In Israele c’è l’apartheid?
Il paragone tra Israele e il regime razzista sudafricano ritorna spesso, e divide opinionisti, attivisti, diplomatici e storici
Negli ultimi anni i critici del governo di Israele hanno spesso paragonato le sue politiche nei confronti dei palestinesi a quelle del Sudafrica durante il cosiddetto regime dell'”apartheid”, in cui la società era ufficialmente e formalmente segregata su base etnica. Sono accuse molto gravi ma anche molto diffuse, su molti livelli: è una delle principali tesi del movimento “Boycott, Divestment and Sanctions”, una campagna globale per boicottare Israele e i suoi prodotti, e di recente ha trovato spazio anche in un rapporto di una commissione regionale dell’ONU (composta però solamente da rappresentanti di paesi arabi, storicamente ostili a Israele). Così come le accuse, periodicamente riappaiono anche le apologie: questo weekend il New York Times ha ospitato un articolo del giornalista Benjamin Pogrund – sudafricano naturalizzato israeliano, che in passato si è spesso occupato di apartheid – intitolato “Perché Israele non ha nulla in comune con l’apartheid in Sudafrica”, molto simile ad altri pubblicati in passato dallo stesso giornalista sul Guardian e su Haaretz.
Pogrund, come diverse altre persone che nel corso degli anni hanno rifiutato il paragone fra Israele e Sudafrica, spiega innanzitutto che le accuse sono molto gravi e vogliono dire cose precise. Apartheid non vuol dire semplicemente razzismo: fu una politica precisa che restò in vigore dal Secondo dopoguerra fino al 1994, e in quel periodo, spiega Pogrund, «condizionava ogni aspetto della tua vita: la scuola che frequentavi, il lavoro che facevi, il posto dove vivevi, l’ospedale e l’ambulanza da cui venivi soccorso, la persona che potevi o meno sposare, fino a quale panchina del parco ti potevi sedere senza rischiare di essere arrestato». In poche parole, secondo Pogrund, le politiche Israele non sono gravi e sistematiche quanto quelle del regime sudafricano: non c’è nessuna legge che vieti ai cittadini israeliani di etnia araba di votare ed essere eletti in Parlamento, per esempio, o che li obblighi a usare scuole o ospedali separati e di qualità inferiore.
Dahlia Scheindlin, una sondaggista e blogger per la rivista israeliana di sinistra +972, ha risposto a Pogrund spiegando che stabilire un paragone fra le politiche del governo israeliano e quelle del governo sudafricano – «come se la relatività fosse tutto ciò che conta» – manca il centro della questione. Secondo Scheindlin, il punto non è giudicare se le leggi israeliane siano uguali a quelle del vecchio Sudafrica ma riconoscere che di fatto siano discriminanti verso un’etnia, cioè i palestinesi e gli arabi di origine palestinese che vivono in Israele. Secondo i sostenitori del paragone, come gli aderenti al movimento BDS, Israele compie quotidianamente atti descritti dallo Statuto di Roma del 2002 pubblicato dalla Corte penale internazionale, che definisce il crimine di “apartheid”: «atti disumani […] commessi in un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio di un gruppo etnico su uno o più gruppi etnici, perpetrati con l’intenzione di mantenere il potere».
Apartheid insomma vuol dire una cosa precisa: segregazione sistematica su base razziale, che ha come obiettivo far mantenere il potere all’etnia dominante. Il discorso è però piuttosto sfumato quando si parla dei territori che appartengono legittimamente a Israele: ai cittadini di etnia araba – circa 1,6 milioni di persone, il 20 per cento della popolazione totale israeliana – sono garantiti tutti i diritti fondamentali: possono sposare chi vogliono, aprire qualsiasi attività commerciale, e votare alle elezioni locali e nazionali, al contrario di quello che succedeva in Sudafrica durante l’apartheid. Le loro condizioni di vita però non sono identiche a quelle della maggior parte degli israeliani: per esempio sono esclusi dal servizio militare, uno dei momenti più formativi per i giovani israeliani, e in diversi contesti vengono malvisti o discriminati, e spinti a ricavarsi una propria nicchia; e quindi a frequentare apposite scuole a maggioranza araba, o a scegliere alcune carriere lavorative piuttosto che altre (per esempio quella del tassista).
Secondo i sostenitori del paragone fra Israele e Sudafrica, nonostante l’impianto legislativo israeliano non sia così esplicito come quello sudafricano, prevede comunque leggi che danneggiano gli arabi: Adalah, una ONG israeliana che promuove i diritti della minoranza araba, ha elencato una cinquantina di leggi attualmente in vigore che secondo loro danneggiano soprattutto gli arabi (per esempio una legge del 2011 che permette a un tribunale di togliere la cittadinanza in caso di condanna per spionaggio o terrorismo).
