016: il parlamento unicamerale del paese, in cui la maggioranza dal 2015 è controllata dall’opposizione (il Tavolo dell’unità democratica, MUD, coalizione di centrodestra), aveva accusato il presidente socialista Maduro (del Partito Socialista Unito del Venezuela e al potere dal 2013 dopo la morte di Hugo Chávez) di aver fatto un colpo di stato impedendo ai cittadini di andare a votare. Nei mesi precedenti le opposizioni avevano raccolto le firme necessarie per chiedere un referendum sul capo dello stato, ma la commissione elettorale ne aveva sospeso l’organizzazione: così facendo aveva di fatto escluso la possibilità che in Venezuela ci potessero essere elezioni prima della naturale scadenza della legislatura, dato che la legge prevede che negli ultimi due anni di mandato non si possa far cadere il governo anche in caso di approvazione di un referendum contro il presidente.
I partiti di opposizione volevano organizzare il referendum perché ritengono Maduro responsabile della grave crisi economica in cui ormai da tre anni si trova il Venezuela. Nel paese continuano a mancare cibo e medicinali, con milioni di famiglie in difficoltà, con i costi dei consumi e i prezzi dei beni di prima necessità sempre più alti. Lo Stato non è più in grado di fornire i servizi basilari e l’inflazione è fuori controllo (nel 2016 è stata di circa l’800 per cento, secondo alcuni documenti della banca centrale).
A fine marzo il Tribunale Supremo di Giustizia, il massimo organo del sistema giudiziario del Venezuela, si era attribuito il potere legislativo dopo averlo tolto al Parlamento ed era stato un colpo durissimo per i partiti politici che si oppongono al presidente. Il Tribunale è controllato dal governo e la rimozione dei poteri del Parlamento era stata letta e descritta dalla stampa internazionale come l’ultima mossa di Maduro per accentrare ancora di più i suoi poteri e ridurre al minimo quelli dell’opposizione. Dopo giorni di proteste sia da parte dei cittadini sia dei rappresentanti dei governi di altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e molti paesi sudamericani, il Tribunale aveva ritrattato e aveva restituito il potere legislativo all’Assemblea Nazionale. Lo scontro tra governo e opposizioni non si è però esaurito: l’8 aprile l’ente pubblico incaricato di controllare l’azione dei funzionari aveva stabilito che Henrique Capriles, uno dei leader dell’opposizione ed ex candidato alle presidenziali del 2013, non potrà essere eletto per 15 anni a causa di «irregolarità amministrative» riscontrate durante il suo mandato come governatore dello Stato di Miranda, nel nord del paese, incarico che Capriles ricopre ancora oggi.
In questa complicata situazione, le proteste non si fermano da settimane. Giovedì 13 aprile un uomo di 32 anni è morto dopo essere stato colpito da una pallottola durante gli scontri. Il deputato dello stato di Lara, Alfonso Marquina, dell’opposizione, ha parlato su Twitter di «un’altra vittima della dittatura». Il martedì precedente un bambino di 13 anni e un uomo di 36 erano stati uccisi. Il 6 aprile e poi l’11, sempre durante le proteste, erano morti due studenti di 19 anni. Ieri migliaia di persone sono di nuovo scese in piazza. L’opposizione aveva pianificato le proteste in più di 300 comuni diversi con l’obiettivo di indebolire e disperdere le forze di sicurezza governative, ma a causa di un temporale tropicale l’operazione non è riuscita e la manifestazione più grande si è svolta a Caracas, la capitale. Il corteo è stato pacifico quasi fino alla fine, quando però alcuni ragazzi si sono scontrati con centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa che hanno lanciato gas lacrimogeni per disperdere la folla.
Per i prossimi giorni sono previste altre proteste: il 19 aprile, in particolare, si svolgerà una grande manifestazione a Caracas. Mentre nei mesi scorsi i cortei anti-governativi venivano organizzati nei quartieri della classe media, le agitazioni più recenti riguardano anche le zone più povere e le baraccopoli che storicamente hanno sempre sostenuto la rivoluzione socialista di Chávez, di cui l’attuale presidente Maduro è l’erede. Ed è la prima volta che questo accade. Un analista politico intervistato dall’agenzia di stampa Associated Press ha spiegato che le proteste di questo ultimo mese sono più pericolose per il governo rispetto alle iniziative analoghe organizzate dall’opposizione negli anni passati, ad esempio nel 2014.
Anche la reazione del governo è differente. Delsa Solórzano, deputata rimasta coinvolta negli scontri delle ultime settimane, ha detto che «la repressione che si è vista nei giorni scorsi è incomparabile rispetto a qualsiasi altra cosa a cui abbiamo assistito negli ultimi diciotto anni. Questo dimostra che il governo non si vergogna più di mostrare al mondo ciò che realmente è: una dittatura sanguinaria». Gli ultimi tentativi di Maduro di indebolire le opposizioni con mosse politiche molto controverse hanno poi portato alla coalizione di forze anche tra loro ideologicamente lontane: tutti questi movimenti e partiti hanno messo da parte le loro differenze per perseguire l’obiettivo comune di arrivare a elezioni presidenziali anticipate rispetto al dicembre del 2018 e che, secondo i sondaggi, il partito socialista al governo perderebbe. Le opposizioni chiedono anche la rimozione dei giudici che hanno tentato di sostituirsi al parlamento, il rilascio dei dissidenti incarcerati e una data per le elezioni amministrative che dovevano svolgersi nel dicembre del 2016, ma sono state rimandate in modo generico al 2017.
In tutto questo, gli oppositori di Maduro sono incoraggiati da una crescente condanna internazionale sulla condotta del governo. Giovedì 23 marzo quattordici paesi americani hanno firmato una dichiarazione congiunta per chiedere al governo del Venezuela di stabilire un calendario elettorale. Il testo è stato sottoscritto da Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Stati Uniti, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù e Uruguay. Una settimana prima il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), Luis Almagro, aveva pubblicato un rapporto di 75 pagine sulla situazione politica venezuelana. L’OSA è un’organizzazione internazionale che comprende 35 stati delle Americhe: è il principale luogo di discussione politica per la soluzione di problemi, per il mantenimento della pace e per il miglioramento delle condizioni sociali ed economiche dei paesi che ne fanno parte. Per l’OSA, l’attuale Venezuela è come una “dittatura”: «Giorno dopo giorno la repressione peggiora in Venezuela. Non possiamo accettarlo», ha detto Almagro. A tutto questo va aggiunto che all’interno dello stesso partito socialista al governo c’è qualche dissidente che ha cominciato a dichiarare pubblicamente le proprie critiche a Maduro. David Smilde, un esperto statunitense di Venezuela, ha detto a Financial Times: «Maduro è molto impopolare. Le opposizioni sono in una posizione più forte rispetto al 2014 e le loro richieste per nuove elezioni sono più sensate. La comunità internazionale le sostiene e questa volta potrebbero avere successo».