La riconciliazione in Sri Lanka va a rilento
Il governo ha proposto riforme e tribunali che giudichino i crimini commessi durante la guerra contro le Tigri Tamil, ma ci sono molti problemi
Poco meno di otto anni fa in Sri Lanka finì una guerra civile violentissima durata 26 anni che uccise 100mila persone. La guerra si combatté tra l’esercito srilankese e le Tigri Tamil, un’organizzazione di etnia tamil che rivendicava la creazione di uno stato indipendente nel nord e nell’est dello Sri Lanka. Si riuscì a raggiungere una “pace” solo nel 2009, quando le Tigri Tamil furono definitivamente sconfitte dall’esercito srilankese alla fine di una durissima repressione ordinata dal presidente Mahinda Rajapaksa. Da allora in Sri Lanka è cominciato un lungo e complicato processo di riconciliazione tra il governo e i tamil, di cui si sta occupando anche il Consiglio per i diritti umani dell’ONU (UNHCR). Due anni fa, dopo l’elezione di un governo riformista appoggiato anche dai tamil, sembrava che il paese fosse sulla strada giusta per risolvere le questioni ancora rimaste in sospeso dalla guerra. Oggi però ci sono molti dubbi che questo processo possa essere concluso presto, nonostante alcuni indiscutibili passi avanti, e la prospettiva di una riconciliazione nazionale sembra essersi di nuovo allontanata.
Dov’è lo Sri Lanka, cos’è e chi sono i tamil
Sri Lanka non è il vero nome: in realtà si chiama Repubblica Democratica Socialista dello Sri Lanka e fino al 1972, anno dell’indipendenza dal Regno Unito, era conosciuta come Ceylon. Lo Sri Lanka è un’isola del sud-est asiatico, appena sotto l’India, è abitata per la maggior parte da singalesi, che sono il principale gruppo etnico del paese (75 per cento della popolazione), seguiti dai tamil srilankesi (11 per cento, a cui andrebbero aggiunti anche i tamil di origine indiana e i tamil musulmani).
La stragrande maggioranza degli srilankesi è buddista (70 per cento), ma ci sono anche comunità induiste, musulmane e cristiane. I tamil srilankesi, che vivono principalmente nel nord e nell’est del paese, sono per lo più induisti. I tamil cominciarono a chiedere la secessione dallo Sri Lanka dopo la fine del periodo coloniale britannico e il gruppo più noto e importante che prese parte alla lotta fu quello delle Tigri Tamil. La guerra delle Tigri Tamil non fu “convenzionale” e i ribelli usarono molte tattiche tipiche dei movimenti terroristici: per esempio furono il primo gruppo ribelle a usare le cinture esplosive e impiegare le donne per compiere attentati suicidi. Furono anche gli unici a uccidere due leader mondiali: l’ex primo ministro indiano Rajiv Gandhi, marito di Sonia Gandhi, nel 1991, e l’ex presidente srilankese Ranasinghe Premadasa, nel 1993. Sono considerati ancora oggi un’organizzazione terroristica da 32 paesi del mondo.
Le terribili violenze della guerra hanno reso molto complicato un processo di riconciliazione nazionale, che dovrebbe comprendere sia un ampio piano di riforme, tra cui la restituzione delle terre sottratte ai tamil dall’esercito, sia l’avvio di processi a coloro che si sono resi responsabili di gravi crimini di guerra. Due anni fa sembrava si fosse arrivati a una svolta: nel gennaio 2015 si tennero le elezioni presidenziali, che furono vinte a sorpresa da Maithripala Sirisena, leader del Partito della Libertà (SLFP). Sirisena – che è di etnia singalese ma che fu appoggiato anche dalla stragrande maggioranza dei tamil, compresi quelli musulmani – riuscì a sconfiggere il candidato dato per favorito, Mahinda Rajapaksa, presidente uscente e responsabile dell’ultima fase di brutale repressione dell’esercito srilankese contro le Tigri Tamil. Rajapaksa fu sconfitto anche alle successive elezioni politiche che si tennero qualche mese dopo, per le quali si era candidato primo ministro. Il problema è che la sua influenza sulla politica srilankese non si è esaurita, nonostante le batoste elettorali: per formare il nuovo governo, il partito di Sirisena ha dovuto allearsi con un’altra forza politica considerata molto vicina a Rajapaksa e i cui sostenitori, per lo più singalesi nazionalisti, hanno poco interesse a sostenere il processo di riconciliazione.
