Chi soccorre i migranti crea anche problemi?
L'agenzia europea Frontex accusa le ONG di fare il gioco dei trafficanti, direttamente o indirettamente, e di ostacolare le proprie attività
Da qualche settimana c’è un po’ di tensione fra le ONG che soccorrono le navi dei migranti nel Mediterraneo e l’agenzia europea Frontex, che si occupa della sicurezza dei confini dell’Unione Europea. Alla fine del 2016 il Financial Times aveva pubblicato stralci di un documento interno di Frontex molto critico con le ONG, accusate di essere in contatto con i trafficanti di migranti e di non collaborare pienamente con le autorità europee. In un’intervista pubblicata due giorni fa sul quotidiano tedesco Die Welt, il capo di Frontex Fabrice Leggeri ha confermato parte delle accuse, sostenendo che l’elevato numero di operazioni di soccorso compiute dalle ONG «rende più difficile per le autorità di sicurezza europee indagare sulle reti dei trafficanti». Le ONG hanno smentito di essere in contatto coi trafficanti e di non collaborare con le autorità europee: ma soprattutto hanno fatto notare che senza il loro aiuto difficilmente gli stati e l’Unione Europea riuscirebbero a soccorrere lo stesso numero di persone nel tratto di mare fra Libia e Italia.
È vero però che negli ultimi tempi le ONG in questione hanno assunto un ruolo sempre più importante: soprattutto dopo la chiusura di Mare Nostrum, il programma delle forze armate italiane che dalla fine del 2013 alla fine del 2014 ha coordinato decine di operazioni di soccorso. Mare Nostrum è stato poi sostituito da Triton, un programma europeo sostenuto da Frontex il cui obiettivo principale però non sono le operazioni di soccorso – come era per Mare Nostrum – ma il controllo della frontiera marittima. In seguito alla smobilitazione di Mare Nostrum, diverse ONG hanno cercato di riempire quello spazio mettendo a disposizione nei pressi delle coste libiche navi di varia grandezza che abbiano come unico obiettivo salvare i migranti (cioè le operazioni Search and Rescue, SAR, come si dice in gergo marittimo).
Oggi se ne contano più o meno una decina: le più famose sono sicuramente Medici Senza Frontiere, che ha diverse navi nel Mediterraneo gestite ciascuna da una specifica divisione nazionale, e la ONG spagnola ProActiva Open Arms, che nel 2016 ha vinto un premio assegnato dal Parlamento Europeo per il “cittadino dell’anno”. Un’altra delle più note è la Migrant Offshore Aid Station (MOAS), fondata nel 2013 da due imprenditori italo-americani, che sostiene di essere stata la prima ONG a dedicarsi esclusivamente a operazioni di soccorso nel Mediterraneo. Fra le più attive ci sono anche la tedesca Sea-Watch e la francese SOS Mediterranee. Tutte loro si finanziano grazie a benefattori privati, spesso raccogliendo piccole donazioni (il caso di MOAS è l’eccezione alla regola, diciamo): a metà febbraio la procura di Catania ha aperto una “indagine conoscitiva” per studiare i finanziamenti che ricevono ma finora non sono emersi casi particolari di finanziatori imbarazzanti o di ONG che si rifiutano di collaborare con le autorità europee o italiane.
Molte di loro usano navi riadattate: MOAS per esempio usa un vecchio peschereccio, mentre SOS Mediterranee un’ex nave guardapesca lunga 77 metri. Non tutte fanno la stessa cosa: come ha spiegato l’esperto di sicurezza internazionale Eugenio Cusumano su EuObserver, le ONG più organizzate – come Medici Senza Frontiere e MOAS – soccorrono direttamente i cosiddetti “barconi” e trasportano i loro passeggeri nei porti italiani; quelle più piccole – come Sea-Watch e Pro-Activa – soccorrono le navi in difficoltà fornendo giubbotti salvavita e assistenza sanitaria in attesa dell’arrivo di imbarcazioni più grandi che possano trasportare in Italia i migranti.
