Il “muslim ban” è stato un casino dall’inizio
Oltre che discutibile in sé, l'ordine sull'immigrazione è stato scritto male e senza chiedere pareri a nessuno: e così ha portato alla prima vera crisi dell'amministrazione Trump
Lunedì sera il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha licenziato il ministro della Giustizia ad interim Sally Q. Yates, che aveva dato ordine ai suoi dipendenti di non difendere in tribunale l’ordine esecutivo con cui Trump, venerdì 27 gennaio, ha bloccato per 90 giorni gli ingressi negli Stati Uniti di persone provenienti da sette paesi a maggioranza islamica causando problemi a centinaia di persone e grandi sofferenze a chi, negli ultimi giorni, ha dovuto fare i conti con le nuove, confuse, regole. Yates era la viceministro dell’amministrazione Obama a cui era stato chiesto di restare fino alla nomina del suo successore, quindi il suo licenziamento non è scandaloso in sé: ma ha comunque mostrato la profondità della crisi che, solo dieci giorni dopo l’insediamento del nuovo presidente, nel corso dell’ultimo fine settimana ha portato migliaia di persone a protestare in tutto il paese e ha spinto l’ex presidente Barack Obama a rompere una lunga tradizione e intervenire pubblicamente per criticare la nuova amministrazione pochi giorni dopo la fine del suo mandato.
L’ordine esecutivo di Trump è stato firmato venerdì dopo essere stato discusso da Trump con i suoi più stretti collaboratori politici, senza l’aiuto del capo del ministero degli Interni John F. Kelly, ha raccontato il New York Times: vieta per 90 giorni l’ingresso negli Stati Uniti alle persone provenienti da Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen; vieta l’ingresso di tutti i richiedenti asilo nel paese per 120 giorni e vieta l’ingresso a tempo indefinito dei richiedenti asilo siriani. L’ordine include tutti i tipi di viaggiatori, studenti, lavoratori, turisti e nuovi immigrati, permettendo l’ingresso negli Stati Uniti solo a personale diplomatico e funzionari di governo e – con un processo di ammissione caso per caso – ai possessori della green card, il permesso di residenza permanente negli Stati Uniti.
L’ordine di Trump è entrato in vigore immediatamente e già sabato mattina gli agenti di frontiera hanno cominciato a impedire a decine di persone in tutto il mondo di imbarcarsi su aerei diretti negli Stati Uniti. I problemi più grossi ci sono stati con le decine di persone provenienti dai paesi citati che, al momento della firma dell’ordine, erano già in viaggio o si trovavano già in un aeroporto statunitense. Agenti e funzionari della polizia di frontiera hanno raccontato ai giornali di aver iniziato a lavorare sabato mattina con ordini e idee molto confuse su come implementare le nuove regole, compresa una diffusa incertezza su come comportarsi nei confronti di chi aveva già un visto approvato. L’esenzione dal divieto dei possessori di green card, inoltre, è arrivata ufficialmente solo domenica pomeriggio, dopo che per due giorni decine di persone erano state detenute al loro arrivo negli Stati Uniti nonostante lavorassero o vivessero lì, in molti casi da anni.
In diversi aeroporti internazionali degli Stati Uniti, la situazione è stata molto confusa. Quando hanno cominciato a presentarsi i primi problemi e la polizia ha fermato le prime persone alla frontiera, sono cominciate manifestazioni di protesta che si sono via via allargate nel corso del fine settimana e sono continuate fino a domenica notte: migliaia di persone in tutti gli Stati Uniti hanno protestato contro l’ordine esecutivo di Trump e contro quella che a molti è sembrata una discriminazione religiosa. Trump aveva promesso in campagna elettorale un cosiddetto “muslim ban”, il divieto di accesso negli Stati Uniti per le persone provenienti da paesi musulmani, e nonostante questo non sia un “muslim ban” – il suo ordine esclude moltissimi paesi a maggioranza musulmana, i cui abitanti possono continuare a entrare negli Stati Uniti – in molti hanno collegato le due cose.
