Perché alcuni vogliono lasciare il PD
La motivazione ufficiale spiega molto poco – le primarie che si fanno sei mesi prima – ma ci sono altre ragioni, ufficiali e ufficiose
Domenica, nel corso della riunione dell’assemblea nazionale del PD, un gruppo di dirigenti ha fatto capire di avere intenzione di lasciare il partito e formare un nuovo soggetto politico: “ha fatto capire”, e non “ha annunciato”, perché solo uno di loro ha parlato durante l’assemblea – e non il più importante – e la cosa più vicina a un annuncio è arrivata con un comunicato diffuso a lavori conclusi secondo cui una “scissione” sarebbe stata di fatto decisa dal segretario del partito, Matteo Renzi, e non da loro.
Il gruppo di dirigenti di cui si parla è una parte della cosiddetta “minoranza” del partito uscita sconfitta all’ultimo congresso, e i suoi esponenti più famosi sono Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Ma questo gruppo ha trovato le persone più visibili in queste settimane in tre dirigenti che avevano detto di voler sfidare Renzi al prossimo congresso: il deputato Roberto Speranza, il presidente della Toscana Enrico Rossi e il presidente della Puglia Michele Emiliano (la cui posizione è meno chiara, per via di alcune cose contraddittorie che ha detto e fatto). Le ragioni della loro minacciata uscita dal partito sono numerose, alcune ufficiose e altre ufficiali: e hanno a che fare con situazioni nuove, ma anche con problemi più antichi. In generale, però, queste ragioni non sono state spiegate abbastanza da rendere chiarissima una decisione tanto drastica.
Il congresso
La motivazione ufficiale della minacciata scissione è la scelta della data del congresso.
Il congresso è il momento più importante nella vita di un partito: è il processo con cui si discute e si sceglie la linea politica del partito e la sua leadership, che nel caso del PD culmina con le primarie per scegliere il nuovo segretario e i componenti dell’assemblea nazionale. Il congresso del PD avrebbe dovuto svolgersi tra settembre e dicembre, quattro anni dopo il precedente, che nell’autunno del 2013 portò all’elezione di Matteo Renzi come segretario. Renzi però ha deciso di dimettersi, innescando così il processo qualche mese prima: le primarie a questo punto dovrebbero tenersi a maggio.
La ragione ufficiale è che Renzi considera chiusa una fase politica con la sconfitta al referendum costituzionale, tanto da essersi dimesso da presidente del Consiglio, e che la nuova fase richiede una nuova discussione interna al partito e quindi un congresso. Renzi ha detto più volte in questi mesi che non intende lasciare ai suoi avversari l’argomento delle “elezioni subito”, facendo capire anche di essere favorevole ad andare a elezioni anticipate dopo il congresso del partito (alcuni suoi alleati nel PD dicono da settimane che la legislatura dal punto di vista politico ha esaurito il suo mandato). La ragione ufficiosa è che Renzi spera quindi di vincere le primarie e affrontare a giugno due difficili appuntamenti elettorali, i referendum della CGIL e le elezioni amministrative, forte di una nuova investitura da parte degli elettori del PD.
La ragione principale per cui gli oppositori di Renzi sono contrari è che, secondo loro, anticipare il congresso di quattro mesi minaccia la stabilità del governo Gentiloni, dato che prelude alle elezioni anticipate; anche per questo i cosiddetti “bersaniani” hanno chiesto al PD di impegnarsi a sostenere il governo fino al termine naturale della legislatura, cosa che Renzi ha preferito non fare troppo esplicitamente. Ci sono anche altre ragioni, più ufficiose: la minoranza del partito ha oggi pochissime possibilità di vincere il congresso – è divisa fra tre aspiranti segretari, nessuno dei quali sembra avere consensi e carisma paragonabili a quelli di Renzi – e spera che in autunno Renzi sia indebolito dalle possibili sconfitte ai referendum della CGIL e alle amministrative, e quindi più facile da battere.
La minoranza si è esposta a facili critiche con la scelta di rompere su questo tema, visto che fino a un mese fa Rossi, Speranza ed Emiliano chiedevano a Renzi esattamente il contrario, e cioè che si svolgesse un congresso anticipato prima delle elezioni anticipate, che in quel momento sembrava dovessero arrivare a giugno. Ora che invece le elezioni non sembrano più così vicine, hanno cambiato idea e ritengono che il congresso anticipato sia un errore. Renzi non ha accettato di restare segretario del PD o di nominare un reggente fino alla data prevista dal congresso e quindi Bersani e gli altri hanno annunciato la scissione, pur mantenendo un atteggiamento ambiguo e cercando un po’ goffamente di addossarne le responsabilità a Renzi. Insomma: se ne vanno e accusano Renzi di essere autoritario perché Renzi si dimette e rimette a disposizione la sua carica al congresso e alle primarie, invece di restare capo del PD. È una cosa piuttosto insolita, come ha notato Francesco Cundari su Left Wing:
Nel corso della storia abbiamo visto molte volte opposizioni chiamare il popolo alla rivolta contro un regime che negava libere elezioni, minoranze minacciare scissioni di fronte a maggioranze che rifiutavano di lasciare esprimere gli iscritti, gruppi dirigenti raccogliersi per costringere il leader a sottoporsi a un voto. Mai, a nostra memoria, si era vista un’opposizione che trama per lasciare gli oppressori al governo, che complotta perché l’uomo solo rimanga al comando, che combatte perché tanto al voto degli elettori quanto a quello degli iscritti si arrivi non il più presto, ma il più tardi possibile. È un caso pressoché unico nella storia della democrazia che una minoranza voglia al tempo stesso restare minoranza e imporre alla maggioranza le sue posizioni.
