Storia delle copertine
Per centinaia di anni i libri non le avevano, poi sono arrivati l'era industriale, il mercato e la necessità di rendere un testo appetibile e riconoscibile ai clienti
di Giacomo Papi – @giacomopapi
È un po’ come la storia dell’Eden. In principio – un principio durato almeno tre secoli – i libri erano nudi, senza copertina. Venivano acquistati in fascicoli già ripiegati e composti, e rilegati in seguito dal compratore a seconda delle proprie disponibilità, dei suoi gusti e delle rilegature già presenti nella sua libreria privata. Editoria e legatoria erano due attività distinte. Le coperture più economiche erano in pergamena, a volte incollata su cartone per rinforzo; le più costose in pelli pregiate, a volte con impressioni in oro. Ma le indicazioni su titolo e autore in facciata o in costa erano rare perché i libri allora erano pochi e preziosi, e chi li leggeva sapeva riconoscerli al volo. La mancanza di immagini e colori – le illustrazioni quando esistevano, cioè raramente, comparivano soltanto all’interno dei libri, con un ruolo del tutto secondario rispetto al testo – è la ragione banale per cui fino al Novecento non si è formata una memoria visiva dei libri, nemmeno di quelli più letti e famosi, come l’Orlando furioso o il Don Chisciotte. L’invenzione delle copertine è il frutto dell’editoria industriale: quando i libri incominciarono a essere letti da un pubblico un po’ più vasto, quindi a essere stampati in migliaia di copie, si sviluppò l’esigenza di differenziarli e di attirare gli sguardi del pubblico. L’oggetto che oggi definiamo libro è il risultato di trasformazioni della funzione, della tecnologia e della società, sempre intrecciate tra loro. Ma la progressiva convergenza tecnica di editoria e legatoria si traduce anche in quella culturale tra testo e immagine. L’attuale prevalenza dell’immagine è il risultato di un processo secolare che dal contenuto si è spostato sulla forma, alla scatola, al packaging, al logo.
Le cose incominciarono a cambiare nel Settecento, quando nelle grandi città si formò un pubblico di lettori più vasto di quello delle corti – la famosa borghesia –, le tecniche di stampa migliorarono, le tirature salirono e nacquero le prime librerie dove i libri erano a vista. La storia di James Lackington, il primo libraio moderno, è importante anche perché dimostra che nella sua libreria The Temple of Muses a Londra i libri venivano consultati e sfogliati dai clienti prima dell’eventuale acquisto, esattamente come accade oggi. Il rischio, quasi la certezza, è che fossero sporcati, spiegazzati e rovinati da tutte quelle mani già prima di essere venduti. L’aumento di tirature e vendite implicò anche lo sviluppo della distribuzione, il che significò altre mani e spostamenti, quindi altri rischi di deteriorare la merce. «Nessuno inventò le copertine. Fu un processo graduale, fatto di piccoli miglioramenti e soluzioni provvisorie che si stabilizzarono lentamente, nel corso di un secolo», dice Ambrogio Borsani, forse il maggiore esperto italiano della storia dei libri in quanto oggetti e autore di alcuni saggi fondamentali sulla storia delle copertine.
All’inizio la soluzione fu proteggere ogni volume avvolgendolo in brossure di carta e cartoncini leggeri azzurrini, giallini, rosini – poi uno si chiede da dove siano saltati fuori i pallidi pastelli della Piccola Biblioteca Adelphi – su cui via via iniziarono a comparire fregi e cornici oltre al titolo e al nome dell’autore e dello stampatore; dopo un po’ si passò alle custodie aperte in cartoncino su uno o due lati, simili a quelle in cui oggi si vendono per esempio i Meridiani Mondadori. Ma si trattava di una soluzione costosa e poco pratica, adatta per libri di un certo spessore, non per quelli più esili per foliazione e popolari per contenuto, come gli almanacchi e i romanzi d’appendice che incominciavano ad avere una diffusione di massa. Così qualcuno pensò di impacchettarli, come si fa oggi a Natale con i regali, sigillandoli con la ceralacca. Gli involucri venivano buttati appena scartato il libro, e per questo ne sono rimasti ben pochi ed è impossibile dire a chi venne l’idea di utilizzarli anche per attirare lo sguardo dei possibili compratori e dare qualche notizia del contenuto.
