Sapete cos’è l’escussione preventiva?
La storia del complicatissimo referendum su cui dovremo votare in primavera, che nemmeno i sindacati sembrano aver compreso
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
La prossima primavera gli elettori italiani voteranno su due referendum voluti dalla CGIL, quelli che erroneamente sono stati chiamati “referendum sul Jobs Act”. Accanto al primo quesito, che chiede di abolire i voucher, il secondo si occupa di un’oscura questione tecnica sugli appalti. Il quesito contiene frasi come “beneficio della preventiva escussione”, “responsabilità solidale di tutti gli obbligati” e “infruttuosa escussione del patrimonio”. È un quesito difficile da comprendere persino per molti addetti ai lavori, e la stessa CGIL non sembra in grado di spiegarne correttamente il contenuto.
Il quesito è diviso in due parti e ha lo scopo di modificare due aspetti della legge Biagi del 2003, nella parte in cui stabilisce che i dipendenti di una società che lavora all’interno di un appalto possono chiedere a tutta la filiera gli stipendi e i contributi che non gli sono stati versati dal loro datore di lavoro. L’obbligo per il committente, l’appaltatore e l’eventuale subappaltatore di rispondere con il loro patrimonio, se il dipendente che lavora nell’appalto non viene pagato, si chiama “responsabilità solidale”. Il referendum vuole cancellare i due limiti alla responsabilità solidale introdotti nel 2012 dalla riforma del lavoro Fornero. Il primo limite di cui si propone l’abrogazione è quello per cui i sindacati possono accordarsi per derogare alla responsabilità solidale e introdurre altri meccanismi per accertarsi che i dipendenti vengano pagati. Il secondo: il committente dell’appalto è tenuto a pagare contributi e stipendi non versati dall’appaltatore ai suoi dipendenti, ma solo dopo un tentativo di “escussione” all’appaltatore stesso. Il diritto di chiedere che a pagare sia per primo l’appaltatore si chiama “beneficio della preventiva escussione”.
In altre parole: immaginiamo una grande azienda che appalta i lavori di pulizia a una piccola cooperativa che, per qualsiasi ragione, dopo l’inizio dei lavori smette di pagare stipendio e/o contributi a un suo dipendente. Prima del 2012 il dipendente poteva decidere di chiedere il denaro che gli era dovuto sia al suo datore di lavoro, la cooperativa, che al committente dell’appalto, la grande azienda (che in un secondo momento poteva rifarsi sulla cooperativa, se non era sparita nel frattempo). Oggi, dopo la riforma Fornero, la grande azienda può invocare il beneficio della preventiva escussione e chiedere che il denaro dovuto sia prima chiesto alla piccola cooperativa. Solo quando si è accertato che la cooperativa non è in grado di restituire il dovuto, la grande azienda è tenuta a pagare il dipendente. Con il referendum la CGIL vuole ritornare a quello che prevedeva la legge Biagi, quando il dipendente poteva chiedere fin da subito il denaro dovuto al committente e quando i sindacati non potevano derogare alla “responsabilità solidale”.
«È una questione molto tecnica e molto complicata», ha spiegato al Post Aldo Bottini, presidente degli Avvocati giuslavoristi italiani e partner dello studio legale Toffoletto De Luca Tamajo e Soci, specializzato in diritto del lavoro. E la questione è così complicata nelle sue implicazioni che diversi giuslavoristi e ispettori del lavoro consultati dal Post hanno impiegato del tempo per afferrare tutte le implicazioni del quesito. La cosa ancora più singolare è che la stessa CGIL in diverse circostanze non è sembrata molto preparata in materia. Maurizio Landini, segretario della FIOM, il sindacato dei metalmeccanici della CGIL, in un’intervista al Corriere della Sera per esempio ha detto che dopo la riforma Fornero «per i lavoratori ai quali non viene pagato lo stipendio o non si versano i contributi non c’è la responsabilità di nessuno. Per spezzare questa degenerazione deve esserci una responsabilità solidale tra impresa appaltante e subappaltatrice». Bottini ha spiegato al Post che: «È del tutto falso dire che al momento non ci sia la responsabilità solidale», e la cosa è stata confermata al Post da diversi ispettori del lavoro e giuslavoristi.
Ulteriore confusione viene causata dal depliant illustrativo che la CGIL ha preparato sul quesito, e che trovate qui sotto e sul sito della CGIL. Si parla del terzo punto del depliant (il secondo si riferisce al quesito che la Corte ha rigettato).
Nel documento si parla di «difendere i diritti dei lavoratori occupati negli appalti e sub appalti coinvolti in processi di esternalizzazione, assicurando loro tutela dell’occupazione nei casi di cambi d’appalto e contrastando le pratiche di concorrenza sleale assunte da imprese non rispettose del dettato formativo». Secondo Bottini in questo paragrafo «non si capisce di cosa stiamo parlando» e i suoi dubbi sono stati confermati al Post da ricercatori e altri esperti della materia. Alcune incertezze sull’esatta natura del quesito e difficoltà nello spiegarne il contenuto sono emerse persino quando il Post ha contattato l’ufficio giuridico della CGIL, che ha materialmente elaborato i quesiti, per chiedere spiegazioni. Sul sito Wikilabour, curato da alcuni avvocati vicini alla CGIL, la questione invece è spiegata correttamente.