Il programma
Anticipare il congresso presenta anche altri problemi, dicono gli esponenti della minoranza insieme ad alcuni dirigenti della maggioranza: per esempio non ci sarà abbastanza tempo per discutere il programma del partito. Dalla sconfitta al referendum del 4 dicembre, diversi esponenti del PD chiedono che il partito faccia una “svolta a sinistra” in termini di programma, per esempio rinunciando alle privatizzazioni, correggendo il Jobs Act in un senso che piaccia di più ai sindacati, contrattando con l’Europa per aumentare gli investimenti pubblici e approvando interventi meno liberali sulle pensioni e la scuola.
Tra i sostenitori della “svolta a sinistra” c’è il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che all’ultimo congresso non sosteneva Renzi ma che col passare dei mesi è entrato nella maggioranza del partito insieme alla corrente dei cosiddetti “Giovani Turchi”, di cui fa parte anche il presidente del partito, Matteo Orfini. Orlando una settimana fa ha chiesto una “conferenza programmatica” prima del congresso: è uno strumento previsto dallo statuto del PD che serve a fissare alcuni punti e priorità del programma in cui tutto il partito possa riconoscersi. L’idea alla base della conferenza è trovare un comune terreno politico prima di arrivare al congresso, che rischia di diventare un confronto tra persone più che tra i programmi. La conferenza però probabilmente costringerebbe a rimandare il congresso a dopo giugno, e quindi è probabile che non sarà avviata. Orlando non fa parte di chi minaccia di lasciare il Partito Democratico, ma potrebbe candidarsi contro Renzi al congresso (e con l’eventuale uscita di Speranza, Rossi ed Emiliano, diventarne l’unico leader alternativo).
La gestione del partito
Da tempo la minoranza del partito accusa Renzi di avere una gestione “padronale” e autoritaria del PD. È forse la questione più vecchia, che risale ai primi mesi della segreteria Renzi, quella dove questioni politiche si incrociano con antipatie personali e incompatibilità caratteriali. I sostenitori di Renzi dicono che gli attacchi della minoranza si spiegano col fatto che Renzi è il primo leader di partito della sinistra italiana ad aver vinto un congresso senza il consenso e il sostegno della generazione precedente, ha ottenuto successi storici come il 40,1 per cento alle elezioni europee del 2014, e proviene da una storia politica molto lontana dalla tradizione della sinistra italiana (viene dall’area cristiano-sociale, non da quella socialista o comunista).
Nella pratica, le critiche della minoranza si sono concentrate sul massiccio ricorso allo strumento della fiducia da parte del governo Renzi, e su alcuni episodi che secondo loro mostrano la sua attitudine poco democratica. Uno degli episodi più ricordati avvenne nell’aprile 2015, quando Renzi fece sostituire 10 parlamentari della minoranza dalla commissione Affari costituzionali che stavano cercando di rallentare l’approvazione dell’Italicum, la legge elettorale poi riscritta dalla Corte costituzionale. La minoranza accusa Renzi anche di aver tradito le sue promesse, come quella di non toccare l’articolo 18, poi modificato dal Jobs Act. Renzi e i suoi sostenitori rispondono dicendo di essere costretti a reagire da un’opposizione sleale da parte della minoranza, che ha boicottato il governo guidato dal segretario del partito e non ha accettato le moltissime mediazioni raggiunte sia sulla riforma costituzionale che sull’Italicum; la minoranza risponde di essere stata sempre leale e ricorda di aver sempre votato la fiducia al governo, tranne che sull’Italicum.
Tutto qui?
Le differenze politiche tra maggioranza e minoranza nel Partito Democratico sono consistenti, e la questione della data del congresso è un tema rilevante, ma nessuna di queste sembra abbastanza grande da giustificare un gesto drastico e radicale come l’abbandono del partito. Per capire come si è arrivati a una situazione del genere bisogna tenere conto di alcune cose che chi minaccia di andarsene non ha detto, ma che probabilmente stanno avendo un peso nella loro decisione: la compromissione definitiva di rapporti personali e tensioni che hanno superato da tempo il livello fisiologico in un partito, il concreto timore di perdere anche il prossimo congresso (per giunta da parte di un gruppo dirigente abituato a dare le carte e vincerli sempre), la paura di finire marginalizzati da una nuova vittoria di Renzi (che accusa la minoranza di aver intralciato la sua attività di governo) e infine il nuovo sistema elettorale in vigore in Italia dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum.