La carta per libri più antica è quella di un almanacco inglese intitolato Friendship’s Offering pubblicato nel 1829, che è stata scoperta nel 2009 nella Bodleian Library di Oxford. Prima di allora il primato apparteneva a un altro annuario inglese, pubblicato nel 1833 –The Keepsake – il cui originale è andato perduto, ma di cui resta testimonianza e una fotografia sbiadita. Un altro candidato è il Neues Taschenbuch von Nürberg, una specie di guida sui cittadini illustri di Norimberga, pubblicata in due volumi nel 1819. Più che delle copertine, però, questi involucri di carta usa e getta possono essere considerati i progenitori delle sovracopertine che infatti incominciarono a diffondersi a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento. La ragione, prima che commerciale o culturale, fu ancora una volta tecnologica: due stampatori inglesi, William Pickering e Archibald Leighton, avevano trovato il modo di rivestire cartoni e cartoncini di tessuti leggeri, come il cotone o la seta, e questa innovazione consentì di produrre industrialmente copertine rigide meno preziose e care di quelle in cuoio, e per questo pronte per essere ricoperte.
Se intorno alla metà dell’Ottocento la funzione protettiva delle copertine in cartoncino rivestito, della carta da libri e delle sovracopertine era già chiara, non fu così per la loro funzione pubblica e pubblicitaria. Il fatto che attraverso l’immagine si potesse attrarre l’attenzione del pubblico e catturare quella dei propri potenziali lettori non era ancora un’idea condivisa. Non tutti sapevano neppure che le copertine potessero essere usate per dare informazioni sull’interno. In una lettera del 1876 al suo editore Lewis Carroll si raccomanda, per esempio, di stampare il titolo del suo libro The Hunting of the Snark anche sulla costa in modo da mantenere il libro «più pulito e vendibile» e da renderlo riconoscibile anche sugli scaffali. Grazie alle innovazioni della stampa, l’editoria assorbiva la rilegatoria artigianale che cercò di sopravvivere imboccando due strade opposte: da una parte rifugiandosi nel privato e riducendosi, come oggi, a rilegare tesi di laurea e atti giudiziari, dall’altra parte facendosi arte, producendo capolavori tali da mettere in secondo piano il testo (ne scriveremo presto). I libri più preziosi – o quelli che pretendevano di esserlo – incominciarono a essere venduti già rilegati con decorazioni floreali geometriche e colorate e il titolo e i fregi impressi sul cuoio, come fece Walt Whitman quando si auto pubblicò Leaves of Grass.
Nella seconda metà dell’Ottocento per mille strade gli editori scoprirono che lo spazio vuoto intorno al libro, l’involucro che custodiva e proteggeva il testo, poteva essere utilizzato per presentare e descrivere il contenuto, in modo da renderlo più attraente e raggiungere quelli che avrebbero potuto essere interessati. Lo si poteva fare utilizzando lavorazioni preziose, come fece Whitman, ma soprattutto chiedendo la collaborazione di pittori e illustratori o inventandosi titoli e frasi per incuriosire. Le prime copertine moderne sono considerate quelle di The Yellow Book, un trimestrale inglese uscito nel 1894, che coinvolse artisti famosi come Aubrey Beardsley che due anni più tardi avrebbe illustrato la Salomè di Oscar Wilde. Un altro caso di collaborazione tra pittura e letteratura è la satira anti-tedesca Babylon d’Allemagne di Victor Joze pubblicata in Francia nel 1899 la cui copertina è un disegno di Henri de Toulouse-Lautrec. Fu invece Joseph Dent – che curiosamente era un rilegatore diventato editore – ad avere tra i primi l’idea di usare estesamente i testi in copertina: la sua collana tascabile Everyman’s Libray, lanciata nel 1906, fu anche una delle prime a essere stampata in tirature sulle 10 mila copie che venivano rilegate e spedite soltanto quando i libri venivano ordinati. Il primo timido esempio italiano di copertina risale al 1870: la brossura azzurra di Storia di una capinera di Giovanni Verga ha una cornice, una piccola incisione centrale di una capinera su un albero, oltre al titolo, autore ed editore (su ebay è in vendita a 529 euro).
