Uber ha pagato una scelta discutibile sul “muslim ban”
Mentre i tassisti protestavano contro Trump, non ha alzato i prezzi del servizio come succede di solito: è finita con 200mila utenti in meno e le dimissioni del CEO da consigliere del presidente
Nelle ultime settimane Uber, il servizio di trasporto privato a metà tra il taxi e il noleggio di auto con autista che si usa con un’app per smartphone, ha avuto alcuni problemi collegati all’amministrazione Trump e in particolare all’ordine esecutivo che ha sospeso le procedure di accoglienza dei richiedenti asilo per quattro mesi e vietato l’ingresso per i cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana. L’ultimo capitolo del guaio è arrivato il 2 febbraio, quando Travis Kalanick, amministratore delegato di Uber, si è dimesso dal suo ruolo di consigliere economico del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che aveva accettato poco tempo fa insieme ad altri importanti dirigenti di società della Silicon Valley, dopo una protesta dei dipendenti della società.
Il primo capitolo del guaio, invece, era arrivato quando la New York Taxi Workers Alliance, un sindacato di tassisti, aveva interrotto le corse dirette all’aeroporto JFK per un’ora nel giorno in cui Trump ha firmato l’ordine esecutivo sull’immigrazione, per protesta: poco dopo, Uber ha detto che non avrebbe attivato il sovrapprezzo che normalmente viene applicato alle corse quando c’è molta richiesta sul servizio (e in quel momento, senza taxi, c’era ovviamente molta richiesta). La scelta è stata interpretata come un modo per lucrare sulla situazione, e su Twitter molte persone hanno usato l’hashtag #DeleteUber per annunciare che avrebbero cancellato il proprio account in segno di protesta contro l’azienda. Anche alcuni personaggi famosi che spesso prendono posizioni politiche, come l’attrice Lena Dunham, hanno aderito alla campagna di cancellazione degli account. Secondo le stime riportate dai giornali americani, circa 200mila persone hanno cancellato il loro account su Uber.
When you go from living with a boyfriend to never speaking to him again pic.twitter.com/s5n2kGyG6r
— Lena Dunham (@lenadunham) January 29, 2017
Il danno economico causato a Uber dalla cancellazione degli account non sembra particolarmente grave, anche se il 30 e il 31 gennaio c’è stato un grosso calo dei download della app di Uber e un contemporaneo e proporzionale aumento dei download della app di Lyft, il suo principale concorrente. Lyft ha sfruttato la difficoltà di Uber (e tutta la questione nata dal cosiddetto “muslim ban”): ha promesso di donare un milione di dollari all’organizzazione non governativa per la difesa dei diritti civili American Civil Liberties Union e in cambio ha avuto un grosso ritorno di immagine.
Come ha spiegato il New York Times, le scelte di Kalanick di accettare e poi di lasciare l’incarico di consigliere per Trump rientrano nella logica di comportamento di un amministratore di una grande azienda, in particolare della Silicon Valley: da un lato per il bene delle società tecnologiche è importante avere scambi fruttuosi con il governo, dall’altro le iniziative che Trump ha preso finora sono così impopolari sia tra i dipendenti di queste aziende sia tra molti dei loro clienti che gli amministratori sono sottoposti a una forte pressione perché prendano le distanze dal presidente. I dipendenti di Facebook ad esempio si sono lamentati del fatto che il controverso miliardario sostenitore di Trump Peter Thiel sia ancora nel consiglio di amministrazione della società; i dipendenti di Google hanno protestato contro l’ordine esecutivo sull’immigrazione e molti a Twitter non sono contenti del fatto che Trump usi molto il social network per comunicare con i suoi sostenitori. Dopo essersi dimesso Kalanick ha detto che le restrizioni sull’immigrazione di Trump sono qualcosa che va contro i valori di Uber, per cui lavorano moltissime persone provenienti da altri paesi, compresi quelli interessati dal divieto di Trump.
1/The travel ban is against everything @Uber stands for. 1000’s of drivers affected – https://t.co/1YXQ5XRnGU
— travis kalanick (@travisk) January 29, 2017
Tra gli altri amministratori delegati di grandi aziende americane – nel settore dell’innovazione tecnologica e no – che hanno accettato di fare da consiglieri a Trump ci sono Elon Musk di Tesla, Mary Barra di General Motors, Indra Nooyi di Pepsi, Ginni Rometty di IBM, Bob Iger di Disney. Musk ha spiegato su Twitter le sue ragioni, spiegando di voler sfruttare l’opportunità di dare un contributo sugli argomenti che per lui sono importanti per gli Stati Uniti e per il mondo intero, e ha detto che in un incontro previsto per oggi lui e gli altri consiglieri di Trump diranno perché sono contrari alle restrizioni sull’immigrazione.
Regarding the meeting at the White House: pic.twitter.com/8b1XH4oW6h
— Elon Musk (@elonmusk) February 3, 2017