E quindi c’è un doppio registro, nelle critiche contro l’ordine e nella difesa della Casa Bianca: Trump in campagna elettorale ha ottenuto molti consensi grazie alla proposta di un “muslim ban”, più volte ha criticato l’Islam in quanto tale e dopo l’ordine esecutivo ha scritto su Twitter che bisogna fermare i massacri dei cristiani in Medioriente, alludendo all’esistenza di una connotazione religiosa nelle sue decisioni che piace molto all’estrema destra americana; dall’altra parte la Casa Bianca fa notare, ed è vero, che i musulmani continuano a poter entrare negli Stati Uniti, e il divieto riguarda solo alcuni paesi particolarmente instabili. Ma è vero anche che nessuna persona proveniente da quei paesi abbia mai attaccato gli Stati Uniti, mentre i paesi di origine degli autori di alcuni attacchi terroristici effettivamente accaduti (Egitto, Pakistan e Arabia Saudita, per esempio) non sono inclusi nel divieto.
Le persone all’aeroporto di Los Angeles – 29 gennaio 2017 (AP Photo/Ryan Kang)
Oltre ai manifestanti, tra sabato e domenica, gli aeroporti dove erano detenuti gli immigrati bloccati dalle nuove regole si sono riempiti di avvocati, studenti di legge e attivisti di organizzazioni per i diritti umani: lavorando in condizioni spesso molto precarie, si sono occupati di aiutare le persone che ne avevano bisogno, cercando traduttori, mettendosi in contatto con familiari e portando avanti le prime azioni legali contro l’ordine di Trump, che hanno portato a una prima decisione favorevole di un giudice federale e alla liberazione di alcune persone. Nonostante il momento peggiore sia passato (ora alle persone verrà impedito di imbarcarsi verso gli Stati Uniti) diversi volontari e avvocati stanno ancora setacciando gli aeroporti in cerca di persone bloccate e in difficoltà: spesso l’unico modo di farlo è cercare i loro familiari che li aspettano.
Gran parte della confusione, hanno raccontato in questi giorni i giornali, è dovuta al fatto che l’ordine sia stato scritto con fretta, senza chiedere pareri alle diverse agenzie di sicurezza del governo americano e senza lasciare il tempo necessario perché le nuove regole venissero capite e applicate in modo uniforme e giusto. Il New York Times ha raccontato per esempio che il capo del ministero degli Interni John F. Kelly – dal cui ministero dipendono molte delle agenzie che si occupano di sicurezza nazionale – ha appreso che Trump aveva firmato l’ordine mentre ne discuteva il contenuto con alcuni funzionari della Casa Bianca, dove un gruppo di pochi fidati consiglieri politici di Trump, guidato dal controverso Stephen K. Bannon, aveva scritto il testo.
Nel tentativo di chiarire il contenuto dell’ordine, nel corso del weekend l’amministrazione Trump ha più volte sostenuto che le nuove regole non erano diverse da quelle che aveva deciso Obama nel 2011 – che bloccarono per sei mesi gli ingressi di richiedenti asilo iracheni – e che i sette paesi decisi da Trump sono gli stessi sette che l’amministrazione Obama aveva riconosciuto come i più rischiosi dal punto di vista terroristico. Su Foreign Policy, notando la stranezza di proteggersi facendo appello alle decisioni di un’amministrazione passata (e contestatissima dallo stesso Trump), l’ex alto funzionario del Dipartimento di Stato con John Kerry, Jon Finer, ha spiegato però che questa similitudine non sta in piedi. Le regole di Obama riguardavano un solo paese, non portarono mai a un completo blocco degli arrivi, rispondevano a precise minacce ed erano state messe in atto in modo ordinato e con la collaborazione delle agenzie di intelligence, del ministero degli Interni e di quello della Giustizia. La storia dei “sette paesi” è fondata ma si riferisce a una scelta di portata e impostazione assai diversa: Obama li aveva inclusi in una riforma degli ingressi che aveva portato, dopo gli attentati di Parigi del 2015, solo a sospendere il Visa Waiver Program (la possibilità per certe persone di arrivare negli Stati Uniti senza un vero visto) per le persone con la nazionalità di quei paesi.
Una delle conseguenze notevoli della decisione del 2011 di Obama, inoltre, fu l’introduzione di un nuovo sistema di controllo per le richieste di visti e permessi per la permanenza negli Stati Uniti, che già da diversi anni sono diventati molto difficili da ottenere e i cui programmi di assegnamento sono costantemente sottoposti a revisioni e aggiustamenti. Per alcune persone (richiedenti asilo siriani e iracheni, per esempio) ci vogliono due anni per ottenere un visto per gli Stati Uniti, dopo aver passato 20 diversi livelli di controllo e verifica, e questo sembra in parte smentire le intenzioni dichiarate di Trump con le nuove regole, ovvero rafforzare il controllo degli ingressi nel paese e introducendo un extreme vetting (controllo estremo) per le persone provenienti da paesi ritenuti potenzialmente pericolosi. Secondo Foreign Policy, in sostanza, l’extreme vetting negli Stati Uniti esiste già, grazie a Obama.