L’invenzione delle copertine fu determinata, cioè, da un doppio movimento tecnologico e sociale: il formarsi di un pubblico di lettori di massa obbligò gli editori a inventarsi tecniche sempre più economiche e potenti per stampare, e l’aumento dei libri a prezzi contenuti contribuì a formare quel pubblico. Un banco di prova fondamentale per le copertine, infatti, furono i primi tascabili – i cosiddetti dime novels americani o penny serial inglesi –, libri a basso prezzo e alte tirature stampati su carta economica. Nel complesso quello a cui si assistette nel corso dell’Ottocento è un assedio ai testi da parte delle immagini. Dopo secoli di dominio della tipografia in bianco e nero, le esigenze del mercato e i miglioramenti delle macchine di stampa tornavano a legare le parole alle figure, un po’ come accadeva prima dell’invenzione dei caratteri mobili con i manoscritti medievali. L’Ottocento fu un gigantesco esperimento grafico durato un secolo in cui si mise a punto tutto quello che sarebbe accaduto in seguito. L’accelerazione decisiva, infatti, arrivò dopo la Prima guerra mondiale, quando il futurismo italiano e il costruttivismo sovietico utilizzarono i libri come mezzi espressivi, non solo attraverso la grafica, ma anche ideando libri con copertine di latta o carta vetrata. L’oggetto-libro, insomma, iniziò a essere concepito in sé, indipendentemente dal testo. È uno scarto fondamentale, uno slittamento di enfasi, che dal contenuto si sposta sulla scatola.
Dagli anni Venti, ovunque, l’editoria chiamò in soccorso l’immagine – artisti, grafici, illustratori – quasi sentisse che il testo, nudo, non fosse abbastanza attraente e ci fosse bisogno di rivestirlo e agghindarlo. La copertina da protezione diventò copertura. Perché la copertina copre, appunto, mostra e nasconde. Si presenta come la faccia del libro, ma ne è contemporaneamente la maschera. Le copertine finirono così per essere una manifestazione della pretesa dell’immagine di raffigurare ed esaurire la realtà, abbracciando ed assediando letteralmente le parole scritte. La manifestazione editoriale di quell’«oscenità dell’ipervisibile» di cui scrisse il filosofo Jean Baudrillard. A qualcuno questa invadenza dell’immagine sembrò un pericolo. In un saggio intitolato La profondità della superficie, Ambrogio Borsani ha raccontato che Franz Kafka prima di scegliere copertina della Metamorfosi scrisse a Max Brod: «Mi è venuto in mente, siccome Starke è un vero illustratore, che forse potrebbe voler disegnare l’insetto. Questo no, per favore, questo no! (…) L’insetto non può essere disegnato. Ma non può essere neppure mostrato da lontano».
La funzione delle copertine cambiava e si precisava. Non si trattava più di proteggere e rendere più bello un libro, ma di usare l’immagine per indirizzarlo verso il pubblico pensato dall’editore, a costo di comprimere il testo in un genere, appiccicandoci sopra figure e grafiche che si presumeva più familiari al lettore cercato, al lettore immaginato. Lo stesso libro venne rivestito di copertine diverse a seconda dei Paesi di pubblicazione, e impacchettato da capo seguendo il gusto dei tempi. E chiunque abbia avuto la fortuna di vedere un proprio libro tradotto all’estero ha sperimentato lo spaesamento che provoca il fatto che lo stesso testo possa essere avvolto da immagini così diverse da trasformare il testo stesso. Gli esempi sono infiniti: uno è l’edizione americana di 1984 di George Orwell del 1950 che in copertina mostra giovani americani dell’epoca, quasi che la vicenda fosse ambientata negli Stati Uniti di allora. L’originaria funzione protettiva della copertina arretrò per lasciare posto a quella della catalogazione e dell’etichettatura, cioè del marketing in quanto individuazione di un target. L’aspetto paradossale è che l’industrializzazione dell’editoria condusse alla necessità di un intervento artigianale finale, ogni volta diverso, al momento di rivestire il libro per presentarlo al pubblico. Ma inventare il libro avvolgendolo in un’immagine e grafica unica comporta grandi rischi: perché sbagliare copertina significa non raggiungere il lettore, e mancare la forma significa, di fatto, buttare via il contenuto.
