Chi sono i G2
Nati in Italia o arrivati qui da bambini, i figli degli stranieri non sono riconosciuti come cittadini italiani
Con la sigla G2 – o con i termini “seconda generazione”, “nuovi italiani” – si definiscono le persone nate in Italia da cittadini stranieri o arrivate qui ancora minorenni. In sostanza, residenti in Italia che condividono con gli italiani per nascita il rapporto con il paese e lo Stato fuorché la cittadinanza e i suoi diritti. Oggi questo gruppo comprende circa 900 mila persone che durante l’infanzia hanno condotto lo stesso tipo di vita dei bambini italiani: sono andate a scuola, hanno frequentato corsi di musica e società sportive, hanno beneficiato di strutture pubbliche di diverso genere, spesso avendo genitori impiegati in lavori per imprese e strutture italiane, ma a differenza della maggioranza dei loro coetanei hanno vissuto tutto questo come stranieri perché l’Italia non li riconosce come propri cittadini.
A chi è riconosciuta la cittadinanza italiana?
La legge vigente al momento è la 91 del 1992. Questa prevede che la cittadinanza italiana sia acquisita per discendenza, se si è figli di almeno un genitore italiano o se si viene adottati da un italiano. Il principio che regola il nostro ordinamento è quindi quello dello ius sanguinis. Per la legge italiana non ha alcuna importanza che si nasca a Brescia o a Bangkok: per essere italiani è sufficiente che lo sia uno dei due genitori. Per contro, vigendo solo questo principio, non ha praticamente rilevanza il fatto di nascere sul territorio italiano. Quello che fa riferimento al luogo di nascita è un altro principio, lo ius soli, che per esempio viene applicato negli Stati Uniti, in Canada e in alcuni paesi europei come Regno Unito, Grecia e Portogallo (anche se a determinate condizioni). In Italia lo ius soli viene applicato in casi molto particolari, ad esempio se si nasce sul territorio italiano da genitori apolidi o se i genitori sono ignoti o non possono trasmettere la propria cittadinanza al figlio secondo la legge dello stato di provenienza.
Da adulti, i cittadini stranieri possono acquisire la cittadinanza italiana per naturalizzazione o attraverso il matrimonio. Nel primo caso, il richiedente deve risiedere in Italia da almeno dieci anni e dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali e non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica. Per i cittadini comunitari le cose sono un po’ più semplici: possono chiedere la cittadinanza dopo quattro anni di residenza legale, presentando anche in questo caso una serie di documenti come i certificati penali del Paese di origine e la fotocopia dei redditi percepiti negli ultimi tre anni e regolarmente dichiarati. Il riconoscimento non è scontato: nel 2014 sono state accordate 85.526 richieste, mentre 740 sono state giudicate inammissibili e 1464 respinte.
La cittadinanza per matrimonio è riconosciuta dal prefetto della provincia di residenza del richiedente. La procedura non è automatica: la richiesta può essere presentata dopo un termine di due anni dalla data del matrimonio se si risiede legalmente in Italia, mentre se si abita all’estero il periodo di tempo è di tre anni; questi termini però vengono dimezzati nel caso siano presenti figli nati o adottati dai coniugi.
Quindi, finché sono minorenni, i figli di stranieri ma nati in Italia o arrivati qui da bambini restano stranieri come i loro genitori, a meno che uno di quest’ultimi non acquisti la cittadinanza italiana e la possa trasferire ai figli. Pur non essendo italiani, i bambini che rientrano in questa categoria beneficiano delle tutele garantite dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, ratificata dalla legge 176 del 1991. In questo modo i minori stranieri hanno quasi gli stessi diritti dei loro coetanei italiani: quasi, perché per esempio a loro non sono riconosciuti i diritti derivanti dalla cittadinanza europea, che si acquisisce automaticamente diventando cittadino di un paese membro. Le cose cambiano in peggio al compimento dei diciotto anni: per gli italiani la maggiore età rappresenta l’automatico riconoscimento dei diritti civili, sociali e politici; per gli altri iniziano invece i problemi e le incombenze legate al fatto di essere adulti stranieri, privi di quei diritti. Ad esempio, devono rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno e non possono trascorrere periodi di tempo all’estero, nemmeno per motivi di studio, perché questi interromperebbero il periodo di residenza continuata necessaria per il riconoscimento della cittadinanza qualora il neo maggiorenne volesse presentare domanda al suo comune di residenza. Esiste infatti una forma condizionata di ius soli per chi è nato ed è stato residente in Italia in modo ininterrotto fino ai 18 anni. Stando a questa forma condizionata prevista dalla legge vigente, la persona ha un solo anno di tempo per fare la richiesta, scaduto il quale non solo resterà straniero, ma sarà valutato come uno straniero arrivato in Italia da qualche anno.
Le cose dovrebbero, dovevano, insomma, stavano per cambiare. Nel 2015 infatti è stato approvato dalla Camera un disegno di legge di riforma del diritto di cittadinanza che introduce alcune novità rispetto allo stato attuale dei G2. Alla proposta di riforma si era arrivati nel 2012, grazie alle associazioni riunite nella campagna “L’Italia sono anch’io”. Nella campagna vennero raccolte cinquantamila firme necessarie per la proposta di legge di iniziativa popolare. Tre anni dopo la legge venne approvata dalla Camera, ma ancora oggi dopo quasi due anni aspetta di essere discussa in Senato. Il disegno di legge è infatti fermo in commissione Affari costituzionali, bloccato da circa ottomila emendamenti presentati dalla Lega nel 2015. Verso la fine del 2016 è sembrato che la situazione si fosse finalmente sbloccata e che la commissione avrebbe dato la priorità ai lavori legati alla legge sulla cittadinanza: poi però ci sono stati il referendum costituzionale, il nuovo governo, e la commissione è rimasta senza presidente (era Anna Finocchiaro, divenuta Ministro per i rapporti con il Parlamento del governo Gentiloni). E la legge al momento non ha neanche un calendario di discussione al Senato.