I cosi nelle orecchie dei cantanti
Si chiamano in-ear monitor e sono uno strumento molto prezioso: anche se a volte fanno guai, come è successo di recente ad Adele e Mariah Carey
Il primo segnale che un concerto dal vivo sta prendendo una brutta piega si scorge quando uno degli artisti sul palco, solitamente il cantante, inizia ad armeggiare con il proprio orecchio. Da lì in poi possono seguire voci spezzate, strani gesti rivolti verso il posto dove stanno i fonici e i tecnici del suono, nel peggiore dei casi scuse imbarazzate al pubblico. Capita a tutti: uno degli incidenti più vistosi di questo tipo è accaduto a Mariah Carey nella notte di Capodanno del 2017 a New York, o ancora a Beyoncé durante la cerimonia di insediamento del secondo mandato di Barack Obama, nel 2013. Il più recente fra quelli capitati a celebri artisti pop è capitato ad Adele: mentre cantava un tributo a George Michael durante l’ultima cerimonia di premiazione dei Grammy, i più famosi premi musicali americani, ha dovuto interrompersi e ricominciare da capo. Anche in questo caso, secondo la versione dei giornali, c’entrava il piccolo aggeggio che aveva nell’orecchio: il cosiddetto in-ear monitor (che per comodità chiameremo auricolari-spia, anche se in italiano non esiste una vera traduzione).
Per un musicista che si esibisce dal vivo, a prescindere dalle sue abilità e dal tipo di palco su cui suona, uno degli strumenti più preziosi e che potenzialmente possono condizionare molto l’esibizione – in meglio o in peggio – sono le cosiddette casse-spia: cioè gli amplificatori posizionati vicino a lui che riproducono solo alcune selezionate tracce sonore, per tenere sotto controllo la propria performance o seguire meglio quella degli altri. Per un chitarrista che deve eseguire un assolo è tutto più facile se può ascoltare distintamente ogni singola nota che sta producendo, così come un bassista ha più possibilità di andare a tempo col resto della band se può distinguere in maniera pulita cosa sta suonando il batterista. Tutto questo vale anche per i cantanti: soprattutto quelli pop e super-famosi, che spesso suonano su un palco praticamente da soli – e quindi distanti dalla band di supporto – e dalla cui prestazione dipende buona parte dell’andamento di un concerto.
Robbie Williams indossa un in-ear monitor durante un recente concerto a Manchester (Shirlaine Forrest/Getty Images)
Gli auricolari-spia sono la naturale evoluzione della cassa-spia: al posto di avere un’altra fonte sonora che si aggiunge alle decine già presenti sul palco di un grosso concerto dal vivo, questi auricolari – che da fuori sembrano dei tappi per le orecchie molto elaborati – fungono sia da isolanti per il rumore intorno, dato che coprono tutta la “conca” dell’orecchio, sia soprattutto da auricolari per alcune selezionate tracce sonore. Materialmente, funzionano in questo modo: il mixer – cioè l’apparecchio riceve e gestisce tutte le tracce sonore direttamente dai microfoni o dagli strumenti – riceve i suoni, li invia via radio a un trasmettitore agganciato a ciascun musicista, solitamente dietro la schiena, che a sua volta trasmette i suoni agli auricolari a cui è collegato. Tutto questo praticamente in tempo reale. Il trasmettitore ha anche un piccolo regolatore del volume, nel caso il musicista abbia bisogno di aumentarlo o abbassarlo durante la performance.
Gli auricolari-spia sono un’invenzione piuttosto recente: secondo Billboard sono stati introdotti intorno al 1995 da Jerry Harvey, un tecnico del suono che lavorava con la rock band dei Van Halen. Zac Penrod, il direttore creativo dell’azienda fondata più tardi da Harvey, ha ricordato che all’epoca Harvey voleva «trovare una soluzione alternativa alle casse-spia, che erano assordanti e non riuscivano a rendere la complessità del suono». Inizialmente Harvey produsse solamente un paio di auricolari-spia, studiato appositamente per Alex Van Halen, il batterista della band.