Una certa editoria reagì spostando il peso dell’immagine dal libro singolo all’editore, cioè dal titolo alla collana. Dall’illustrazione l’elemento unificante diventò la grafica, il formato, la carta. Il primo caso è forse la collana Everyman’s Library fondata dall’ex rilegatore, poi editore inglese Joseph Dent nel 1906, peraltro uno dei primi a usare estesamente i testi in copertina. Un altro esempio famoso è la collana dei classici Penguin lanciata nel 1935. In Italia due anni prima, per aggirare la censura fascista che vigilava sulla pubblicazione di autori stranieri, Mondadori aveva lanciato la Medusa e, sempre negli anni Trenta, Bompiani la collana Corona. Ancora una volta, però, – come già era avvenuto nel secolo procedente con i dime novel – l’impulso più forte venne dall’editoria popolare, che da subito, per contenere i costi ed essere immediatamente riconoscibile, puntò sulla riproducibilità di pochi elementi grafici fissi. (Qui trovate un articolo sulla storia dei tascabili). Nel dopoguerra nacquero le grandi collane economiche, su tutte la BUR di Rizzoli e gli Oscar Mondadori.
Nel libretto appena uscito Il vestito dei libri, la scrittrice americana di origine indiana Jhumpa Lahiri paragona le collane alle divise. In realtà il termine «collana» suggerisce che la cosa preziosa sia la serie, non il libro in sé. Per questo l’editoria si legò alla grafica. A partire dagli anni Sessanta furono i grafici a ridisegnare letteralmente l’editoria italiana. Bruno Munari – che aveva esordito a 22 anni con il futurismo, disegnando il libro per ragazzi Aquilotto implume – riprogettò tutte le collane più famose di Einaudi; Albe Steiner fece lo stesso con la narrativa di Feltrinelli e a John Alcorn Rizzoli affidò la collana La Scala. A differenza che in altri Paesi, infatti, in Italia le collane infilano classici e contemporanei, defunti e viventi, senza soluzione di continuità, e quindi possono abbracciare tutta la produzione di un editore. La funzione che svolgono, però, è la stessa delle copertine singole: cercano di intercettare e fidelizzare un pubblico immaginato, e alcune in qualche misura riescono perfino a crearlo. Sono cornici di segni che, come le illustrazioni, definiscono il contenuto attraverso la forma, l’interno attraverso la scatola, l’oggetto attraverso il suo logo. È successo per esempio con Einaudi, Sellerio, Adelphi i cui colori sbiaditi citano quelli delle prime brossure, il cui carattere tipografico, il Baskerville, risale al Settecento e la cui cornice è presa da Aubrey Beardsley. È un progetto grafico che si rifà, cioè, a un’antichità che in verità è già moderna, cioè industriale.
Oggi tutti questi modelli convivono, come si legge in questo articolo sulle tendenze più recenti delle copertine. La prevalenza del digitale impone una certa semplificazione e obbliga a definire il fuoco dell’attenzione in modo che le copertine siano visibili anche piccole, anche sul telefonino. Un’esigenza che rafforza la riduzione a segno, a logo e la tipicità dei generi degli involucri dei libri. È come se si fossero formate collane trasversali, di generi editoriali ancora senza nome, definiti appunto dall’immagine, raggruppati sotto figure femminili evanescenti, facce in primo piano o persone di spalle. La copertina incornicia il libro: cerca di attirare verso l’interno, escludendo tutto quello che è fuori. Come sempre, c’è anche l’effetto contrario: un ritorno al tipografico o al bianco, perfino ai libri impacchettati, come sta facendo Feltrinelli imitando un esperimento australiano, involucri senza più segni, titoli e autori, come all’inizio dell’Ottocento, ma anche quest’assenza è un segno, una copertina che copre e rivela.