E quindi com’è il nuovo disco di Drake?
Che non è un disco ma una playlist lo saprete già, ma “More Life” sta comunque macinando record e soprattutto sta piacendo molto
È passata ormai più di una settimana da quando è uscito More Life, l’ultimo disco del rapper canadese Drake, arrivato a meno di un anno da Views, che aveva avuto uno straordinario successo commerciale ma non era piaciuto granché ai critici. La prima cosa da sapere su More Life è che non è un vero disco, o meglio non è stato presentato così: Drake ha detto che è una playlist, e più precisamente «una playlist che offra una raccolta di canzoni che diventino la colonna sonora della tua vita». Non è quindi neanche un mixtape, come vengono chiamati nell’hip hop le raccolte di canzoni pubblicate spesso con meno sforzi dei dischi veri e propri, e a volte per scopi promozionali più che commerciali. Ma sono tutte distinzioni piuttosto fluide, e More Life probabilmente complicherà le cose. Intanto ha stabilito il record di disco (ok, playlist) più ascoltato di sempre sui servizi in streaming negli Stati Uniti in una sola settimana: 385 milioni di volte.
Dietro alla decisione di farlo uscire come playlist ci sono soprattutto ragionamenti commerciali. L’asticella della complessità e del lavoro necessario dietro un disco, negli ultimi anni, è stata spostata molto in alto da lavori come Lemonade di Beyoncé, To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar o The Life of Pablo di Kanye West. I critici si aspettano dai pesi massimi del pop e dell’hip hop mondiale dischi con una certa coerenza e che trasmettano una narrazione precisa ed efficace, e spesso finiscono per stroncare quelli che non si inseriscono in questo schema. È un po’ quello che è successo con Views, un buon disco con dentro alcune hit praticamente perfette e che infatti hanno avuto un successo incredibile – “Hotline Bling’ e “One Dance” – ma che non era paragonabile per profondità a quelli che sono considerati i migliori dischi hip hop del decennio, finora. Spacciando More Life per una playlist, Drake ha aggirato questo problema, rendendo probabilmente meglio disposta e più tollerante la critica.
Sempre in quanto playlist, per More Life Drake ha fatto moltissime collaborazioni, ancora più di quelle che normalmente compaiono in un disco hip hop. In nove delle ventidue canzoni del disco – che è molto lungo, appunto – non canta da solo, e in alcune di queste non canta del tutto: è il caso di “Skepta Interlude”, in cui canta solo il rapper britannico Skepta. Tra i featuring del disco (cioè le collaborazioni) ci sono alcuni degli artisti hip hop più apprezzati del momento: alcuni piuttosto navigati, come 2 Chainz, Giggs, Kanye West e lo stesso Skepta; altri molto giovani, come Young Thug, Travis Scott, Sampha, Quavo dei Migos e PartyNextDoor. Non è nemmeno di Drake la prima voce che si sente nel disco, in “Free Smoke”: è quella di Nai Palm del gruppo australiano degli Hyatus Kaiyote. Da quando qualche anno fa Billboard ha iniziato a contare i servizi di streaming musicale per le sue classifiche, anche le playlist sono state ammesse: per questo More Life gareggia nello stesso campionato dei dischi veri e propri e attira le stesse attenzioni. Ma è possibile – e certo, nel caso di Drake – che venda di più, visto come sono cambiate le abitudini delle persone e in particolare dei giovani nell’ascolto della musica: sempre meno dischi interi, sempre più singole canzoni.
Ma oltre ai calcoli commerciali e alle strategie di marketing, la playlist è anche un mezzo in cui Drake si trova molto a suo agio dal punto di vista artistico. Da quando è nel giro dei nomi grossi dell’hip hop, cioè da poco meno di dieci anni, Drake ha affrontato generi diversi: dal rap più tradizionale al pop, dalla trap alla dancehall, si è fatto influenzare dalla musica africana (soprattutto in Views) e da quella caraibica, ha fatto cose più tradizionali e altre molto più contemporanee. Ha fondato il suo successo proprio su questo eclettismo, che è stato dettato da inclinazioni personali e talento quanto da ragionamenti commerciali. La sua stessa immagine pubblica è molto lontana da quella del rapper tradizionale – fa sempre il bravo ragazzo, gioviale e bonario – e questo lo ha reso una figura piuttosto divisiva tra gli appassionati, e ha reso difficile per molte delle persone sopra una certa età capirne il successo. Non fa il duro e quando ci prova fallisce piuttosto clamorosamente; viene preso in giro per i suoi balletti buffi; diventa meme insieme alle sue relazioni o presunte tali (con Jennifer Lopez e Rihanna, per dire le più famose). E ciononostante, o forse proprio per questo, è probabilmente la più grande popstar maschile degli ultimi anni, e da anni è tra i maggiori responsabili dell’evoluzione dell’hip hop.