L’invenzione di Harvey però impressionò anche gli Skid Row, la rock band americana che in quel tour apriva i concerti dei Van Halen: «Fu solo quando gli Skid Row mi chiesero se potevo costruire lo stesso sistema che avevo realizzato per Alex che realizzai che nel business dei musicisti di professione c’era spazio per questo prodotto», ha ricordato Harvey in un’intervista anni dopo. Nel giro di cinque anni gli in-ear monitor erano già utilizzati fra gli altri dai Rolling Stones, dai Red Hot Chilli Peppers e da Enrique Iglesias. Harvey avviò la produzione seriale dei suoi in-ear monitor prima con l’azienda Ultimate Ears e poi con la JH Audio, fondata nel 2007. Oggi i prodotti della JH Audio sono talmente diffusi e apprezzati che Billboard stima che li hanno utilizzati 11 dei 17 artisti che si sono esibiti alla cerimonia dei Grammy di quest’anno (anche se Adele non era fra questi).
Ormai gli auricolari-spia sono così diffusi ad alti livelli che sono diventati la norma, e cantare o suonare senza è l’eccezione. Si è visto bene per esempio durante l’ultimo Festival di Sanremo, quando Rita Pavone è salita sul palco per ricevere un premio alla carriera ed è finita per cantare la sua canzone “Cuore”, probabilmente improvvisandola. Pochi secondi dopo avere iniziato a cantare, Pavone ha dovuto chiedere a gesti di alzare il volume delle casse-spia ai suoi piedi, che probabilmente erano impostate per una conversazione a toni normali: poi ha dovuto rimanere praticamente a un metro di distanza da due piccole casse-spia presenti sul palco per tutta la durata della canzone, probabilmente perché che non era previsto un adeguato impianto di spie (praticamente tutti i cantanti in gara hanno usato gli auricolari-spia).
Ma gli in-ear monitor non sono diffusi solo fra gli artisti famosi: il modello base della JH Audio costa 600 dollari – circa 560 euro: non una cifra altissima, per chi fa il musicista di professione – mentre modelli più rudimentali di altre marche costano anche molto meno, fino ad arrivare a circa 150 euro. Più un modello è complesso e costoso – alcuni costano migliaia di euro – e migliore è la qualità del suono e l’ampiezza delle frequenze con cui riceve e trasmette. Ogni artista poi decide quali tracce sonore avere nell’orecchio: Harry Sandler, un tour manager che ha lavorato fra gli altri con Katy Perry e John Mellencamp, ha spiegato che alcuni artisti chiedono di avere anche il rumore prodotto dal pubblico, per un feedback migliore rispetto a quello che potrebbero avere dal palco (dove magari sentono solo dei boati indistinti). Justin Timberlake, ha raccontato l’ingegnere del suono Kevin Glendinning, lavora molto sulle tracce sonore, le frequenze e le equalizzazioni del suo sistema in-ear «per avere qualcosa che suoni come un piano nella sua testa», probabilmente in quanto a delicatezza e profondità del suono.
I modelli migliori sono inoltre realizzati su misura: per farlo si deve prendere un calco dell’orecchio, come nella foto qui sotto (tratta da un video dell’utente YouTube Luke Migas). C’è anche chi decide di personalizzare il rivestimento esterno dei propri auricolari: Bruno Mars ne ha un paio placcati in oro e con il suo logo disegnato in rosso, mentre quelli di Lady Gaga sono ricoperti di diamante sintetico.
Nonostante gli auricolari-spia siano un prodotto ormai diffusissimo e molto sviluppato, i guai sono piuttosto comuni, come abbiamo visto: i problemi più frequenti hanno a che fare con le frequenze audio, che in un palco affollato possono essere diverse decine. A volte possono interferire anche i canali di comunicazione radio della polizia o quelli usati dalle troupe televisive. I tecnici del suono cercano di rimediare piazzando antenne e trasmettitori nei posti giusti, e assegnando le frequenze più solide agli artisti più importanti (per esempio i cantanti). In generale, durante un concerto, gestire le frequenze del segnale è un problema: per questo i tecnici del suono a volte preferiscono collegare gli in-ear monitor dei musicisti più statici – come i batteristi e i tastieristi – alla vecchia maniera, con un lungo cavo che arriva fino al mixer.