La volta che Los Angeles si credette attaccata
75 anni fa l'esercito americano passò una notte a sparare al nulla: è l'episodio che ha ispirato il film "1941 - Allarme a Hollywood"
Poco dopo le tre della notte tra il 24 e il 25 febbraio del 1942, pochi mesi dopo l’attacco di Pearl Harbor, le sirene d’allarme della città di Los Angeles iniziarono a suonare e il personale incaricato di difendere la città da un attacco aereo fu chiamato ai posti di combattimento. Pochi minuti dopo, con le luci della città spente per confondere eventuali aerei nemici, il cielo si illuminò dei proiettili traccianti sparati dalle batterie antiaeree e dei fasci di luce dei riflettori posti a difesa della città. Tra le 3.16 e le 7.21, quando le sirene suonarono di nuovo per segnalare il cessato pericolo, furono sparati 1.400 proiettili.
L’episodio, passato alla storia come la “battaglia di Los Angeles”, provocò la morte di cinque persone: tre morirono in incidenti stradali causati dall’oscuramento di tutte le luci in città, altri due di attacco di cuore. Poche ore dopo la fine dell’incidente, la mattina del 25 febbraio, il segretario della Marina disse in una conferenza stampa che era stato un falso allarme: quella notte nei cieli di Los Angeles non era passato nemmeno un aereo nemico. Molti anni dopo l’episodio ispirò il film comico di John Landis con John Belushi 1941 – Allarme a Hollywood, ma nell’immediato ebbe conseguenze meno divertenti. Il panico per il falso allarme a Los Angeles, e il sospetto che il governo stesse nascondendo la verità sull’attacco, contribuirono alla decisione di internare tutti i cittadini americani di origine giapponese, una politica che portò all’arresto e alla detenzione di più di centomila persone per tutta la durata della guerra, e che ancora oggi viene ricordata con vergogna negli Stati Uniti.
Per quanto oggi la paura di un attacco giapponese appaia agli storici del tutto assurda, all’epoca non sembrava del tutto infondata. Gli Stati Uniti erano entrati in guerra pochi mesi prima, nel dicembre del 1941, quando un attacco a sorpresa giapponese aveva gravemente danneggiato la flotta del Pacifico americana ancorata nel porto di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Nel giro di poche settimane la marina e l’esercito giapponese avevano iniziato una serie di operazioni militari in tutto il Pacifico occidentale, dimostrando una efficienza e una rapidità che prima della guerra nessuno sospettava. Oltre a Pearl Harbor, gli americani e i loro alleati subirono numerose sconfitte dai giapponesi, la cui avanzata sembrava impossibile da arrestare.
Il 23 febbraio del 1942, un giorno prima della “battaglia di Los Angeles”, si era verificato esattamente quello che molti americani temevano: una nave da guerra della marina giapponese si era avvicinata alla terraferma e aveva aperto il fuoco contro il suolo americano. Fu un episodio minore che coinvolse un unico sottomarino giapponese, l’I-7, comandato dal capitano Kozo Nishino. Secondo una storia che non è chiaro quanto sia apocrifa, in tempo di pace Nishino aveva comandato una nave mercantile che aveva fatto sosta nella città di Ellwood, nel sud della California. Durante la cerimonia di benvenuto Nishino inciampò in un cespuglio di rovi e fu preso in giro da alcuni operai di un vicino pozzo petrolifero. Nel febbraio del 1942 Nishino era il comandante di uno degli unici due sottomarini che la marina giapponese aveva inviato a disturbare il traffico mercantile lungo le coste della California. Per prendersi una vendetta contro gli operai che lo avevano preso in giro, Nishino decise di attaccare il pozzo petrolifero di Ellwood.
Poco dopo le 19 del 23 febbraio il sottomarino I-7 si avvicinò alla costa e iniziò ad aprire il fuoco in direzione degli impianti petroliferi con il suo unico cannone di bordo. A causa del buio e delle onde – quando sono in emersione i sottomarini non sono piattaforme particolarmente stabili – era difficilissimo prendere la mira e nessuno dei colpi sparati dai giapponesi centrò il bersaglio. A seconda dei resoconti l’I-7 sparò tra i 12 e i 25 colpi prima di mettere la prua a largo ed allontanarsi dalla costa. Nel breve bombardamento riuscì a danneggiare una gru, un molo e una stazione di pompaggio. Nessuno rimase ferito.
