Le cose vere e quelle finte di “Il diritto di contare”
L'apprezzato film sulle matematiche nere della NASA racconta storie vere, ma è pieno di cose vere a metà o proprio inventate
Il diritto di contare – nei cinema dall’8 marzo – è il film di Theodore Melfi (già regista di St. Vincent) che racconta la storia vera di tre donne nere che negli Sessanta diedero un rilevante contributo alla cosiddetta “corsa allo Spazio” e alle prime missioni spaziali della NASA. Le tre donne sono la matematica Katherine Johnson, l’aspirante ingegnere aerospaziale Mary Jackson e la matematica Dorothy Vaughan. In Il diritto di contare sono interpretate da Taraji P. Henson, Janelle Monáe e Octavia Spencer. Nel cast del film ci sono anche Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons, famoso soprattutto perché interpreta Sheldon Cooper in The Big Bang Theory.
l film è basato sul libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly. Hidden Figures è anche il titolo originale del film, ed è un gioco di parole perché in inglese figures vuol dire sia “cifre” che “persone” (c’è quindi un doppio significato, mantenuto nell’italiano “contare”). Il libro è uscito anche in italiano, edito da HarperCollins. Anzi, a dirla tutta il film è basato sulle bozze del libro, perché il libro vero è proprio è uscito nel settembre 2016, quando il film era già stato finito.
Il diritto di contare era candidato a tre Oscar (Miglior film, Miglior sceneggiatura non originale e Spencer come Miglior attrice non protagonista), ha vinto il premio per il Miglior cast assegnato dal SAG, il sindacato degli attori, e i critici ne parlano in modo positivo. È un film senza particolari trovate di regia, che racconta bene tre storie personali, inserendole in questioni più grandi, come la corsa allo Spazio e la questione razziale negli Stati Uniti degli anni Sessanta. Nessuno ne ha parlato come del film dell’anno, tantissimi ne hanno parlato come di un buon film: sono state apprezzate soprattutto le interpretazioni delle tre attrici e quella di Costner, e la capacità di essere leggero, con alcuni dialoghi azzeccati e momenti divertenti. Riassumendo: è un film che se la tira molto poco, fatto per piacere al pubblico (secondo alcuni con troppi ammiccamenti).
Una delle recensioni più positive l’ha fatta Leinka Cruz su Atlantic: in particolare ha scritto che il film riesce a essere corale e, soprattutto, a no far percepire la genialità delle sue protagoniste come una cosa inaccessibile e magari di per sé problematica, come succede invece in A Beautiful Mind, La teoria del tutto e The Imitation Game. Ty Burr ha scritto sul Boston Globe che il film «funziona soprattutto grazie alle donne di cui parla e alle attrici che le interpretano» e che il suo principale merito è farci uscire dal cinema sapendo qualcosa in più su Johnson, Vaughn e Jackson, tre protagoniste di vicende poco note (Spencer ha detto di aver accettato il ruolo senza sapere che il film fosse tratto da una storia vera, per dire). Il diritto di contare è però un film che, per far venire bene la storia che racconta, ha dovuto cambiare, sistemare, smussare e rielaborare quella vera. Le cose principali sono tutte vere, ma ci sono diversi momenti, passaggi e persino personaggio inventati o veri solo in parte.
Shetterly – l’autrice del libro da cui è tratto il film – ha commentato la cosa dicendo: «Nel bene e nel male, esiste la storia vera, poi ci sono il libro e il film. Il tempo andava condensato, e la stessa cosa vale anche per alcuni personaggi secondari». Shetterly ha aggiunto: «Katherine Johnson [la vera protagonista del film] fu davvero un’eroina, ma ci furono anche tante altre persone. Capisco però che non si possa fare un film con dentro 300 personaggi. Proprio non si può». Partendo da alcuni articoli che si sono occupati delle differenze tra film e storia vera – del Guardian, dello Smithsonian, di Scientific American, di People e del sito History vs. Hollywood – abbiamo messo insieme un po’ di informazioni sulle cose che si vedono nel film, quelle vere e quelle inventate.
Il personaggio di Kevin Costner è inventato
Al Harrison – il capo del gruppo di matematici in cui finisce a lavorare Johnson – è basato su tre diverse persone, ognuna con un ruolo diverso. Non c’è quindi niente di realmente successo in quello che dice e fa. Melfi ha detto di averlo fatto perché obbligato: voleva mettere un vero personaggio, ma non è stato possibile ottenere il permesso per usare il suo vero nome. Stesso discorso vale per i personaggi interpretati da Parsons e Dunst.
È vero che il padre di Johnson si spostò per fare studiare i suoi figli?
