Il protezionismo di Trump potrebbe avere un fondamento
Secondo Justin Fox di Bloomberg la nuova amministrazione statunitense punterà alla ridistribuzione della ricchezza, piuttosto che al suo aumento: e non è detto che sia un errore
di Justin Fox – Bloomberg
Nonostante fosse indirizzato soltanto ai cittadini di sette paesi e promosso come una misura di antiterrorismo, il divieto di ingresso negli Stati Uniti introdotto dall’amministrazione di Donald Trump ha generato preoccupazioni tutto sommato ragionevoli sul fatto che presto per i cittadini stranieri entrare e uscire dagli Stati Uniti potrebbe diventare molto più difficile. Per le aziende e gli altri enti (le università!) che dipendono dal talento e dai clienti stranieri, o da entrambi, è uno scenario comprensibilmente allarmante. Cristopher Mims ha parlato dei timori del settore tecnologico sul Wall Street Journal:
Gli investitori, i dirigenti e gli ingegneri con cui ho parlato hanno sostenuto la stessa tesi in modo costante: nel 2017 i politici che tentano di ostacolare in modo eccessivo la libera circolazione delle persone che lavorano nel settore tecnologico potrebbero privare il loro paese di entrate e posti di lavoro, ma anche del sostegno, dei servizi e dei posti di lavoro in più nel settore amministrativo che ognuno di questi lavoratori altamente retribuiti creerebbe in una comunità.
Certo, limitare l’immigrazione – soprattutto nel modo incoerente, ostile e meschino con cui l’ha fatto l’amministrazione Trump – è una cosa negativa per le aziende. Come lo è limitare il commercio, e mettersi a litigare su questioni di politica estera con i propri alleati. In generale sembra che i capi delle aziende e gli investitori si stiano risvegliando dal loro sogno post-elettorale secondo cui gli anni di Trump sarebbero risultati semplicemente in una lunga sfilata di aumenti ai loro profitti, spinti dai tagli alle tasse, dalla liberalizzazione e dalla spesa in infrastrutture. Tutto questo creerà dei conflitti interessanti all’interno del Partito Repubblicano e anche all’interno della squadra di Trump. Potrebbe portare a una recessione economica o addirittura a una crisi finanziaria, anche se per il momento non è una cosa che mi sento di prevedere. Nel frattempo mi sembra importante sottolineare che per le persone che sembrano tirare le fila alla Casa Bianca, compreso il presidente, il fatto che le politiche su commercio e immigrazione possano danneggiare delle aziende è un tratto distintivo e non un difetto.
Siamo appena usciti da una lunga epoca in cui il dibattito sulle scelte economiche si è molto focalizzato su come far crescere la torta di cui tutti noi prendiamo una parte. È vero, rispetto ai Repubblicani i Democratici si sono interessati un po’ di più alla ridistribuzione della ricchezza attraverso le tasse e la spesa pubblica. Dagli anni Settanta, però, i consiglieri economici di entrambi i partiti si erano concentrati principalmente su quello che secondo loro avrebbe stimolato la crescita. Oggi non è più così:
A chi importa se i numeri sulla produttività sono i calo o se il nostro PIL già in diminuzione scende ancora un po’? Negli ultimi vent’anni tutti i guadagni sono andati comunque a beneficio della classe dirigente. Per il paese, a questo punto, sarebbe meglio dividere in modo più equo una torta leggermente più piccola piuttosto che aggiungere una fetta in più, che insieme alle altre otto delle nove totali andrebbe prima di tutto al governo e a chi vive di rendita alle sue spalle, mentre il resto è destinato alla solite quattro industrie e a 200 famiglie.
Questo passaggio è un estratto del saggio The Flight 93 Election, diventato famoso in certi ambienti e pubblicato a settembre sul sito del trimestrale conservatore Claremont Review of Books. Recentemente Michael Warren, della rivista Weekly Standard, ha scritto che l’autore del saggio, che si è firmato usando uno pseudonimo, è in realtà Michael Anton, ex speechwriter di George W. Bush che negli ultimi anni ha lavorato per Citigroup e per la società d’investimento BlackRock, prima di diventare un collaboratore che si occupa di sicurezza nazionale per l’amministrazione Trump. La «classe dirigente» di cui parla Anton è l’élite bipartisan filoaziendale e pro-globalizzazione americana, cioè le persone con cui Anton ha lavorato a Citigroup e BlackRock.
È evidente che Steve Bannon – il principale stratega e consigliere di Trump che al momento è la forza dominante alla Casa Bianca – ha opinioni simili. Questo è un estratto della sua intervista di novembre con Michael Wolff di Hollywood Reporter:
I globalisti hanno demolito la classe operaia americana e creato un ceto medio in Asia […] Questo è quello che i Democratici non hanno capito. Si rivolgevano ad aziende con un valore di mercato di nove miliardi di dollari e nove dipendenti. Questa non è la realtà. Hanno perso di vista qual è il senso del mondo.
Dal momento che Trump ha nominato nella sua amministrazione alcuni di questi globalisti della classe dirigente assegnando loro incarichi di primo piano, è difficile dire se condivide davvero questi timori o se istintivamente stia invece solo ragionando come un imprenditore edile di un’isoletta. Ad aprile Adam Davidson ha condiviso questa analisi sul New York Times:
La sua visione del mondo si basa su un’idea dell’economia incentrata sulla ricerca della rendita, in cui esiste una quantità fissa di ricchezza che può soltanto essere ridistribuita, ma che non può mai crescere. Questa visione del mondo è perfettamente lineare per il figlio di un magnate del settore immobiliare, che crescendo ha fatto la stessa carriera. Tutto quello che ha ottenuto – cosa di cui si vanta con orgoglio – è arrivato grazie a degli accordi. Facendo suo il concetto di un mondo a somma zero, è riuscito a ottenere più di quello che gli spettava: le sue scelte spingerebbero l’economia americana a conformarsi a questa visione del mondo.
Sembra quindi che il nostro paese sia stato conquistato da un gruppo di sostenitori della teoria della “torta a somma zero”. Prima di bollarli come trogloditi retrogradi da consegnare al dimenticatoio della storia, però, vale probabilmente la pena ripassare cosa hanno ottenuto gli Stati Uniti dal 2000 in avanti adottando l’approccio della somma positiva, quello cioè dell’aumento della torta (al quale solitamente aderisco). Il reddito mediano reale delle famiglie americane è sceso del 2,2 per cento, il tasso di partecipazione della forza lavoro nel pieno degli anni è diminuito del 3 per cento, e il tasso di morte per overdose adeguato alla popolazione è aumentato di due volte e mezzo.
Dopo risultati tanto negativi non sorprende che una nuova amministrazione voglia mostrare di avere un approccio diverso, che si preoccupa meno di come far crescere l’economia è più di come distribuire la ricchezza. La cosa che sorprende, e continua a confondere molti osservatori, è il fatto che questo cambiamento venga promosso da un presidente Repubblicano. Il giornalista di Bloomberg Tyler Cowen ha descritto quella che definisce «Trumponomics» come «un nuovo approccio alla ridistribuzione della ricchezza, che si concentra sui posti di lavoro e sulle regioni geografiche invece che sui trasferimenti di reddito». Cowen pensa che questo approccio non funzionerà, ma non sa dirlo con certezza. Anche nel caso in cui fallisca, non pensate che i sostenitori della torta a somma zero scompariranno: la prossima volta, però, magari proveranno a alzare le tasse o smantellare i monopoli.
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