La complessità del quesito e le difficoltà di illustrarlo correttamente non tolgono nulla alla sua importanza per milioni di lavoratori e migliaia di imprese, i cui interessi sono molto difficili da bilanciare. Oggi il dipendente si può trovare costretto ad aspettare lo stipendio e i contributi che gli sono dovuti per mesi, a volte per anni, poiché deve prima cercare di riscuoterli dal suo datore di lavoro e solo dopo che la riscossione non è andata a buon fine può chiederli al committente dell’appalto, di solito più solido finanziariamente. D’altro canto, prima della riforma Fornero, il committente si trovava in una posizione difficile, costretto a pagare immediatamente per un torto commesso non da lui ma dalla società a cui aveva affidato l’appalto. Diversi ispettori del lavoro hanno raccontato al Post casi in cui chi aveva ricevuto un appalto “ricattava” i committenti, minacciandoli di smettere di pagare i propri dipendenti in caso di mancato rinnovo dell’appalto, certi che sarebbe stato il committente a pagare, mentre loro nel frattempo sarebbero potuti fallire in modo da non dover pagare nulla nemmeno in seguito.
È stata molto criticata anche la prima parte del quesito, quella in cui si chiede di togliere ai sindacati la possibilità di derogare alla responsabilità solidale: di fatto un sindacato sta chiedendo un referendum che limiti i poteri del sindacato. Giuslavoristi come Pietro Ichino e Giuliano Cazzola, entrambi spesso critici con il sindacato, dicono che questo quesito è molto insolito. Cazzola ha scritto in questi giorni: «Siamo alle comiche finali. È la prima volta, infatti, che un sindacato vuole precludersi per via referendaria l’esercizio di un potere contrattuale riconosciutogli dalla legge». La CGIL risponde a queste critiche sostenendo che non è interessata a leggi che consentano al sindacato di trattare per ridurre le tutele dei lavoratori (ma questo vale teoricamente per ogni trattativa in sé, e anzi sta proprio al sindacato far sì che l’esito della trattativa sia favorevole ai lavoratori). In ogni caso, la possibilità di derogare alla responsabilità solidale tramite contrattazione sindacale è stata usata una sola volta negli ultimi cinque anni. Un ispettore del lavoro consultato dal Post l’ha definita «una norma morta»; il presidente dei giuslavoristi Bottini ha detto di non essersi mai imbattuto in un caso di utilizzo di questa normativa.
È singolare che questioni così tecniche siano finite nel primo referendum abrogativo proposto dalla CGIL nei suoi oltre 70 anni di storia. La stranezza emerge anche quando si mette a confronto il quesito sugli appalti con gli altri due inizialmente contenuti nel referendum, quello per modificare l’articolo 18 (bocciato dalla Corte Costituzionale) e quello per abolire i voucher. Entrambi hanno un impatto politico maggiore, oltre a essere più semplici da spiegare e da comprendere. Fonti interne alla CGIL e persone informate sui fatti hanno detto al Post che i temi del referendum sono stati decisi dalla segreteria della CGIL e che i tre quesiti sono stati scritti da un gruppo ristretto di membri dell’ufficio giuridico del sindacato, senza coinvolgere i membri della consulta giuridica, l’organo più ampio ed esterno al sindacato che la CGIL usa per le consulenze in materia giurisprudenziale.
La CGIL sostiene che la questione della responsabilità solidale non sia secondaria rispetto agli altri temi. Altri indicano come la CGIL stia portando avanti con il referendum la sua antica battaglia contro le esternalizzazioni tout court, cioè la possibilità che un’azienda affidi a terzi la realizzazione di un servizio interno, come quello di pulizia o di call center. Secondo la CGIL esternalizzare un servizio è un modo per creare lavoratori di serie A, che restano tutelati dalla grande azienda, e di serie B, quelli del piccolo appaltatore a cui viene affidato il servizio. Il referendum si inserirebbe in questa battaglia e avrebbe lo scopo di rendere più difficile per le aziende esternalizzare un servizio e spingerle a mantenerlo il più possibile al loro interno.
Come avvenne la scorsa primavera in occasione del referendum sulle trivelle (che non era sulle trivelle), la prossima primavera gli italiani dovranno votare su un tema estremamente complesso e le cui implicazioni non sono facili da cogliere. Chi vorrà informarsi per votare in maniera consapevole rischia di faticare molto, visto che gran parte delle informazioni finora diffuse sulla natura del quesito sono come minimo parziali, quando non completamente false.