Caso Cucchi: cosa succede adesso
Quali sono le prossime tappe dell'inchiesta, dopo che i pubblici ministeri hanno accusato di omicidio preterintenzionale i tre carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi
Martedì 17 gennaio la procura di Roma ha accusato di omicidio preterintenzionale tre carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi, l’uomo trovato morto il 22 ottobre del 2009 in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni. La procura ha concluso l’inchiesta – che è la seconda – dicendo che Cucchi fu picchiato dai tre carabinieri che lo arrestarono e che morì in seguito a quelle lesioni. L’inchiesta era stata avviata nel dicembre del 2015 ed era separata dai processi già stati a carico di agenti di polizia e medici: riguardava cinque carabinieri. Ora c’è la possibilità che si arrivi a un nuovo processo.
L’inchiesta è stata condotta dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò.
Le accuse più gravi sono state contestate ad Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, carabinieri in servizio all’epoca dei fatti presso il Comando Stazione di Roma Appia. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia. A tutti e tre è stata poi contestata l’accusa di abuso di autorità, per aver sottoposto Cucchi «a misure di rigore non consentite dalla legge» con «l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza di Cucchi al momento del foto-segnalamento». Per altri due carabinieri sono ipotizzati, a vario titolo, i reati di calunnia e di falso. I carabinieri oggi accusati di omicidio erano stati indagati in passato solo per lesioni personali aggravate, mentre i due carabinieri ora accusati di calunnia erano sospettati solo di falsa testimonianza.
I giornali riportano diverse parti dell’avviso di chiusura delle indagini dei pubblici ministeri: si dice che Cucchi fu colpito a «schiaffi, pugni e calci» che, secondo l’accusa, causarono «una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale» e «lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte». Queste lesioni «ne cagionavano la morte», unite al fatto che in ospedale Stefano Cucchi «subiva un notevole calo ponderale anche perché non si alimentava correttamente a causa e in ragione del trauma subito». Durante l’inchiesta bis era stata condotta una nuova perizia medico-legale nella quale si diceva che quella di Cucchi poteva essere stata una «morte improvvisa e inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale». Per i pm, invece, l’epilessia non è stata tra le cause che hanno causato il decesso.
L’avviso di chiusura delle indagini è regolato dall’articolo 415 bis del codice penale: significa, semplificando, che il pubblico ministero ha concluso le indagini e che queste sue conclusioni possono essere visionate dagli indagati, dai loro legali, dalla persona offesa o dai suoi avvocati. A quel punto l’indagato, entro venti giorni, può decidere di presentare memorie, nuovi documenti, può chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine e può chiedere di essere sottoposto a un interrogatorio. Se l’indagato chiede nuove indagini, queste devono essere fatte su concessione del giudice delle indagini preliminari entro 30 giorni, con possibilità di proroga di 60 giorni al massimo. Concluso questo iter, e se non viene decisa una proroga, il giudice per le indagini preliminari può decidere per un’archiviazione del caso, può modificare il capo di imputazione o può rinviare a giudizio gli indagati. Secondo i principali giornali nazionali, l’inchiesta bis della procura di Roma contiene i presupposti perché si arrivi a un rinvio a giudizio e poi all’apertura di un nuovo processo.
Eugenio Pini, avvocato di uno dei carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, ha detto: «La procura ha esercitato una sua prerogativa e ha formulato il capo di imputazione che ritiene sussistente. Noi riteniamo, di contro, che tale contestazione non potrà essere provata nel giudizio in quanto gli elementi di fatto su cui fonda non sono riscontrabili in atti».
Finora nessuno è stato ritenuto responsabile della morte di Stefano Cucchi. Il 5 giugno del 2013, dopo quattro anni, la III Corte d’Assise di Roma pronunciò la sentenza di primo grado: gli agenti penitenziari e gli infermieri coinvolti nel caso furono assolti, mentre i medici dell’ospedale “Pertini” furono condannati per omicidio colposo. Nessuno venne considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi: le condanne ai medici si riferivano al mancato soccorso una volta che Cucchi fu portato in ospedale. Il 31 ottobre del 2014 al processo di appello venne accolta la tesi della difesa e tutti gli imputati vennero assolti per insufficienza di prove. Nel marzo del 2015 la procura generale di Roma e i familiari di Stefano Cucchi depositarono un ricorso in Cassazione contro la sentenza dei giudici d’appello, che nel dicembre del 2015 venne accolto: la Cassazione decise dunque di annullare le assoluzioni dei cinque medici e confermò invece le assoluzioni dei tre agenti di polizia penitenziaria. A quel punto cominciò l’appello-bis. Nel giugno del 2016, durante il processo di appello-bis, l’accusa chiese di condannare per omicidio colposo i cinque medici che un mese dopo furono nuovamente assolti. Nel dicembre del 2015 venne avviata una nuova indagine, e si arriva dunque ai giorni nostri (qui una spiegazione più estesa di come si è arrivati a questo punto).