Da dove arriva il dossier su Trump e la Russia
La storia da film di spionaggio del documento sui presunti ricatti: c'entrano un incontro in aeroporto, ex spie in incognito e un rispettato senatore americano
Nelle ultime ore stanno emergendo diversi pezzi della storia del dossier che accusa il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump di essere ricattato dal governo russo, col quale avrebbe avere legami poco chiari. Moltissime informazioni contenute nel documento – che circolava da mesi tra i giornalisti americani ed è stato pubblicato integralmente da BuzzFeed martedì, dopo che l’intelligence statunitense lo ha presentato a Barack Obama e allo stesso Trump – non sono state verificate o confermate, e quindi non possono essere prese per vere. Sia Trump che il governo russo hanno smentito il contenuto del dossier. Nonostante questo, a causa della gravità delle accuse e dei sospetti che circolano da mesi sul rapporto tra Trump e la Russia, del dossier hanno parlato praticamente tutti i giornali del mondo, che hanno anche cercato di ricostruire chi lo abbia compilato e come sia arrivato nelle mani dei giornalisti. Le ricostruzioni più accurate sono state pubblicate in particolare dal New York Times e dal Guardian: è una storia da film di spionaggio, che include misteriosi incontri in aeroporto e un fitto sottobosco di funzionari, giornalisti e agenti dell’FBI.
La vicenda inizia nel settembre del 2015, quando una persona che il New York Times descrive come un “ricco finanziatore del partito Repubblicano”, di una fazione ostile a Trump, incaricò un’azienda specializzata di Washington, chiamata Fusion GPS, di mettere insieme un fascicolo di informazioni che potessero danneggiare politicamente Trump. Cose di questo tipo sono normali nelle campagne elettorali americane: esistono aziende specializzate che mettono insieme vecchie dichiarazioni, posizioni politiche, ritagli di giornale e testimonianze di questo e quello per lavoro, come quella che ha redatto il dossier in questione. Di solito queste aziende impiegano ex giornalisti o funzionari dell’intelligence, che raccolgono informazioni grazie ai legami creati nelle carriere precedenti. Qualche mese fa, per esempio, Wikileaks ha diffuso un dossier messo insieme nel 2015 dal comitato di Hillary Clinton sul suo avversario alle primarie, Bernie Sanders, lungo più di 100 pagine. A volte però, come in questo caso, i committenti non sono i partiti o i comitati dei candidati ma persone che a vario titolo intendono aiutare un certo candidato danneggiando il suo avversario.
Torniamo al caso di Trump. Negli ultimi mesi del 2015, Fusion GPS – diretta da un ex giornalista del Wall Street Journal, Glenn Simpson – cominciò ad accumulare materiale su Trump su richiesta di questo ricco finanziatore Repubblicano. A un certo punto però il finanziatore tagliò i fondi, dato che nel frattempo Trump aveva vinto le primarie del partito; siamo ormai nella primavera del 2016. Fusion GPS si limitò a cambiare cliente: da quel momento in avanti l’attività di ricerca e raccolta di informazioni venne finanziata da persone legate ai Democratici, che avevano l’interesse di danneggiare Trump in vista delle elezioni di novembre (nessuno dei nuovi finanziatori finora è stato identificato). A giugno venne fuori che hacker probabilmente legati al governo russo avevano violato alcuni database del Partito Democratico. Simpson decise quindi di indirizzare le sue indagini verso la Russia e assunse Christopher Steele, un ex agente dell’MI6, i servizi segreti britannici (la sua identità è stata confermata da diversi quotidiani internazionali).
Steele ha 52 anni e attualmente è a capo di una specie di agenzia investigativa privata con sede a Londra. Negli anni Novanta lavorò come agente in incognito a Mosca e più tardi fu uno dei massimi esperti che si occupavano di Russia nella sede centrale dell’MI6. Reuters aggiunge anche che Steele ha lavorato per conto dell’MI6 anche a Parigi, e che a un certo punto ha fatto parte dello staff del Foreign and Commonwealth Office, un’agenzia del governo britannico che si occupa di affari esteri. Steele ha lasciato l’intelligence britannica nel 2009, anno in cui fondò la sua agenzia privata. Il New York Times sottolinea che la sua reputazione nell’ambiente dell’intelligente americana e britannica era “eccellente”.
A causa del suo precedente lavoro sotto copertura, racconta il New York Times, Steele non poteva più entrare in Russia: per compilare il dossier per conto di Simpson assunse dei madrelingua russi per parlare direttamente con alcune fonti, e ricontattò alcune persone con cui aveva mantenuto legami nel paese (oltre che alcuni imprenditori russi che al momento vivono in Occidente). Secondo il Guardian, a luglio del 2016 Steele «aveva accumulato una notevole quantità di materiale sulla base delle fonti russe che nel corso degli anni avevano guadagnato la sua fiducia». Steele, stando alle ricostruzioni di Guardian e New York Times, si rese conto della gravità delle accuse contenute nel dossier e del fatto che fossero molto difficili da confermare, e decise allora di girarlo sia all’FBI sia all’MI6, probabilmente nella speranza che potessero corroborarle. Il documento, che è stato limato e arricchito da Steele fino a dicembre del 2016, conteneva già accuse molto pesanti, sintetizzate così dal New York Times.
