Cosa succede in Siria dopo Aleppo
Tre cose da tenere d'occhio sulle guerre che si stanno combattendo e che coinvolgono il regime di Assad, i curdi siriani, l'ISIS, la Turchia e i ribelli più estremisti, tra gli altri
In tutte le guerre ci sono dei momenti di svolta, quelli che segnano un prima e un dopo. Non sempre sono episodi precisi, che iniziano e finiscono in un solo giorno: sono più spesso eventi che si sviluppano nel tempo e che hanno conseguenze enormi. Per la guerra siriana uno di questi momenti è stato certamente la vittoria ad Aleppo delle forze alleate al regime del presidente siriano Bashar al Assad sui ribelli. È successo pochi giorni prima del Natale dello scorso anno e da allora le cose sono cambiate parecchio, anche se i combattimenti in Siria non sono neanche lontanamente finiti. Se volessimo sintetizzare quello che è successo negli ultimi due mesi, potremmo metterla così: dopo la battaglia di Aleppo si sono creati dei nuovi spazi in Siria, che non sono ancora stati riempiti del tutto. Sono quelli derivati dalla sconfitta dei ribelli siriani – perché sì, i ribelli, quelli non jihadisti, ad Aleppo hanno perso la loro guerra contro Assad – e quelli creati dalla fine dell’amministrazione statunitense di Barack Obama e dall’arrivo di Donald Trump, la cui strategia in Siria deve ancora essere annunciata. Per il momento gli Stati Uniti, almeno da un punto di vista diplomatico, hanno scelto di rimanere un po’ in disparte: la scorsa settimana a Ginevra, in Svizzera, si sono tenuti dei nuovi colloqui di pace sulla Siria (chiamati Ginevra IV, perché sono il quarto tentativo di colloqui sponsorizzati dall’ONU) e per la prima volta, ha scritto Liz Sly sul Washington Post, gli Stati Uniti non hanno preso l’iniziativa sulla negoziazione di una bozza di accordo.
Oggi ci sono soprattutto tre cose da tenere d’occhio in Siria, che sono tra loro collegate e si condizionano a vicenda: lo stato di salute dei ribelli anti-Assad dopo la sconfitta ad Aleppo; la complicatissima situazione di alleanze e ostilità che si è sviluppata nel nord della Siria tra Turchia, curdi siriani, regime di Assad, Stati Uniti e Russia, e che si sta riproponendo nella pianificazione dell’offensiva a Raqqa; e le incognite della strategia di Trump in Siria.
La Siria e i ribelli prima e dopo la sconfitta ad Aleppo. Cos’è cambiato?
Se si guarda una mappa della Siria prima e dopo la sconfitta dei ribelli ad Aleppo non si notano grandi differenze.
Due mappe della Siria a confronto: una di settembre 2016 (quando Aleppo era ancora divisa in due) e l’altra di febbraio 2017 (quando il regime di Assad aveva già sconfitto i ribelli). La situazione attuale è leggermente diversa da quella illustrata nella mappa di destra: per esempio il regime di Assad, in rosso, ha riconquistato Palmira dallo Stato Islamico, in nero, il quale ha subìto una sconfitta militare anche ad al Bab, conquistata dai ribelli dall’Esercito libero siriano, in verde acceso (mappe di Thomas van Linge pubblicate sul blog di Pieter Van Ostaeyen)
Il regime di Assad (in rosso) continua a controllare i territori al confine occidentale, dove è riuscito a stabilire un saldo controllo dopo l’intervento in Siria della Russia, nel novembre del 2015. A nord, al confine con la Turchia, ci sono ancora le Forze democratiche siriane (Sdf, in verde chiaro), una coalizione di gruppi la cui componente principale è quella dei curdi siriani. I territori controllati dalle Sdf sono separati da un’area piuttosto estesa che negli ultimi mesi è stata conquistata dall’Esercito libero siriano (verde acceso), un insieme di gruppi ribelli appoggiati dalla Turchia. L’Esercito libero siriano è presente anche nel sud, al confine con la Giordania, mentre i ribelli che controllano la provincia di Idlib (a ovest e sud-ovest di Aleppo, in verde scuro) sono principalmente jihadisti e includono anche al Qaida, come già succedeva prima della fine della battaglia di Aleppo. Lo Stato Islamico (grigio e nero), che negli ultimi due anni ha perso molti territori, continua a controllare pezzi della Siria centrale: dalla mappa sembra un’area enorme, ma c’è anche da considerare che la maggior parte di quel territorio è deserto e i grossi centri urbani ancora governati dallo Stato Islamico sono solo due: Deir Ezzor e Raqqa.
Sembrerebbe che la battaglia di Aleppo abbia cambiato ben poco la guerra in Siria, ma non è così. L’analista Aron Lund ha scritto:
«La caduta di Aleppo orientale dello scorso dicembre ha dato inizio a una profonda crisi tra i gruppi di opposizione. Già prima di allora questi gruppi avevano differenze politiche ed ideologiche, rapporti incompatibili con stati esteri e recriminazioni interne dopo diversi tentativi di creare un fronte unico. Ora stanno vedendo loro stessi perdere la guerra.»
