La scienza di ricordare tutto
Una nuova ricerca ha osservato che il cervello dei campioni di memoria non è diverso da quello degli altri: funziona diversamente, e si può imparare come
Sei anni fa il giornalista statunitense Joshua Foer raccontò in un libro, molto interessante e divertente, come riuscì a competere contro i più grandi campioni di memoria al mondo: con la sua esperienza personale dimostrò che in poco tempo – e con un po’ di costanza nell’esercitarsi – si possono apprendere le tecniche usate per mandare a memoria molte informazioni in pochi minuti, come un numero lungo centinaia di cifre o l’ordine esatto di un mazzo di carte appena mescolato. Ora una ricerca condotta presso la Radboud Universiteit Nijmegen (Paesi Bassi) ha dimostrato – con metodi più scientifici e test su un maggior numero di persone – come la capacità di ricordare molte informazioni possa essere alla portata di tutti o quasi, e non dipenda da un particolare dono in possesso di pochi.
Lo studio è stato pubblicato a inizio marzo sulla rivista scientifica Neuron e ha raccolto molto interesse, non solo per i suoi risultati che confermano teorie e studi precedenti, ma anche per il modo in cui è stata condotta e il numero di persone coinvolte. Martin Dresler, che ha guidato la ricerca, ha sottoposto decine di volontari a test per confrontare il funzionamento del loro cervello con quelli dei campioni di memoria, come quelli sfidati qualche anno fa da Foer. Dresler ha notato che nel cervello di questi atleti della memoria si attivano connessioni molto particolari, ma che sono sufficienti poche settimane di allenamento per attivarle. Con un po’ di esercizio la capacità può essere acquisita e non ci sono particolari differenze con i campioni, salvo il loro maggiore allenamento rispetto a chi ha iniziato da poco.
Neurologi e ricercatori negli ultimi decenni hanno raccolto diversi indizi circa la capacità del cervello di adattarsi per svolgere al meglio compiti particolari. Tra gli studi più citati ci sono quelli sui tassisti di Londra, che devono imparare a memoria buona parte dei nomi delle vie e delle piazze della città. È stato notato che nel loro ippocampo, un’area del cervello legata alla memoria, si sviluppano maggiori connessioni e si accumula più materia grigia, man mano che mandano a memoria più strade grazie alla loro esperienza.
Partendo da questi studi, Dresler si è chiesto se fosse possibile capire qualcosa di più su come funziona il cervello dei campioni di memoria, sfruttando la sua conoscenza con Boris Konrad, un 32enne tedesco che gode di una certa fama nei campionati di memorizzazione e che lavora anche come trainer. Le tecniche utilizzate per mandare a memoria in poco tempo grandi quantità di informazioni variano molto, ma la più diffusa è la cosiddetta “tecnica dei loci” (“palazzo della memoria”) già sfruttata nell’antichità da greci e romani per memorizzare discorsi e poemi.
Raccogliamo la maggior parte delle informazioni dal mondo che ci circonda attraverso i nostri sensi, e in questo la vista ha una funzione centrale: siamo animali visivi, e di conseguenza il nostro stesso modo di ricordare le cose si basa principalmente su ciò che abbiamo visto. Semplificando, la tecnica dei loci consiste nell’immaginare un luogo di cui si ha una perfetta conoscenza, per esempio la propria casa, e di creare un percorso al suo interno, lungo il quale inserire le cose da mandare a memoria che possono essere facilmente associate a un mobile o a un altro oggetto già presente nella casa. La tecnica viene affinata trovando legami e associazioni tra le informazioni da tenere a memoria, in modo da fissarle ancora meglio nel ricordo. Se si deve ricordare la sequenza 3 – 4 – 6 – 11, per esempio, si può pensare a un percorso che passi davanti ai 3 quadri nell’ingresso di casa, sotto i quali ci sono 4 scarpe comprate 6 anni prima per una partita di calcio a 11. I campioni di memoria utilizzano e affinano tecniche di questo tipo, basate sui loci e su storie assurde e per questo più semplici da ricordare, creando col tempo con la loro immaginazione palazzi giganteschi che possono contenere migliaia di informazioni.
Dresler e colleghi hanno messo a confronto 23 campioni di memoria con un gruppo di controllo, composto da volontari scelti sulla base della loro età, del genere e del quoziente intellettivo. Ogni partecipante è stato sottoposto a risonanza magnetica funzionale (un esame che consente di vedere quali aree del cervello si attivano in particolari condizioni) a riposo, quindi senza che i volontari dovessero fare qualcosa, e durante alcuni compiti di utilizzo della memoria. I ricercatori hanno notato che nessuna area del cervello dei campioni differiva da quella degli altri volontari, ma che le connessioni cerebrali dei primi differivano sensibilmente. L’esame ha portato quindi nuovi elementi alla teoria per cui il cervello dei campioni di memoria non sia diverso da quello degli altri, ma semplicemente funzioni in modo differente.
Per capirci qualcosa di più, Dresler ha organizzato un’ulteriore serie di test nella quale sono state coinvolte 51 persone che non avevano mai partecipato a gare di memoria, né che si erano allenate per farlo. Sono state divise in tre gruppi: uno per l’esperimento e due di controllo. Il gruppo sperimentale ha partecipato per sei settimane a corsi di addestramento sulla memorizzazione, per circa 30 minuti al giorno e utilizzando la tecnica dei loci. Un gruppo di controllo non ha ricevuto nessuna forma di addestramento, mentre l’altro è stato sottoposto a un diverso tipo di formazione basato sulla tecnica n-back, che non porta a memorizzare informazioni nel lungo periodo.
Passate le sei settimane, il gruppo sperimentale ha dimostrato un notevole miglioramento nella capacità di mandare a memoria nuove informazioni, mentre in nessuno dei due gruppi di controllo è stato osservato qualcosa di simile. Le analisi con risonanza magnetica funzionale hanno inoltre messo in evidenza l’attivazione di connessioni cerebrali simili a quelle che si osservano nei campioni di memoria. In tempi relativamente brevi, dice la ricerca, si manifestano quindi le stesse capacità nei neofiti rispetti a chi utilizza da tempo tecniche di memorizzazione a scopo agonistico.
Lo studio di Dresler ha raccolto molto interesse sia per il modo in cui è stato condotto, con tecniche più raffinate nella gestione dei gruppi di controllo, sia perché conferma le teorie sul fatto che attraverso l’esercizio e la pratica si possano modificare buona parte delle connessioni cerebrali legate alla memoria. La ricerca dimostra ancora una volta quanto sia flessibile il cervello e in grado di adattarsi a cambiamenti che a loro volta modificano il suo funzionamento.