Sì, soprattutto perché già quando aveva dieci anni capì che la figlia era particolarmente intelligente, e siccome nella città della West Virginia in cui abitavano non avrebbe potuto continuare gli studi si trasferirono, come mostrato nei primi minuti del film. Come spiegato sul sito della NASA Johnson, tra l’altro finì gli studi in anticipo: la high school (le nostre superiori) a 14 anni; e il College a 18.
C’era davvero la scritta “Colored computers”?
Si. Le donne nere lavoravano in un ufficio simile a quello visto nel film dal 1943 ed erano, per farla breve, computer umani. Veniva chiesto loro di fare, rifare e controllare calcoli di ogni tipo, così che altri ingegneri, fisici e matematici potessero dedicarsi ad altro, ottimizzando il loro tempo. Poi arrivarono i computer, ma – come si vede nel film – continuò a servire gente che s’intendesse di matematica: per far andare quei complicati computer e per controllare che quei complicati computer facessero tutti i calcoli giusti.
Johnson si sentiva segregata?
Dal film sembra proprio di sì. Qualche anno fa lei disse invece: «Non sentivo la segregazione alla NASA, perché tutti facevano ricerche. C’era da fare una missione e noi ci lavoravamo. Sapevo che la segregazione c’era, ma non la sentivo». Più in generale: è vero che le donne nere lavoravano in un ufficio separato; non è vero che quando Johnson arrivò nell’ufficio dei bianchi fu scambiata per la donna delle pulizie.
E la questione del bagno?
Nel film la si vede più volte, per mostrare che nonostante lavori con i bianchi, Johnson è ancora costretta a perdere 40 minuti per andare nel bagno delle persone di colore, da tutt’altra parte rispetto a dove lavora. Nel libro una storia simile riguarda in realtà Jackson (il personaggio interpretato da Janelle Monáe). Nel libro Shetterly ha invece scritto che Johnson usò per anni bagni per bianchi, senza far caso al fatto che fossero riservati ai bianchi (anche perché non era esplicitamente scritto). A un certo punto qualcuno glielo fece notare, ma lei continuò a usarli comunque, senza tra l’altro evidenti proteste da parte delle donne bianche.
È vero che Dorothy Vaughan fu la prima donna con un ruolo di quel tipo?
Sì, ma lo ottenne molto prima di quanto detto nel film. Nel 1948 ottenne infatti un ruolo da supervisore della NACA (che poi sarebbe diventata NASA), la prima nera di sempre. Un’altra curiosità, invece: la scena verso la fine del film in cui lei e le altre matematiche nere camminano nei corridoi è una citazione del film del 1983 Uomini veri, sui primi test del progetto di esplorazione spaziale della NASA. In quel caso a camminare così erano i piloti (non ancora astronauti). Questo articolo di Space.com racconta i parallelismi tra i due film.
È vero che le donne non erano ammesse a quel tipo di riunioni?
Sì, ma fu tutto un po’ più semplice che nel film, come spiegato da Johnson. Lei chiese il permesso di poterci partecipare, le fu detto «beh, di solito le donne non sono ammesse». Lei chiese: «c’è una regola a riguardo?». Dissero di no e allora il suo capo la fece partecipare a quelle riunioni.
Mary Jackson fu il primo ingegnere donna della NASA?
Sì, ed è anche vero che lo divenne anche grazie al consiglio di un suo superiore (che si chiamava Kazimierz Czarnecki ma nel film si chiama Karl Zielinski).
John Glenn chiese davvero che fosse proprio Johnson a controllare quei calcoli?
Sembra una cosa molto da film, invece – come scritto da History vs. Hollywood, Glenn, pochissimo prima di quel lancio del febbraio 1962, chiese davvero che fosse Johnson a ricontrollare i dati di quella che divenne poi la prima missione che mandò uno statunitense in orbita attorno alla Terra.
La storia di Johnson, Jackson e Vaughan oltre il film
Il film finisce con il successo della missione Friendship 7, e con la Luna che diventa un obiettivo ragionevole. Vaughan divenne una grande esperta di FORTRAN, un importante linguaggio di programmazione dell’epoca, che si vede anche nel film. Si ritirò nel 1971 e morì nel 2008. Jackson lavorò alla NASA fino al 1985, poi si dedicò al supporto delle donne e delle minoranze; morì nel 2005. Johnson calcolò poi anche le traiettorie per le missioni Apollo 11 e Apollo 13. Andò in pensione nel 1986 e nel 2015 ha ottenuto da Barack Obama la Medal of Freedom (Medaglia della Libertà), la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti e ora un importante centro di ricerca della NASA è a lei intitolato. Di recente la si è vista agli Oscar.