L’unico singolo che ha anticipato More Life (anche questa una strategia insolita) è stato “Fake Love”, probabilmente la canzone che ricorda di più Views e in particolare “Hotline Bling”. Ma la canzone di cui hanno parlato tutti da subito è stata “Passionfruit”, la terza del disco, che diventerà probabilmente una delle tre-quattro canzoni più ascoltate dell’anno e forse tra quelle più famose della carriera di Drake (e ci sono ragioni scientifiche, ha ipotizzato qualcuno). Se “Passionfruit” è una canzone pensata per diventare una hit dancehall che domini le rotazioni radiofoniche, fin dall’inizio More Life propone però canzoni più aggressive e meno tradizionali, come “No Long Talk”, che è invece sostanzialmente un pezzo grime, uno dei generi di hip hop più popolari in Inghilterra. C’è poi molta trap, cioè il rap con basi veloci e sincopate che si sente per esempio in “Gyalchester” e “Portland”. Se in alcune canzoni la mano di Drake è molto evidente, perché sfruttano le stesse invenzioni e sonorità che lo hanno reso famoso – “Madiba Riddim” e “Get It Togheter”, per esempio – altre sono evidentemente influenzate soprattutto dagli artisti che ci hanno collaborato: come “Glow”, che più che un pezzo con Kanye West è praticamente è un pezzo di Kanye West, o “4422”, in cui si sente soltanto il cantante britannico Sampha.
L’opinione generale della critica è che con More Life Drake sia riuscito a raddrizzare quella leggera sbandata che era stata Views, che non era un brutto disco ma aveva messo in dubbio quella che si riteneva essere una dote particolare di Drake: non sbagliarne neanche una, riuscendo sempre a trovare l’equilibrio tra successo di critica e di pubblico. Drake parla tra l’altro proprio di Views in “Do Not Disturb”, l’ultima canzone del disco, dicendo “I was an angry yout when I was writin’ Views / Saw a side of myself that I just never knew” (“Ero arrabbiato quando scrivevo Views / Ho visto una parte di me che non conoscevo”). Su Pitchfork, Jaysone Greene ha notato come Drake abbia deciso di cominciare il disco con una canzone «che non fa prigionieri» come “Free Smoke”, ma dentro ci abbia messo un verso un po’ goffo come «Ho scritto a J-Lo da ubriaco, era un vecchio numero ed è tornato indietro»: secondo Greene queste contraddizioni «sono sempre state parte integrante di quello che Drake ha ereditato dall’hip hop: e saranno una parte ancora più grande di quello che lascerà lui».
Una delle critiche più condivise è quella che ha fatto Dan Weiss su Consequence of Sound, sostenendo che More Life sia un disco troppo lungo, come già lo era stato Views: «non abbiamo bisogno di tre ore di Drake ogni due anni», ha scritto, aggiungendo che comunque è più difficile questa volta trovare cinque o sei canzoni che potevano essere tolte. Sul New York Times, Jon Caramanica ha paragonato More Life a Lemonade di Beyoncé per quanto riguarda la varietà di generi che contiene e per la sapienza con cui sono affrontati, e usa una parola molto accostata a More Life: la “diaspora”, intesa come diaspora africana nel mondo, che il disco in un certo senso prova a ricucire pescando da posti diversi del mondo in cui la musica black si è sviluppata e si è diversificata negli ultimi due secoli. In questo senso, secondo Caramanica, Drake «è un etnomusicologo», che però non si è dimenticato come si fa a cercare sempre le sonorità più contemporanee e le direzioni che prenderà la musica del futuro.