La legge elettorale
L’ultimo punto importante da tenere presente è che l’uscita di alcuni parlamentari dal PD è in qualche modo favorita dalle attuali leggi elettorali. Con un sistema maggioritario, come quello in vigore fino alle ultime elezioni, i partiti sono incentivati ad allearsi per formare ampie liste e coalizioni in grado di ottenere il premio di maggioranza (come nel caso del famoso Porcellum) oppure per vincere nei collegi assegnati col maggioritario (come con il Mattarellum). Il PD, nato nel 2007 dall’alleanza di socialdemocratici, liberaldemocratici e cristiano-sociali, ha una “vocazione maggioritaria”, che consiste nel diluire le differenze in modo da raccogliere il numero maggiore di consensi possibili.
Ma da qualche settimana in Italia c’è un sistema proporzionale che non crea incentivi a creare alleanze e coalizioni, anzi. Con il proporzionale è più conveniente presentarsi con un programma e un’identità chiari, in modo da raccogliere il consenso degli elettori che hanno preferenze specifiche, senza diluire la propria natura in una coalizione eterogenea: e poi far pesare in Parlamento i propri voti trattando con gli altri partiti. Uscire dal PD per formare un partito con una forte identità di sinistra non sembra una strategia completamente campata in aria, se in vigore c’è un sistema proporzionale. Inoltre, in seguito alla scissione, la minoranza del PD potrebbe avere in Parlamento un numero sufficiente di deputati e senatori per bloccare ogni tentativo di modificare l’attuale legge elettorale in senso maggioritario.
Infine, l’attuale sistema elettorale prevede alla Camera i capilista bloccati: e si parla di introdurre questo sistema anche al Senato. Significa che in ogni collegio il primo eletto di ogni partito non viene scelto tramite le preferenze (cioè dal voto degli elettori) ma viene indicato dalla segreteria di partito. La minoranza del PD si oppone a questo sistema per ragioni di principio (sostengono che i capilista bloccati siano uno strumento meno democratico delle preferenze) ma anche per ragioni tattiche. Nella prossima legislatura il PD avrà quasi certamente molti meno parlamentari (non c’è più il premio garantito dal Porcellum) e mentre l’attuale delegazione parlamentare si basa su liste che furono scritte dalla minoranza, che all’epoca era maggioranza, al prossimo giro le cose potrebbero andare diversamente: il loro timore è essere fortemente penalizzati al momento della composizione delle liste e quindi eleggere pochissimi parlamentari alle prossime elezioni.
Giorgio Tonini, parlamentare del PD considerato “veltroniano”, ha spiegato così la questione:
È evidente, e non deve scandalizzare nessuno, perché la politica è sempre anche lotta per la conquista e la conservazione del potere, che la causa scatenante del conflitto sono le liste da presentare alle prossime elezioni politiche. Sulla base della legge elettorale in vigore, l’Italicum corretto dalla Corte costituzionale, almeno alla Camera (diverso è il caso del Senato), le liste saranno composte, in ciascuno dei cento collegi in cui è stato suddiviso il territorio nazionale, da un capolista “bloccato” e da quattro o cinque altri candidati che si disputeranno a colpi di preferenze il secondo seggio in palio: l’unico possibile, oltre a quello destinato al capolista, per un partito come il Pd che, stando ai sondaggi, dovrebbe attestarsi attorno al 30 per cento dei voti.
Senza il premio di maggioranza (per conquistare il quale ora serve il 40 per cento dei suffragi), al 30 per cento dei voti corrisponde infatti grosso modo il 30 per cento dei seggi, quindi circa 200 deputati su 630. Dunque, con questa legge elettorale: 1) il Pd perderà un terzo degli attuali deputati (oggi, grazie al generoso premio del Porcellum, sono più di 300); 2) solo i cento capilista saranno pressoché certi della elezione, tutti gli altri dovranno conquistarsela sul campo di lotta fratricida delle preferenze.
È dunque evidente e comprensibile che le modalità di selezione dei cento capilista siano al centro della contesa. La minoranza di sinistra del Pd considera infatti certa la rielezione di Matteo Renzi alla guida del partito e teme che la scelta, da parte del segretario, dei cento capilista premi in modo abnorme i suoi fedelissimi e lasci a loro, alla minoranza, solo le briciole. A quel punto, dicono in molti, tanto vale rischiare la scissione: se ci va male non ci andrà comunque peggio che se restassimo nel Pd, se invece ci andasse bene…