Le “pene più severe” non servono a niente

Lo sostiene uno studio di due professori italiani, che mette in relazione la gravità delle pene col numero di omicidi, commentato da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera


ANSA/MASSIMO PERCOSSI
ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella ha commentato i dati di uno studio di due professori dell’università Bicocca di Milano sulla relazione tra la severità delle pene e il numero di omicidi in un certo paese. Secondo lo studio, a pene più severe, e quindi a più alti tassi di incarcerazione, non corrispondono riduzioni nel numero di omicidi; che anzi a volte invece aumentano.

A cosa in concreto servano dosi massicce di carcere, d’ergastoli e pene di morte non é ben chiaro, ma a cosa non servano é statisticamente chiarissimo: non servono a far diminuire gli omicidi, anzi vanno di pari passo con il loro aumento. Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori di criminologia all’Universitá Bicocca di Milano, incrociando per la Rivista italiana di diritto penale uno studio sugli omicidi nel mondo con le ricerche ad esempio di Tapio Lappi-Seppala e Martii Lehti in 235 Paesi tra il 1950 e il 2010, mostrano come gli alti tassi di incarcerazione e il livello di severità delle punizioni siano o quasi irrilevanti o addirittura associati a tassi di violenza letale alti e per giunta in aumento.

Stati Uniti e Canada hanno tassi di omicidi molto diversi, ma aumentano o diminuiscono con andamenti analoghi nei medesimi periodi a riprova dell’inesistente effetto della «tolleranza zero» produttrice negli Usa di tassi di incarcerazione enormemente più alti di quelli canadesi. E il Brasile, con 26,3 delitti per 100.000 abitanti (tasso superato da alcuni Paesi dell’America Centrale), ha il primato mondiale di omicidi in numero assoluto (53.240 nel 2014) pur se negli ultimi 25 anni é passato da 90mila a 607mila detenuti.

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