Il presidente srilankese Maithripala Sirisena durante un evento elettorale vicino a Colombo, il 5 gennaio 2015 (AP Photo/Eranga Jayawardena)
Le riforme e la riconciliazione
Nel suo piano di governo, Sirisena ha promesso una serie di riforme molto importanti e ha cominciato ad accordarsi con l’ONU per l’istituzione di tribunali giudicanti sui crimini commessi durante la guerra. Tra le altre cose, ha detto di voler presentare presto al parlamento una nuova Costituzione, di modo da poterla sottoporre entro la fine dell’anno al voto popolare: prevederebbe un trasferimento di poteri dal presidente al parlamento e più poteri alle province srilankesi, a cui verrebbero attribuite competenze di polizia e di registrazione delle terre. L’obiettivo di queste riforme sarebbe soddisfare le richieste di maggior autonomia avanzate dai tamil senza però arrivare a un pieno federalismo, a cui si oppongono moltissimi singalesi. Allo stesso tempo il governo si è impegnato ad avviare un processo di riconciliazione in vari punti, per lo più presentati nel 2015 dal Consiglio per i diritti umani dell’ONU: la creazione di un ufficio per le persone scomparse, che ricostruisca la sorte delle migliaia di persone sequestrate o uccise durante la guerra; la sostituzione della legge sulla prevenzione del terrorismo, che permette alla polizia di tenere in custodia i sospettati di reati di terrorismo per 18 mesi senza processo; e soprattutto i risarcimenti alle famiglie le cui terre sono state confiscate o distrutte nella guerra. Il piano di riconciliazione dovrebbe prevedere anche l’istituzione di una commissione competente a chiarire alcuni episodi controversi della guerra e – proposta più controversa – la creazione di un tribunale misto che includa anche giudici e avvocati stranieri e che valuti le responsabilità delle peggiori atrocità commesse durante il conflitto.
Il problema, ha raccontato l’Economist, sono soprattutto i nazionalisti singalesi, molto restii a fare concessioni ai tamil e soprattutto ostili alla creazione di tribunali misti che includano giudici stranieri. Sirisena ha fatto capire di non poter ottenere i consensi per entrambi i piani, quello riguardante le riforme e quello relativo alla creazione di tribunali per i crimini commessi in guerra. Vuole fare una cosa alla volta. Mandala Samaraweera, ministro degli Esteri srilankese, ha detto che «le persone che ragionano alla stessa maniera di Rajapaksa e che occupano posizioni importanti stanno facendo ostruzione alle riforme chiave», ma aggiunto che il processo di riconciliazione non si è fermato, ha solo rallentato.
Mahinda Rajapaksa durante un evento elettorale a Kandy il 14 agosto 2015 (Buddhika Weerasinghe/Getty Images)
Intanto la situazione nelle zone dello Sri Lanka a maggioranza tamil non è troppo tranquilla. «I tamil sono sempre più frustrati», ha scritto l’Economist, sono molto poveri e dal punto di vista economico dipendono in larga parte dalle rimesse delle milioni di persone che sono emigrate in Australia, Regno Unito, Canada, Malesia e Medio Oriente per cercare lavoro. Le condizioni delle aree tamil lasciano a desiderare e il governo sta facendo poco per migliorarle: per esempio non ci sono voli internazionali da e per Jaffna, la principale città della regione tamil, e l’aeroporto locale è ancora sotto il controllo dell’aviazione militare; il governo ha costruito nuove strade ma ha fatto poco sui programmi di sviluppo sociale e dell’agricoltura. La stragrande maggioranza di quelli che negli anni della guerra se n’erano andati all’estero per cercare condizioni migliori di vita non sono tornati e gli investimenti sono rimasti scarsi. La carenza di lavoro sta anche spingendo molti tamil a entrare nel mercato illegale del traffico di droga, che viene spacciata attraverso lo stretto di Palk, il braccio di mare che divide lo Sri Lanka dall’India. Rajapaksa, contrario al processo di riconciliazione così come presentato da Sirisena, ha detto che i tamil potrebbero riorganizzarsi e mettere in piedi una nuova ribellione contro il governo centrale di Colombo. È una prospettiva oggi improbabile, ha scritto l’Economist, ma nel lungo periodo è una cosa che potrebbe anche succedere, se si dovesse continuare a rimandare il processo di riconciliazione.