Dopo Aleppo, gli equilibri interni tra i gruppi ribelli sono cambiati: a guadagnarci sono stati i più estremisti, quelli che predicano il jihad e che sono predominanti nella provincia di Idlib, a rimetterci sono stati i moderati.
Alla fine di gennaio – nei giorni dell’inizio dei colloqui di pace in Kazakhstan promossi da Turchia e Russia – sono iniziati degli scontri tra Jabhat Fatah al Sham, un gruppo legato ad al Qaida, e gruppi sostenuti dall’Occidente che stavano partecipando ai negoziati. I gruppi sostenuti dall’Occidente si sono rivolti all’unica altra parte in grado di offrire loro protezione, cioè agli islamisti radicali di Ahrar al Sham. Si sono quindi creati due schieramenti, entrambi guidati da forze molto radicali. Le violenze non sono durate molto, anche perché entrambe le parti sapevano che in caso contrario l’unico vincitore sarebbe stato Assad, ma gli effetti sono stati enormi: l’ampio schieramento dei ribelli si è diviso ulteriormente, indebolendosi; e i gruppi radicali e jihadisti hanno preso il sopravvento su quelli moderati, che non sono più stati in grado di compiere operazioni offensive efficaci. Stando così le cose, non solo i ribelli hanno perso gran parte della loro forza militare, ma hanno perso anche la possibilità di essere sostenuti e aiutati dall’Occidente: nessuno, né gli Stati Uniti né l’Europa, darà appoggio a gruppi la cui componente principale è al Qaida o un’altra fazione jihadista.
Le guerre nel nord della Siria, dopo Aleppo
Una delle ragioni che spiegano la rapida sconfitta dei ribelli ad Aleppo è stata la decisione della Turchia di scaricarli. Dall’inizio della guerra, la Turchia si era schierata dalla parte dei ribelli – più o meno radicali poco importava – con l’obiettivo di sconfiggere Assad. Alla fine dell’agosto del 2016, per una serie infinita di ragioni, il governo turco decise di ridurre il suo impegno contro il regime siriano e di concentrare i suoi sforzi militari nel nord del paese contro i curdi siriani e lo Stato Islamico. Per riuscirci si alleò con l’Esercito libero siriano, una coalizione di gruppi ribelli che in passato era stata considerata anche un possibile partner degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico. Da allora la Turchia e l’Esercito libero siriano hanno riconquistato alcuni territori a ovest del fiume Eufrate, di fatto bloccando l’espansione territoriale dei curdi e iniziando una guerra più intensa contro lo Stato Islamico. La prima cosa importante è che questa manovra è stata possibile per una specie di accordo tra Assad e governo turco: Assad ha promesso alla Turchia che non avrebbe più fornito alcun tipo di aiuto ai curdi siriani, la Turchia ha promesso ad Assad di dimenticarsi di Aleppo. La seconda cosa importante è che questo accordo ha tolto ulteriore forza ai ribelli anti-Assad, che in pochissimo tempo hanno cominciato a perdere il loro sponsor principale (la Turchia) e uno dei gruppi con la faccia più spendibile di fronte all’Occidente (l’Esercito libero siriano).
L’accordo tra Assad e Turchia è proseguito anche dopo la sconfitta di Aleppo e si è trasformato in qualcosa di più: una collaborazione militare che si è concretizzata ad al Bab, una città di 100mila abitanti a una cinquantina di chilometri a nord-est di Aleppo. Ad al Bab si è combattuta una delle battaglie più importanti degli ultimi mesi: non tanto per il valore strategico della città, ma perché ai combattimenti hanno partecipato praticamente tutti gli schieramenti presenti nel nord della Siria e ne è venuto fuori un gran casino.
Le forze che hanno combattuto ad al Bab: i rossi sono gli alleati di Assad, i verdi l’Esercito libero siriano appoggiato dalla Turchia, i gialli le Forze democratiche siriane, la cui componente principale sono i curdi siriani. In mezzo a tutte quelle frecce c’è al Bab, che fino a fine febbraio era controllata dallo Stato Islamico, rappresentato in grigio.
