L’inspiegabile morte di Luciano Re Cecconi
Il 18 gennaio 1977 il centrocampista della Lazio fu ucciso da un colpo di pistola in una gioielleria di Roma: ancora oggi non si sa bene perché
di Pietro Cabrio
Il campionato di calcio italiano del 1976 iniziò il 3 ottobre, una domenica in cui – come si usava all’epoca – vennero disputate tutte le partite in programma quel turno. La squadra che poi vinse il campionato, la Juventus di Dino Zoff, Gaetano Scirea e Roberto Bettega, esordì all’Olimpico di Roma contro la Lazio. Vinse 3-2 grazie a una doppietta di Bettega e a un gol di Roberto Boninsegna. Quella partita venne poi ricordata anche per il bel gol segnato all’inizio del secondo tempo dal centrocampista laziale Luciano Re Cecconi, uno dei protagonisti dello Scudetto vinto tre stagioni prima sotto la guida dell’allenatore Tommaso Maestrelli.
Luciano Re Cecconi, che all’epoca aveva 29 anni, oggi è ricordato dai tifosi della Lazio, da chi seguiva il campionato in quegli anni e da chi ha avuto l’occasione di leggere qualcosa su di lui, o di guardare qualche programma televisivo sulla sua storia. Perché due mesi dopo quel gol segnato alla Juventus — l’ultimo della sua carriera — Re Cecconi entrò in una gioielleria di Roma con due amici e venne colpito all’improvviso da un colpo di pistola. Morì poco dopo all’Ospedale San Giacomo. Re Cecconi, nato e cresciuto a Nerviano, in provincia di Milano, aveva una moglie più giovane di cinque anni e due figli piccoli.
Immediatamente si parlò di uno scherzo finito male. Le prime ipotesi sostennero che Re Cecconi, dopo essersi alzato il bavero del cappotto, avesse fatto finta di essere un rapinatore dicendo: «Fermi tutti, questa è una rapina!». Poi però la ricostruzione degli istanti che portarono alla sua morte si complicarono a tal punto che ancora oggi, dopo più di quarant’anni e pur essendoci una sentenza definitiva, ci sono ancora tanti dubbi su quello che accadde di preciso in quella gioielleria la sera del 18 gennaio.
Quattro mesi prima, alla terza giornata di campionato, disputata il 24 ottobre, Re Cecconi si era infortunato seriamente al ginocchio sinistro e dovette saltare i successivi due mesi e mezzo di campionato. Il suo ritorno agli allenamenti era stato previsto dopo le festività natalizie. Re Cecconi terminò quindi gli ultimi mesi del 1976 lontano dai campi, in riabilitazione. Il 16 gennaio la Lazio pareggiò contro l’Hellas Verona. Dopo quella partita era in programma una pausa di una quindicina di giorni che sarebbe servita alla Lazio per recuperare gli infortunati e magari trovare il modo di riprendersi dopo alcuni risultati negativi.
La sera del 18 gennaio, due giorni dopo il pareggio contro l’Hellas Verona, Re Cecconi uscì dall’allora centro sportivo della squadra a Tor di Quinto con due amici per dirigersi verso Collina Fleming, una zona a nord di Roma, tra lo Stadio Olimpico e l’ippodromo di Tor di Quinto. Re Cecconi era in compagnia di Pietro Ghedin, un suo compagno di squadra, e di Giorgio Fraticcioli, un profumiere amico di entrambi. Insieme si diressero verso il 68 di via Francesco Saverio Nitti — una laterale di Corso Francia — perché lì Fraticcioli avrebbe dovuto consegnare dei flaconi di profumo alla gioielleria di un suo conoscente, Bruno Tabocchini.
Dal momento in cui, verso le 19.30, Re Cecconi, Ghedin e Fraticcioli entrarono nella gioielleria di Tabocchini, le versioni date dai testimoni nel corso delle indagini presentano molte incongruenze. Si sa per certo che passarono solo pochi secondi prima che Tabocchini, dopo aver puntato la pistola contro Ghedin, che alzò le mani, si rivolse verso Re Cecconi sparandogli al petto. Nelle ore successive all’accaduto i giornali pubblicarono la notizia della morte di Re Cecconi parlando di «un gioco finito male» e di un «tragico scherzo». Ancora oggi i giornalisti che quella sera arrivarono per primi in via Nitti sostengono che lo scherzo finito male resti l’ipotesi più probabile. Venne scritto anche che, disteso a terra, Re Cecconi ebbe il tempo di dire: «Era uno scherzo». Ma nei giorni successivi emersero dubbi che persistono tuttora.
Per prima cosa, come ricostruito dal giornalista Guy Chiappaventi nel suo libro Aveva un volto bianco e tirato – Il caso Re Cecconi, ci furono fin da subito molti dubbi sulle circostanze in cui si verificarono i fatti. Per esempio: come fece Tabocchini a non riconoscere Re Cecconi, calciatore alto, biondo e con dei lineamenti particolari, all’apice della sua carriera, vincitore di uno Scudetto con la Lazio appena tre anni prima e nel giro della Nazionale? Re Cecconi inoltre frequentava regolarmente quella zona. Viveva sulla Cassia, peraltro nello stesso quartiere di Tabocchini, e aveva fatto battezzare il figlio dal titolare di una macelleria di via Flaminia, a pochi metri da quella gioielleria. Re Cecconi era poi in compagnia di un altro noto calciatore della Lazio e soprattutto di Fraticcioli, amico di Tabocchini, come confermato da entrambi nel corso del processo.