Sul proprio sito, MOAS spiega di avere soccorso finora più di 30mila persone, ma la cifra non viene aggiornata da un po’. Nel 2015 Sea-Watch ha detto di avere soccorso più di 5.000 persone. Sembra che questi numeri siano cresciuti, negli ultimi mesi: secondo il documento di Frontex pubblicato dal Financial Times, a ottobre 2016 le ONG attive in quel tratto di Mediterraneo hanno soccorso il 40 per cento dei migranti totali, che furono poco più di 31mila. Secondo un dato riportato da Repubblica, che non ne cita la fonte, sui circa 180mila migranti arrivati in Italia più di 70mila sono stati soccorsi dalle ONG. Il resto delle operazioni di soccorso è stato probabilmente compiuto dalle autorità italiane o dalle navi commerciali che transitano nell’area, che secondo il diritto marittimo sono obbligate a soccorrere un’imbarcazione in difficoltà quando ne incontrano una.
Ma il documento di Frontex contiene diverse accuse, anche se meno circostanziate da date e fatti. Frontex in sostanza accusa le ONG di favorire i trafficanti di esseri umani, sia direttamente che indirettamente, e di ostacolare le attività delle forze di sicurezza europee. Il documento sostiene ad esempio che in alcuni casi ai migranti «sono state date precise indicazioni, prima della partenza, della direzione da seguire per raggiungere le navi delle ONG», lasciando intuire che esista un canale di comunicazione fra trafficanti e ONG. In un altro passaggio, Frontex sostiene che alcuni dei migranti soccorsi «sono stati avvertiti di non cooperare con le autorità italiane di Frontex». Diverse ONG hanno smentito queste accuse, e sui giornali italiani o internazionali non sono emersi casi di ONG scoperte a consigliare i migranti di non collaborare con le autorità.
Un’altra delle accuse contenute nel documento di Frontex è più sottile: sostiene che le ONG che pattugliano i tratti di mare vicini alle coste libiche agiscono da “faro” per le spedizioni messe insieme dai trafficanti. Il ragionamento è questo: dato che i trafficanti sanno bene che ultimamente le navi delle ONG si trovano a poche decine di chilometri dalla costa – le operazioni di soccorso si svolgono di solito in una fascia di mare compresa fra i 20 e i 50 chilometri dalle coste della Libia – si fanno meno scrupoli di prima a usare imbarcazioni in cattivo stato, o a stipare quante più persone dentro a un gommone, perché sanno che in molti casi il viaggio durerà solo poche ore.
È vero che fino a pochi anni fa non esistevano ONG di questo tipo, e che in generale le condizioni delle barche utilizzate dai trafficanti sembrano essere peggiorate negli ultimi anni (anche se ovviamente non esistono dati precisi a riguardo). È complicato stabilire se oggi questi due fattori siano cause del flusso continuo di questi mesi, o se invece siano l’effetto di scelte politiche – come la smobilitazione di Mare Nostrum – e della prolungata instabilità della Libia, in cui ormai da anni non esiste un unico governo e dove i trafficanti lavorano con una certa facilità. È possibile che in parte siano tutte e due le cose, cause ed effetti di un circolo vizioso a cui ancora non è stata trovata una soluzione.
Resta il fatto che se domani mattina le ONG decidessero di non compiere più operazioni di soccorso, non ci sarebbe nessuna autorità nazionale o internazionale disposta a schierare una decina di navi per queste attività. Di certo non la guardia costiera libica, che sin dall’inizio della guerra civile causata dalla morte di Muammar Gheddafi è in grande difficoltà: nonostante sia appoggiata dall’Unione Europea – le sue attrezzature sono fornite dall’Italia, e da qualche mese i suoi dipendenti vengono formati in Europa – al suo interno esiste ancora una corruzione “endemica”, come l’ha definita un recente rapporto dell’ISPI, e una generale inefficienza. Stando ad alcuni funzionari libici contattati da Politico, al momento la Guardia costiera locale ha a disposizione tre navi di medie dimensioni e tre gommoni per pattugliare una fascia costiera di circa 600 chilometri da dove partono i barconi, da Zuara a Sirte. Parlando sempre con Politico, il capo della Guardia costiera libica Reda Issa ha spiegato: «Non abbiamo risorse. Al momento abbiamo bisogno di 10 navi esclusivamente dedicate alle missioni di soccorso, così come di elicotteri e altro equipaggiamento».
Al momento, comunque, non sembra che le tensioni fra Frontex e le varie ONG possano portare a qualche restrizione delle loro attività: a dicembre il Financial Times aveva scritto che sebbene la Commissione stesse valutando se introdurre norme più severe per queste organizzazioni, secondo diversi funzionari è improbabile che vengano introdotte nuove regole. La posizione ufficiale della Commissione, fra l’altro, è che queste ONG abbiano «agito perlopiù in appoggio e stretta collaborazione» coi governi coinvolti.