Si può aggiustare la Somalia?
Mercoledì si elegge il presidente, in quello che un giornalista del New York Times ha definito «uno degli eventi politici più fraudolenti della storia» del paese
Mercoledì la Somalia avrà un nuovo presidente. Il parlamento somalo, eletto alla fine dello scorso anno in modi che in pochi si azzardano a definire democratici, deciderà chi sarà tra i 20 candidati in lizza a guidare il paese per i prossimi quattro anni ed eventualmente a sostituire Hassan Sheikh Mohamud, che però potrebbe essere anche rieletto per un secondo mandato. Dire che le elezioni del presidente somalo sono molto attese è vero per metà, ma non la metà che sostiene un vero processo democratico. Diversi stati islamici – Turchia, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Qatar – sono da tempo coinvolti nella politica somala e sembra che abbiano finanziato con milioni di dollari uno o l’altro candidato presidente per promuovere una certa idea di Islam o semplicemente per poter spiare meglio quello che fanno le forze militari americane nel paese. Mentre le Nazioni Unite hanno provato a definire le elezioni in Somalia una pietra miliare per la democrazia somala, Joffrey Gettleman, giornalista del New York Times e premio Pulitzer nel 2012, le ha definite una pietra miliare di corruzione, «uno degli eventi politici più fraudolenti della storia della Somalia». Ed è una cosa rilevante, visto che secondo l’organizzazione Transparency International la Somalia è già il paese più corrotto al mondo.
Le elezioni del presidente sono l’ultima fase di un complicato processo elettorale che non ha eguali nel mondo. In occasione delle ultime elezioni parlamentari, tenute nell’ottobre 2016, il sistema è leggermente cambiato e funziona più o meno così. La prima fase prevede l’elezione di 275 deputati della Camera bassa e 54 della Camera alta attraverso un sistema di voto indiretto, ma diverso per i due rami del parlamento. Per la Camera bassa, 135 anziani del clan tradizionali somali selezionano 14.024 delegati che formano 275 collegi elettorali, ciascuno dei quali elegge un deputato, ma sempre in maniera da rappresentare tutti i clan, anche quelli minori. Per la Camera alta funziona invece un sistema che si basa sui vari stati federali somali, che più che un’elezione indiretta si è rivelata essere una specie di asta basata sul chi offre di più. Dopo le elezioni parlamentari, il sistema prevede altre due fasi: l’elezione degli speaker delle due camere e quella del presidente.
Gettleman ha scritto che più di 10 anziani dei clan tradizionali gli hanno confermato di essere stati corrotti o di avere corrotto durante le elezioni parlamentari cominciate ad ottobre. Un anziano di Chismaio, una città portuale a sud di Mogadiscio, ha detto che la notte prima che il suo clan scegliesse la persona da mandare in parlamento, uno dei candidati si è presentato all’hotel dei delegati e ha cominciato a distribuire mazzette di banconote da cento dollari. Il candidato ha detto ai delegati che avrebbero ricevuto 3mila dollari se lo avessero votato: probabilmente, ha aggiunto Gettleman, il candidato era stato mandato a sua volta da uno dei candidati presidenti alle elezioni di domani, che gli avrebbe dato molti soldi in cambio del suo appoggio nell’ultima fase del processo elettorale. Altri anziani hanno raccontato della comparsa dei candidati “sposa”, ovvero persone pagate da altri candidati per fingere di partecipare alla competizione elettorale e dare all’intero processo una parvenza di democraticità. Gettleman ha scritto che la prima fase delle elezioni è stata talmente corrotta che il gruppo terroristico al Shabaab, una delle organizzazioni islamiste radicali più violente al mondo, non ha nemmeno provato a farla deragliare: l’attuale situazione di caos è stata ritenuta già sufficiente e funzionale alla sua causa.
C’è poi un altro aspetto che rende in un certo senso particolare – ma non di certo unico – il processo elettorale somalo, cioè il condizionamento non troppo mascherato di altri paesi nel determinare l’esito delle elezioni. L’attuale presidente, per esempio, ha ricevuto milioni di dollari dalla Turchia e dagli Emirati Arabi Uniti per comprare i voti dei membri del parlamento che potrebbero essere necessari alla sua elezione. Il Qatar ha deciso invece di sostenere un candidato diverso da quello degli Emirati Arabi Uniti, a causa della competizione tra i due paesi per ottenere l’influenza sui Fratelli Musulmani, un gruppo che propone un approccio politico all’Islam. Anche Egitto ed Etiopia sostengono candidati diversi, visto che stanno litigando per una questione di gestione delle acque del Nilo. Il Sudan sostiene un altro candidato ancora, che in caso di vittoria continuerà a permettere ai servizi segreti sudanesi di avere accesso all’intelligence somala, che a sua volta lavora con la CIA.
La Somalia si potrebbe definire lo stato fallito per eccellenza. Divenne indipendente nel luglio 1960, dopo essere stato una colonia britannica e italiana, e nel 1969 ci fu il primo colpo di stato militare della storia del paese, che portò al potere il generale Siad Barre. Negli anni Settanta la Somalia combatté una guerra contro l’Etiopia per il controllo di alcuni territori, perdendola. Negli anni Ottanta il peggioramento delle condizioni sociali ed economiche mise in difficoltà il regime di Siad Barre, che divenne sempre più repressivo. Nel 1991 Barre fu destituito e iniziò una terribile guerra civile seguita dall’intervento delle Nazioni Unite nel 1992, che però terminò dopo la violentissima battaglia di Mogadiscio, quella raccontata dal film Black Hawk Dawn. In quegli anni si sviluppò il principale gruppo terrorista dell’integralismo somalo, attivo sia nella guerra civile che contro i militari della missione ONU: l’Unione delle Corti Islamiche, cioè una rete di gruppi islamisti che cominciarono a prendere il controllo di Mogadiscio e altre zone del paese. Le Corti rimasero nella capitale fino a all’inizio del 2007, quando i soldati dell’Etiopia intervennero in Somalia a sostegno del debole governo di transizione somalo, ma di fatto sopravvissero anche dopo con la nascita di al Shabaab. La situazione di caos e di mancanza di una vera autorità governativa centrale non si è mai risolta, nonostante l’approvazione di una nuova Costituzione nel 2012 e l’elezione di un nuovo parlamento federale.
Molte delle organizzazioni umanitarie e dei diplomatici americani che lavorano da anni in Somalia hanno cominciato a chiedersi cosa succederà ora con Donald Trump presidente degli Stati Uniti. Lo slogan che ha accompagnato la campagna elettorale di Trump, “American First”, prevede che gli Stati Uniti mettano davanti a tutto l’interesse nazionale, disimpegnandosi dalle situazioni che non sono più viste come prioritarie. Non è chiaro quanto la Somalia venga considerata una priorità dalla nuova amministrazione, ma al momento sembra molto poco, nonostante il pericolo di una ulteriore diffusione del terrorismo islamista (la Somalia, comunque, è uno dei paesi inclusi nel cosiddetto “muslim ban“). Non è chiaro nemmeno quanto l’evidente fallimento dell’esperimento elettorale democratico somalo spingerà i paesi che lo avevano sostenuto e incentivato – Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea, Svezia e Italia – a ripensare alla loro strategia e provare qualcosa di diverso, di nuovo.