I falsi miti sulle società partecipate
Li ha elencati su Repubblica l'ex commissario alla spending review Roberto Perotti, insieme a tre "soluzioni sbagliate" promosse dalla riforma Madia
Roberto Perotti, professore dell’università Bocconi ed ex commissario alla revisione della spesa pubblica (la cosiddetta “spending review”), ha scritto un articolo pubblicato ieri su Repubblica in cui parla delle società partecipate dallo Stato, di come ridurle di numero e renderle più efficienti. Le società partecipate dallo Stato sono società di cui lo Stato è proprietario di una quota del capitale. Nell’articolo Perotti elenca tre “falsi miti” sulle società partecipate e tre “soluzioni sbagliate” che hanno l’obiettivo di ridurre il problema dei costi eccessivi e della scarsa efficienza, ma che rischiano di ottenere risultati opposti a quelli che si propongono. La situazione delle partecipate è un problema di cui in Italia si sente parlare da anni. Secondo il luogo comune sono tra le 8 e le 10 mila società di cui gran parte non svolgono una vera funzione pubblica, ma sono soltanto fonte di sprechi e corruzione, oppure si occupano di attività che con l’amministrazione pubblica c’entrano ben poco. Uno dei casi che si citano più spesso è quello delle più di trenta partecipate del comune di Roma, tra cui sono società come Assicurazioni Roma, che, come il nome lascia intuire, è una vera e propria società assicurativa.
Si tornato a parlare di recente di questo tema per via della cosiddetta “riforma Madia“, dal nome della ministra della Funzione pubblica Marianna Madia. Tra molte altre cose, la riforma prova anche a ridurre e razionalizzare le società partecipate. Secondo Perotti, però, la riforma parte da alcune concezioni sbagliate e finirà così col produrre pochi risultati (i primi risultati della riforma in questo settore si dovrebbero vedere a fine settembre). Perotti fu nominato commissario alla “spending review” del governo Renzi nel marzo 2015 e si dimise il novembre successivo in polemica con il governo.
Falso mito: Ci sono 8 mila partecipate
Spesso si sente dire che le società partecipate dallo Stato sono ottomila, molte delle quali sono gusci vuoti che servono soltanto ad assicurare posti nei loro consigli di amministrazione a politici o amici dei politici. Spesso si sente dire che da ottomila partecipate sarebbe facile scendere a mille. Lo ha detto per esempio l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Partecipate. Da ottomila a mille, tetto ai dirigenti, riduzione poltrone, trasparenza dei dati #italiacolsegnopiù
— Matteo Renzi (@matteorenzi) October 15, 2015
In realtà, scrive Perotti, la cifra “ottomila” deriva da un grosso fraintendimento: il ministero della Funzione pubblica ha una banca dati che contiene l’elenco di tutte le partecipazioni pubbliche nelle società, ma questo elenco comprende anche le partecipazioni dello 0,01 per cento del capitale: in altre parole contiene anche le partecipazioni di minoranza dello stato all’interno di società che sono in realtà del tutto private. Tenendo conto solo delle società in cui lo stato ha la maggioranza delle azioni, e quindi “comanda”, le società partecipate scendono a 3.200.
Falso mito: si possono risparmiare miliardi
Tutto il dibattito sulle società partecipate ruota sostanzialmente intorno all’idea che chiudendone alcune e accorpandone altre si possano risparmiare miliardi di euro che sarebbero spesi molto meglio in altre attività. Carlo Cottarelli, commissario alla “spending review” prima di Perotti (anche lui si dimise dall’incarico in polemica con il governo), stimò il risparmiò massimo che si poteva ottenere in tre miliardi di euro. Secondo Perotti, però, pensare di intervenire sulle partecipate con lo scopo di ottenere ampi risparmi è un’illusione.
Buona parte del costo delle partecipate deriva da dipendenti e dirigenti pubblici che, una volta chiusa la società, non possono essere licenziati e rimarrebbero a carico dello Stato. Secondo Perotti è necessario intervenire sulle partecipate perché «sono una mangiatoia, il terreno di cui si nutre il sottobosco della politica e dell’economia, dove i faccendieri si attivano per comprare favori invece di fare gli imprenditori, e i piccoli politici locali perdono tempo a negoziare nomine invece di dedicarsi all’ordinaria amministrazione, o, peggio, si fanno corrompere».