Considerando i problemi che ha causato nel corso degli ultimi giorni, in molti si sono chiesti a cosa sia servito introdurre le nuove regole così in fretta e senza preavviso. Una possibile risposta è che Trump volesse fare quello che aveva promesso in campagna elettorale, il “muslim ban”. Lui e la sua amministrazione, negli ultimi giorni, hanno più volte detto che il divieto non discrimina in base alla religione ma in diverse altre occasioni, come abbiamo visto, la retorica dell’amministrazione Trump ha fatto riferimento in modo esplicito a questioni religiose e uno dei suoi consiglieri più stretti, l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, ha parlato esplicitamente di “muslim ban” durante un’intervista a Fox News. Giuliani ha detto che Trump lo aveva chiamato chiedendogli di “trovare un modo legale” per istituire il “muslim ban” e che Giuliani gli aveva proposto di cercare un criterio alternativo alla religione per renderlo legale: “ed è quello che abbiamo fatto, ci siamo concentrati sul pericolo e non sulla religione, sulle aree del mondo che creano un pericolo per noi. Che è un criterio fattuale, non religioso. Perfettamente legale, perfettamente accettabile”.
Dopo il licenziamento di Sally Yates, Trump ha nominato al suo posto il giudice Dana Boent, che come prima cosa ha annullato l’ordine di Yates di non difendere le nuove regole sull’immigrazione in tribunale. Yates, con la sua decisione, aveva messo in discussione l’autorità del presidente Trump, visto anche che l’ufficio di consulenza legale del ministero della Giustizia aveva approvato le nuove regole dal punto di vista “formale e legale”. Yates ha comunque spiegato di aver voluto fare considerazioni più ampie sulla questione e di essere arrivata alla conclusione che le nuove regole non fossero “eque e giuste” e non riflettessero i valori del ministero della Giustizia. Altre critiche forti a Trump potrebbero arrivare anche dal Dipartimento di Stato, una sorta di ministero degli Esteri degli Stati Uniti, che ha confermato lunedì che alcuni dipendenti stanno preparando un cosiddetto “memorandum di dissenso” da presentare all’amministrazione, in cui si criticano le sue ultime scelte. I memorandum di dissenso sono l’unico modo in cui i dipendenti di un ministero possono esprimere critiche sull’operato dell’amministrazione e sono una cosa piuttosto seria: secondo il New York Times in questo caso potrebbero firmarlo più di 100 funzionari.
Sally Yates (Pete Marovich/Getty Images)
Allo scontento di diverse parti dell’amministrazione, infine, si è aggiunto anche quello di alcuni politici Repubblicani. Il senatore John McCain, da sempre molto critico di Trump, ha detto subito di considerare il divieto sull’immigrazione un’arma a doppio taglio che potrebbe portare più problemi che vantaggi agli Stati Uniti; ma negli ultimi giorni sono arrivate critiche al presidente anche da senatori e deputati Repubblicani che criticano il modo in cui le nuove regole sono state implementate senza avvertimento e discussione. Queste critiche interne al partito potrebbero venire alla luce in qualche misura nel corso delle votazioni del Senato per ratificare la nomina del successore di Yates al ministero della Giustizia scelto da Trump, il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, voto che in qualche misura diventerà un referendum sulle nuove regole volute da Trump. Il New York Times ha comunque scritto che l’amministrazione Trump ha ricevuto rassicurazioni sul fatto che la conferma di Sessions arriverà nei prossimi giorni.
Nel mezzo di questa situazione complicata, confusa e per molte persone anche dolorosa, lunedì sera ha parlato anche l’ex presidente Barack Obama, che da qualche giorno si trova in vacanza a Palm Beach, in California. Rompendo la tradizione per cui i presidenti uscenti si astengono per un certo periodo dal criticare le attività delle nuove amministrazioni (immaginando che i primi giorni possano essere difficili e difficilmente giudicabili per tutti), Obama ha diffuso un comunicato stampa in cui si è detto “rincuorato” dalla grande partecipazione alle manifestazioni di questi giorni, aggiungendo di essere “profondamente in disaccordo con la possibilità di discriminare le persone in base alla loro fede o religione”.