Al Bab era sotto il controllo dello Stato Islamico dal gennaio del 2014 ed è stata riconquistata dall’Esercito libero siriano, il gruppo di ribelli alleato con la Turchia, alla fine di febbraio 2017. Durante gli ultimi mesi di battaglia si sono viste alcune cose che aiutano a capire come siano cambiate le alleanze in Siria durante e dopo la battaglia per la conquista di Aleppo. Al Bab è stata attaccata dall’esercito siriano e dai suoi alleati da sud, dall’Esercito libero siriano appoggiato dalla Turchia da nord e dalle Forze democratiche siriane – la cui componente principale sono i curdi siriani – da est e ovest. Tutte queste forze, che hanno in comune la loro ostilità verso lo Stato Islamico, non si possono considerare alleate tra loro. L’Esercito libero siriano è uno dei principali gruppi che hanno combattuto contro Assad durante la guerra, anche se – come detto – negli ultimi mesi sono stati cooptati dalla Turchia con obiettivi diversi, scontrandosi anche con i curdi; la Turchia considera i curdi siriani come i suoi nemici numero uno, e anche i rapporti tra regime di Assad e curdi si sono raffreddati parecchio. Nonostante tutti questi livelli di inimicizia o aperta ostilità, ci sono stati momenti di collaborazione. Per esempio la Russia, il principale alleato di Assad, ha fornito supporto aereo sia agli alleati del regime siriano, a sud di al Bab, sia agli alleati della Turchia, a nord, paese con il quale ha stabilizzato i rapporti dopo la crisi provocata dall’abbattimento dell’aereo russo al confine turco-siriano nel novembre 2015. Gli stessi Stati Uniti hanno partecipato ai bombardamenti aerei contro lo Stato Islamico ad al Bab a sostegno delle operazioni turche, nonostante allo stesso tempo continuino ad addestrare e armare i curdi siriani nemici della Turchia.
Lo schema della battaglia di al Bab non verrà replicato nell’offensiva per riconquistare Raqqa, sotto il controllo dello Stato Islamico dal 2014, ma è utile a capire le ostilità tra i vari protagonisti della guerra: sono le stesse ostilità che hanno già cominciato a ripetersi nelle prime fasi delle operazioni militari a nord di Raqqa.
La liberazione di Raqqa
Raqqa è considerata la capitale dello Stato Islamico in Siria, ed è una città che per importanza si può paragonare in parte a Mosul, la capitale dello Stato Islamico in Iraq. Nel novembre del 2016 sono cominciate le operazioni militari per la riconquista di Raqqa, avviate a nord della città – molto a nord – dalle Forze democratiche siriane appoggiate dagli Stati Uniti. Il piano, aveva spiegato il colonnello americano John Dorrian, prevede che la coalizione accerchi la città interrompendo le vie di fuga e di rifornimento dello Stato Islamico, prima di avviare l’attacco vero e proprio con l’appoggio dei bombardamenti aerei americani. Uno schema che sulla carta non sembra particolarmente intricato, ma nella complicata realtà della guerra siriana ha già creato una serie di problemi che difficilmente verranno risolti, se non trovando un equilibrio di volta in volta.
La situazione nell’area di Raqqa: lo Stato Islamico è in grigio, le Forze democratiche siriane sono in giallo, il regime di Assad è in rosso, i ribelli sono in verde (Liveumap)
Una delle questioni più controverse è la partecipazione dei curdi siriani all’offensiva militare su Raqqa, che è una città a maggioranza sunnita. Non c’è solo il problema di una loro eccessiva sovraesposizione nell’operazione, che potrebbe essere accolta poco positivamente dagli abitanti di Raqqa; c’è anche la forte opposizione del governo turco, che si oppone a qualsiasi piano che possa comportare un aumento di potere e influenza dei curdi nel paese. Per esempio alcuni funzionari americani dicono che per la riconquista di Raqqa i combattenti delle Forze democratiche siriane avranno bisogno di missili anticarro, mortai, armi pesanti e mezzi blindati. I turchi hanno paura che i curdi siriani – che loro considerano alla stregua del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan che combatte da decenni in Turchia per l’indipendenza dei curdi – possano usare poi quelle armi per avanzare rivendicazioni nelle aree a maggioranza curda della Turchia, e quindi si oppongono alle proposte statunitensi. D’altro canto la Turchia è un membro della NATO ed è considerato un alleato prezioso nella lotta contro lo Stato Islamico. La gestione di questa situazione, già di per sé evidentemente difficile, è resa ancora più complicata dal fatto che a Washington ci sia stato un cambio di amministrazione e che non sia ancora chiara la strategia che Trump intenda usare in Siria.
Fin dalla campagna elettorale, Trump si è mostrato molto più ben disposto di Obama a un’eventuale collaborazione con la Russia in Siria, «per sconfiggere i terroristi», come hanno più volte detto il governo russo e quello siriano. La scorsa settimana il segretario della Difesa americano, Jim Mattis, ha presentato alla Casa Bianca un piano che ha come obiettivo la rapida sconfitta dello Stato Islamico. I dettagli del piano non sono stati diffusi, ma alcune fonti citate dai giornali americani dicono che potrebbe includere un maggiore coinvolgimento dell’esercito americano in Siria e probabilmente un numero maggiore di truppe di terra. Rispetto alle dichiarazioni roboanti di Trump in campagna elettorale, sembra però che le intenzioni americane siano quelle di agire con cautela, per evitare che a una eventuale vittoria contro lo Stato Islamico segua l’inizio di altri conflitti (per esempio di un conflitto aperto e prolungato tra Turchia e curdi siriani): Associated Press ha scritto che il piano preparato da Mattis riprende molti degli elementi che erano stati centrali nella strategia adottata dall’amministrazione Obama, tra cui la necessità per l’esercito americano di sostenere in Siria delle forze locali, invece che farsi coinvolgere direttamente nei combattimenti.