Falso mito: bisogna chiudere le partecipate in perdita
Uno dei criteri di cui si sente a volte parlare per decidere se chiudere una partecipata o meno è il suo conto economico: se è in attivo, cioè se guadagna, sarebbe un bene per lo Stato; se è in perdita, invece, significa che la partecipata nasconde degli sprechi e quindi va chiusa. Ma, nota Perotti, quello che davvero dovrebbe importare ai contribuenti è se una società è efficiente o meno, non se guadagna. Una partecipata infatti può essere gestita male, avere troppi dipendenti e fare un sacco di sprechi, ma riuscire comunque a guadagnare. Perché, per esempio, opera in un regime di monopolio che le consente di tenere i prezzi alti. D’altro canto, un’altra società potrebbe essere in perdita perché le viene imposto di tenere i prezzi bassi per motivi politici, mentre però i suoi amministratori la gestiscono in maniera molto efficiente.
Soluzione sbagliata: l’approccio formale
Secondo Perotti, la riforma Madia usa una serie di approcci sbagliati per cercare di risolvere il problema delle partecipate. Uno di questi è quello che chiama “l’approccio formale”: cioè in alcuni casi si limita a elencare cosa dovrebbero o non dovrebbero fare le partecipate, senza cercare di intervenire più in profondità, colpendo le cause di sprechi e inefficienze. Per esempio la riforma prescrive che un’amministrazione pubblica non possa partecipare in “società non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”. Ma, come nota Perotti: «Quale amministratore pubblico ammetterà mai che una partecipata è inutile?».
Inoltre, un’amministrazione pubblica potrà acquisire partecipazioni in una società solo se questa fornisce “servizi pubblici di interesse generale” che soddisfino “i bisogni della collettività” e garantiscano “l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale”. Sono tutti obiettivi nobili e legittimi, scrive Perotti, ma anche estremamente generici. È facile immaginare, scrive Perotti, come con criteri così ampi qualunque amministratore pubblico possa giustificare l’acquisizione o la creazione di una società partecipata che si occupi di «concetti fumosi» come la “coesione sociale” o i “bisogni della collettività”.
Soluzione sbagliata: burocrazia aggiuntiva
Secondo Perotti, un altro problema della riforma Madia è il tentativo di rendere le partecipate più efficienti imponendo loro una serie di nuovi adempimenti e obblighi burocratici che rischiano soltanto di appesantirle ulteriormente. Per esempio le partecipate dovranno predisporre “programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale” che servano a stabilire quando adottare “provvedimenti” straordinari che servano a evitare “l’aggravamento della crisi”. Obbligare le partecipate a stendere piani e programmi, però, non assicura che quei piani e quei programmi siano scritti bene o servano a qualcosa, scrive Perotti. Chi, infatti, dovrebbe controllarli e stabilire se sono efficaci?
Un altro caso di inutile burocrazia, secondo Perotti, è l’obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche di redigere piani per razionalizzare le proprie partecipate in cui si indichino chiaramente quali non sono “strettamente necessarie” o quelle che svolgono “attività simili a quelle di un’altra partecipata”. Secondo Perotti, però, sono richieste inutili: se un’amministrazione pubblica ha creato delle partecipate inutili è probabile che farà di tutto per giustificarne l’esistenza; se invece è un’amministrazione virtuosa interessata a eliminare gli sprechi non avrà bisogno di una richiesta da parte del ministero per iniziare il lavoro di razionalizzazione.
Soluzione sbagliata: aumentare le poltrone
L’ultima conseguenza dell’atteggiamento “formale” della riforma Madia è l’aumento degli organi di controllo. Già oggi, scrive Perotti, in ogni partecipata pubblica esistono due “controllori”: il collegio sindacale e l’organo interno di vigilanza. Secondo Perotti è un meccanismo che può avere senso nelle grandi società, ma che non è giustificato per le partecipate più piccole: eliminando l’organo interno di vigilanza, che non è composto da dipendenti pubblici, scrive Perotti, si sarebbero potute eliminare 10 mila posizioni. La riforma, però, va nella «direzione opposta» e prevede la creazione di un terzo organo di controllo all’interno di ciascuna partecipata. Si chiamerà “ufficio di controllo interno” e avrà il compito di trasmettere periodiche relazioni sullo stato della partecipata agli altri organi di controllo interni alla società.