Il giorno dopo, il bombardamento di Ellwood era sulle prime pagine di tutti i giornali. Negli articoli si parlava anche di misteriosi segnali luminosi diretti al sottomarino e provenienti dalla costa, che lasciavano intuire la presenza di misteriose spie giapponesi sulla terraferma. Nulla di tutto ciò era vero e il bombardamento di Ellwood fu semplicemente l’iniziativa di un singolo ufficiale giapponese. Ishino non era riuscito a ottenere risultati militari concreti, ma ottenne un risultato psicologico: per tutto il giorno successivo al suo bombardamento gli Stati Uniti rimasero in attesa di un nuovo e ben più pesante attacco. Come scrisse l’esercito americano dopo un’indagine sull’azione conclusa nel 1983: «L’esercito era convinto che presto ci sarebbe stata qualche nuova azione e prese tutte le precauzioni del caso. Ai giornali fu permesso di annunciare che lo stato di allerta in vista di nuovi attacchi era stato aumentato. Da questo episodio nacque la confusa azione nota come “battaglia di Los Angeles”».
Per tutta la giornata del 24 febbraio allarmi e avvistamenti si susseguirono uno dopo l’altro, in un crescente stato di panico e incertezza. Poi, in piena notte, un soldato della difesa aerea di Los Angeles si convinse di aver visto un aereo sorvolare la città. La sparatoria contro il nulla iniziò pochi minuti dopo. Nel suo rapporto del 1983, l’esercito scrive che probabilmente i militari che difendevano la città finirono con l’alimentare lo stesso inganno di cui erano vittime, scambiando per aerei nemici le esplosioni dei loro proiettili antiaerei illuminate dai fasci dei riflettori. Sempre secondo il rapporto del 1983, il primo allarme sarebbe stato dato quando dei palloni meteorologici erano stati scambiati per aerei giapponesi.
In realtà per tutto il corso della guerra il Giappone non ebbe mai le capacità militari per colpire seriamente il suolo continentale americano, troppo lontano per essere raggiunto dagli aerei e troppo ben difeso per essere attaccato con una grande flotta. La marina giapponese studiò la possibilità di colpire alcuni obiettivi strategici, come il canale di Panama, inviando alcuni sottomarini in grado di trasportare idrovolanti, ma il piano non fu mai preso in seria considerazione. I piccoli aerei che potevano essere imbarcati su un sottomarino non avrebbero mai potuto trasportare abbastanza bombe da danneggiare le chiuse del canale o qualsiasi altro obiettivo di importanza militare. Ci furono altri raid simili a quello di Ellwood e con risultati altrettanto deludenti. Dopo le sconfitte del 1941 e dei primi mesi del 1942, la potenza industriale degli Stati Uniti costrinse il Giappone a mettersi sulla difensiva. Già nell’estate del 1942 divenne chiaro che la resa del Giappone era solo questione di tempo.
Due anni dopo, nell’inverno del 1944, quando per il Giappone la guerra era ormai persa, ci fu un altro tentativo di colpire gli Stati Uniti. Centinaia di palloni aerostatici carichi di bombe furono lanciati in aria in un punto in cui i venti li avrebbero trasportati per migliaia di chilometri fino alle coste del Nord America. L’obiettivo dei progettisti giapponesi era causare danni incendiando le foreste dell’Oregon, ma com’era prevedibile l’operazione fu un insuccesso. Circa 300 palloni raggiunsero gli Stati Uniti e alcuni causarono dei piccoli incendi, facilmente contenuti. In un solo caso i palloni-bomba causarono dei morti. Il 5 maggio del 1945, tre mesi prima della fine della guerra, un gruppo di escursionisti fece accidentalmente esplodere una bomba legata a un pallone precipitato in una foresta dell’Oregon. Una donna e cinque bambini furono uccisi nell’esplosione.