Il discorso cambia decisamente se si parla di Gerusalemme est – territorio che Israele occupa militarmente da quasi 50 anni, ma che secondo il diritto internazionale spetterebbe ai palestinesi – e alla Cisgiordania. Pogrund, e molti che la pensano come lui, sostengono innanzitutto che si tratti di un’occupazione militare: quindi una situazione eccezionale, in cui al momento non si trova nessun altro paese che si definisca “occidentale”. In questo caso la tesi principale di Pogrund, cioè che nessuna legge o politica del governo israeliano è tanto grave quanto quelle promosse dal Sudafrica, si combina con un’altra teoria: la necessità di sicurezza da parte dello stato israeliano. Scrive Pogrund:
«Quello che il movimento BDS definisce il “muro dell’apartheid”, che è perlopiù una recinzione, eccetto che nelle aree più popolate, fu eretto fra Israele e la Cisgiordania per ragioni di sicurezza, su tutte per tenere fuori gli aspiranti attentatori suicidi. Purtroppo, nella sua fase di costruzione, il muro è diventato un’occasione per recintare e sottrarre altra terra ai palestinesi. È stata una mossa avida e orrenda, ma non ha niente a che fare con la segregazione razziale»
Pogrund torna alla sua tesi iniziale, e cioè che anche nei confronti degli abitanti della Cisgiordania l’approccio israeliano non è sistematicamente razzista come quello sudafricano: «occupare significa opprimere», scrive Pogrund, «ma nessun dominio di un popolo ostile può essere positivo, e l’applicazione di questo dominio è pesante. Ma dal mio punto di vista, non c’è traccia di un razzismo istituzionalizzato, dell’intenzionalità che sorresse l’apartheid in Sudafrica». In molti di quei territori inoltre, come ha fatto notare l’analista Jake Beaumont sullo Huffington Post, molti aspetti della vita degli abitanti come l’istruzione, la riscossione delle tasse e la sicurezza sono regolati dall’entità statale palestinese: e quindi sarebbe scorretto incolpare Israele per tutto quello che non funziona o per le scarse prospettive dei palestinesi.
I suoi critici sostengono la posizione opposta: in rapporto all’occupazione, Israele discrimina apertamente i palestinesi, e addirittura promuove trattamenti di favore verso una particolare categoria di persone, cioè quella dei coloni. Il paragone fra l’apartheid e il dominio di Israele sulla Cisgiordania è stato tirato in ballo esplicitamente anche da diversi politici o funzionari israeliani, come l’ex procuratore nazionale Michael Ben-Yair o l’ex leader del partito di sinistra Meretz, Shulamit Aloni.
I sostenitori del paragone fra Israele e il Sudafrica fanno notare che un cittadino palestinese che vive in Cisgiordania non gode degli stessi diritti di un colono israeliano (cioè di una persona che vive su un territorio che le principali organizzazioni internazionali considerato occupato illegalmente). I coloni ricevono sussidi e agevolazioni dal governo israeliano, che garantisce loro anche i servizi essenziali, e se commettono un reato vengono giudicati dai tribunali ordinari. I residenti palestinesi della Cisgiordania, benché dispongano di un’entità para-statale che si occupa di diversi ambiti della loro vita, devono fare i conti con lo stato israeliano in moltissime situazioni quotidiane, come viaggiare, costruire una casa o ottenere un permesso di lavoro. Di recente Yael Berda, che ha studiato a Princeton e insegna legge all’università ebraica di Gerusalemme, ha calcolato che la vita di un cittadino palestinese è governata da 101 permessi che possono essere rilasciati o meno dalle autorità israeliane.
Per alcuni crimini legati al terrorismo, inoltre, i palestinesi sono giudicati dalla legge militare israeliana, che prevede pratiche molto controverse come la “detenzione amministrativa” – cioè un arresto di mesi o anni senza che l’autorità sia costretta a procedere con l’incriminazione – oppure pene altissime per alcuni specifici reati, come il lancio di pietre (per cui da qualche anno esistono pene fino a 20 anni di carcere). Pratiche del genere, che Israele giustifica con i pericoli legati al terrorismo e all’oggettiva instabilità delle autorità palestinesi, sono però da tempo criticate dalle ONG che si occupano di diritti umani. «Apartheid significa che centinaia di attacchi compiuti dai coloni contro la proprietà e le vite dei palestinesi passino inosservati senza indagini, incriminazioni o condanne. Apartheid significa che innumerevoli palestinesi siano incarcerati o uccisi senza processo o senza una giusta causa, sparati alla schiena mentre scappano», ha scritto nel 2015 in un articolo molto duro il giornalista di Haaretz Bradley Burston.
A causa della complessità della situazione e della gravità delle accuse, l’accusa di avere instaurato un regime di segregazione razziale non è condivisa praticamente da nessuno a livello istituzionale: Rima Khalaf, la diplomatica giordana che lavorava come segretario della commissione regionale dell’ONU che ha pubblicato il report che contiene il controverso paragone fra Israele e l’apartheid, pochi giorni dopo la sua diffusione si è dimessa in seguito alle moltissime critiche e pressioni ricevute.