In quei giorni, tuttavia, la Gazzetta dello Sport scrisse che «stando alle testimonianze dei residenti del quartiere Fleming, Tabocchini era forse l’unico della zona ad ignorare l’esistenza della folta colonia di giocatori laziali che abitavano dalle parti di Tor di Quinto». Nelle indagini, scrissero i giornali, la procura di Roma prese in considerazione l’eventualità che anche Tabocchini stesse scherzando con i tre – dopo aver accertato la sua familiarità con le armi da fuoco – e che nel farlo gli partì accidentalmente un colpo. Ma le indagini non proseguirono in quella direzione.
Secondo alcune ricostruzioni, nella fase istruttoria Tabocchini sostenne che Re Cecconi non fece nulla che potesse essere preso come un tentativo di rapina: una testimonianza data in un secondo momento anche da Ghedin, che però in una versione precedente aveva affermato il contrario. L’ipotesi del colpo partito accidentalmente, anche se poi non ebbe un seguito, fu sostenuta anche dagli amici e dai compagni di squadra di Re Cecconi, che lo descrivevano come un uomo responsabile che difficilmente avrebbe pensato di simulare una rapina nel mezzo degli “anni di piombo”, un periodo in cui, soprattutto a Roma, di armi ne giravano parecchie e le rapine erano molto frequenti, in particolare alle gioiellerie. Ma c’era anche chi sosteneva che Re Cecconi avesse pensato di non correre rischi, poiché era in compagnia di un amico del gioielliere e perché frequentava regolarmente quella zona.
Tabocchini fu arrestato per «eccesso colposo di legittima difesa» e diciotto giorni dopo venne assolto per «aver sparato per legittima difesa putativa». La difesa sostenne che, dopo aver subito altre rapine in passato, Tabocchini si allarmò e sparò rapidamente non appena Re Cecconi finì di parlare, senza avere il tempo di riconoscere lui o Fraticcioli. La procura di Roma decise di non presentare ricorso, contrariamente all’opinione del pubblico ministero Franco Marrone, che più avanti disse: «La motivazione della sentenza è stata giuridicamente e tecnicamente scorretta. Il tribunale pervenne al suo convincimento omettendo di valutare dovutamente tutti gli elementi emersi». Si occuparono della sentenza anche alcuni politici dell’epoca, fra cui Bettino Craxi, che disse: «Non si spara al cuore di una persona a occhi chiusi per aver agito in stato di legittima difesa putativa». Giancarlo De Carolis, allora presidente della commissione Giustizia del Senato, rispose dicendo: «È stata una sentenza coraggiosa perché attraverso un procedimento logico è stata correttamente applicata una norma fondamentale».
Quell’annata calcistica sancì la fine del ciclo della storica Lazio di Tommaso Maestrelli, iniziato con la vittoria dello scudetto del 1974. Quella squadra — composta fra gli altri da Giorgio Chinaglia, Pino Wilson e Vincenzo D’Amico — aveva vinto il campionato in modo del tutto imprevedibile passando alla storia per essere una squadra composta da buone individualità ma estremamente disunita, con lo spogliatoio diviso fra giocatori che non si frequentavano né facevano mistero di starsi antipatici a vicenda. Spesso gli allenamenti della squadra finivano in risse e tanti giocatori erano soliti girare armati, anche durante i ritiri della squadra.
Alcuni di loro erano considerati vicini all’estrema destra romana, e probabilmente avevano rapporti con la criminalità legata a quell’ambiente. La fine di quella squadra cominciò il 2 dicembre del 1976, quando Maestrelli, l’allenatore che pochi anni prima li aveva portati allo Scudetto, morì di cancro al fegato. Si concluse poi definitivamente con l’assurda morte di Re Cecconi.
Sul caso Re Cecconi sono stati scritti due libri: quello di Chiappaventi e Non scherzo. Re Cecconi 1977, la verità calpestata di Maurizio Martucci. Entrambi ricostruiscono i fatti aggiungendo precisazioni e testimonianze a favore della tesi secondo la quale Re Cecconi, una volta entrato nella gioielleria, non disse una parola, e Tabocchini sparò per errore. «Si è scritto molto, si è parlato tanto e a volte non bene. Qualcuno ha stravolto questo episodio, evidenziando cose non vere di Luciano. Quel giorno non ci fu nulla di premeditato, di previsto. Lo ripeto: se fossi morto io non avrei saputo perché» disse Pietro Ghedin diversi anni dopo in un’intervista all’Unità.
Ghedin, dopo aver fatto da assistente a Cesare Maldini, Dino Zoff e Giovanni Trapattoni nello staff della Nazionale italiana, dal 2012 allena Malta. Dopo la morte di Re Cecconi, la sera di quel 18 gennaio 1976, passò alcuni giorni in stato confusionale, sconvolto per la morte dell’amico. Dal giorno in cui si chiuse il processo per omicidio non ha mai più voluto parlare pubblicamente di quello che era successo quella sera, nonostante le numerose richieste di chiarimenti che gli sono state fatte nel corso degli anni.
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