Il delitto di Cogne, 15 anni fa
Breve storia di uno dei casi di cronaca nera più famosi e discussi degli ultimi anni in Italia
Il 30 gennaio del 2002 alle 8.30 del mattino una donna di Cogne, in Val d’Aosta, telefonò al 118 dicendo che suo figlio stava vomitando sangue. I medici arrivarono e trovarono il bambino – Samuele Lorenzi, 3 anni – con numerose ferite alla testa e alle mani; lo dichiararono morto alle 9.55. Sei anni dopo quella donna, Annamaria Franzoni, fu condannata in via definitiva per omicidio a 16 anni di carcere. Secondo la sentenza aveva ucciso suo figlio colpendolo alla testa per 17 volte con un oggetto, che non è mai stato identificato né ritrovato.
Il giorno dell’omicidio, Franzoni raccontò ai carabinieri di aver lasciato suo figlio Samuele in casa mentre accompagnava il fratello più grande a prendere lo scuolabus. Disse di aver chiuso la porta alle sue spalle (ma poi cambiò versione) e di aver lasciato accesa la televisione per non farlo sentire solo. Disse di essere tornata in casa dopo circa otto minuti e di aver trovato Samuele sanguinante nel suo lettino. Franzoni fu quasi immediatamente sospettata di aver ucciso il figlio e il 14 marzo, poco più di un mese dopo, fu iscritta nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario e poi arrestata (fu scarcerata per mancanza di indizi pochi giorni dopo, e trascorse in libertà gran parte del processo).
Gli indizi contro di lei erano numerosi. Gli investigatori trovarono tracce di sangue, materia cerebrale e ossa sul suo pigiama, segni che era l’indumento indossato dall’assassino al momento dell’omicidio, e trovarono tracce di sangue sotto le suole e all’interno delle sue ciabatte. Come scrisse il gip Fabrizio Gandini nell’ordinanza di arresto: «L’assassino indossava il pigiama e le ciabatte. La Franzoni indossava il pigiama e le ciabatte. La Franzoni è l’assassino». Secondo il giudice, Franzoni aveva preparato il figlio più grande per andare a scuola e, prima di cambiarsi per uscire, «richiamata dal pianto del piccolo Samuele, scende le scale e lo porta nel proprio letto: lì lo uccide». Dopo, sempre secondo il giudice, Franzoni nascose il pigiama insanguinato sotto le coperte del letto ed accompagnò il figlio più grande a prendere lo scuolabus.
Secondo Gandini: «Sembra ragionevole ipotizzare che in una situazione di forte stress, aggravato dalle condizioni di salute dell’indagata, la Franzoni abbia deciso di uccidere Samuele perché pensava che il piccolo avesse qualcosa che non andava, che frustrava il suo desiderio di mamma di vedere il figlio crescere in condizioni normali», oppure: «Più semplicemente si può pensare che la Franzoni abbia soppresso la vittima perché quel mattino quando lei era già irritata, Samuele le dava fastidio, essendosi messo a piangere sulle scale proprio mentre lei si preparava per uscire».
Franzoni ha sempre sostenuto di essere innocente; nella sua difesa è sempre stata appoggiata dalla famiglia e da suo marito, Stefano Lorenzi. La tesi della difesa era che a uccidere Samuele fosse stato un estraneo, entrato in casa negli otto minuti che Franzoni impiegò per accompagnare il figlio più grande fino allo scuolabus. Ma gli investigatori non hanno mai trovato tracce della presenza di altre persone all’interno dell’abitazione: non c’erano impronte digitali, né tracce di sangue o segni di scasso. Franzoni e il marito accusarono diversi vicini di aver compiuto l’omicidio, e uno in particolare di aver molestato la stessa Franzoni (dello stesso vicino aggiunsero che era “sospetto” poiché indossava sempre occhiali da sole e, a volte, un parrucchino per nascondere la calvizie). Le supposte molestie, però, non erano mai state denunciate in passato; in seguito i coniugi furono denunciati per calunnia. Da alcune intercettazioni telefoniche tra Franzoni e Lorenzi, sembra che i due stessero cercando di accordarsi per sviare le indagini, disseminando indizi che avrebbero incastrato i loro vicini.
Nel corso del lungo processo Franzoni diede diverse interviste e questo, insieme alle accuse ai vicini o le rivelazioni di nuove piste o presunte prove che l’avrebbero scagionata, tenne per anni vivo il dibattito sul caso. Al delitto di Cogne furono dedicate centinaia di ore di talk show e fu proprio in questa occasione che Bruno Vespa introdusse nel programma Porta a Porta il primo “plastico”, una riproduzione della villetta dove era avvenuto l’omicidio, utilizzata per spiegarne agli spettatori le dinamiche (da allora i “plastici” di Vespa sono entrati nella cultura popolare, oltre a essere una presenza fissa quando a Porta a Porta si parla di cronaca nera).
A tenere viva l’attenzione sul caso contribuirono anche gli importanti avvocati che difesero Franzoni. Il primo, Carlo Federico Grosso, è anche il legale delle testate Repubblica e l’Espresso. A lui successe Carlo Taormina, allora parlamentare di Forza Italia. Fu lui a condurre alcune indagini difensive in cui sostenne di aver trovato le prove dell’intrusione di una terza persona all’interno della villetta. Da queste accuse nacque un processo per calunnia contro Taormina, Franzoni e Lorenzi, poi caduto in prescrizione.
Dopo la conferma della condanna a 16 anni da parte della Corte di Cassazione, nel 2016, dopo sei anni di reclusione, Franzoni ha ricevuto gli arresti domiciliari. Sta scontando la pena nella sua abitazione in provincia di Bologna.