Il dossier descriveva due diverse operazioni portate avanti dai russi. La prima era durata circa un anno e aveva come obiettivo influenzare Trump, forse a causa dei suoi contatti con alcuni oligarchi di cui Putin. Secondo il dossier redatto da Steele, i russi usarono una tattica nota: il “kompromat”, cioè tendere trappole come registrazioni dei presunti incontri di Trump con delle prostituite in un hotel di Mosca e finti accordi commerciali potenzialmente attraenti per lo stesso Trump. L’obiettivo non era rendere Trump un agente russo, ma renderlo una fonte che potesse fornire informazioni utili. […]
La seconda operazione era descritta come più recente: una serie di contatti con i rappresentanti di Trump durante la campagna elettorale, in parte per discutere della violazione dei sistemi informatici del Partito Democratico e della mail privata del capo della campagna di Clinton, John Podesta. Secondo le fonti di Steele, fra le altre cose l’operazione comprese un incontro avvenuto a Praga fra un avvocato di Trump, Michael Cohen, e Oleg Solodukhin, un funzionario russo che lavora per Rossotrudnichestvo, un’associazione che promuove gli interessi russi all’estero [viaggio smentito dallo stesso Cohen su Twitter].
Stando alla ricostruzione del Guardian, in autunno l’FBI chiese a Steele più informazioni ma decise di non aprire un’indagine formale. «L’agenzia sembrava ossessionata, invece, col materiale secretato che era passato per il server privato messo in piedi dai collaboratori di Hillary Clinton», aggiunge il Guardian. L’FBI però aveva comunque cercato di saperne di più: stando a quanto ricostruito dal Guardian in estate aveva chiesto di sorvegliare quattro membri dello staff di Trump alla FISC (Foreign Intelligence Surveillance Court), il tribunale che decide se consentire o meno di mettere sotto sorveglianza persone sospette di fare spionaggio per conto di paesi stranieri. La FISC però aveva negato la richiesta dell’FBI, rallentandone di fatto l’indagine.
A ottobre, durante un viaggio a New York, Steele si decise a raccontare la vicenda al giornalista David Corn, il capo dell’ufficio di Washington del sito di news Mother Jones, che la incluse in un articolo sui presunti rapporti fra Trump e la Russia (omettendo il nome di Steele). La storia non fu ripresa dai principali giornali, che però in qualche modo erano già venuti a sapere dell’esistenza del dossier (non è chiaro se per via di una fuga di notizie dall’FBI o dello stesso Steele). Kenneth Vogel, un giornalista dell’edizione americana di Politico, ha fatto sapere che il suo giornale ha cercato di verificare la bizzarra storia dell’incontro fra Trump e le prostitute già a settembre.
We chased Ritz-Carlton story in Sept. But we were skeptical about the golden showers bit, which seemed too icky for a germophobe like Trump.
— Kenneth P. Vogel (@kenvogel) January 10, 2017
Noah Shachtman, il direttore del sito di news Daily Beast, ha aggiunto che il dossier girava “da mesi” negli ambienti del giornalismo e della politica americani. Anche BuzzFeed e il New York Times hanno fatto sapere di aver provato a lungo a verificare le accuse principali contenuti nel documento, senza riuscirci.
2/ This document (and the info therein) has been floating in media & govt circles for MONTHS.
— Noah Shachtman (@NoahShachtman) January 11, 2017
Siamo arrivati più o meno a novembre del 2016: il documento era quasi certamente in mano a decine fra giornalisti e funzionari pubblici, che stavano provando diverse strade per verificarlo o corroborarlo. Uno in particolare fra questi tentativi ha accelerato e in qualche modo indirizzato gli sviluppi successivi della storia.
Il 18 novembre si è tenuto ad Halifax, in Canada, un importante raduno di analisti e funzionari della sicurezza provenienti da tutto il mondo, lo Halifax International Security Forum. Al Forum era presente anche John McCain, anziano e rispettato senatore Repubblicano, ex candidato alla presidenza nel 2008. A McCain fu presentato un ex funzionario di sicurezza che sosteneva di aver visto il dossier e di ritenere affidabile la persona che lo aveva messo insieme. McCain decise allora di saperne di più, e concordò un incontro fra un suo collaboratore – un ex funzionario governativo americano – e Steele stesso. In una scena da film sulla Guerra Fredda, i due si incontrarono in un aeroporto che il Guardian ha deciso di non rivelare: al collaboratore di McCain fu detto di cercare un uomo con una copia del Financial Times. Steele diede al collaboratore di McCain una copia del dossier. McCain, dopo qualche esitazione, consegnò il documento al capo dell’FBI James Comey in un incontro avvenuto il 9 dicembre, senza nessun collaboratore presente nella stanza.
L’incontro fra McCain e Comey ha provocato una reazione a catena: l’FBI ha deciso che c’erano prove sufficienti per includere l’esistenza del dossier in un rapporto consegnato sia a Obama sia a Trump, oltre che a diverse persone con incarichi importanti nell’amministrazione Obama e al Congresso. La decisione dell’FBI ha convinto CNN che il dossier fosse solido abbastanza per poterlo citare in un articolo, uscito martedì mattina; il pezzo di CNN ha praticamente dato il via libera a BuzzFeed per la pubblicazione integrale del documento, già presente nelle redazioni dei giornali. La pubblicazione da parte di BuzzFeed – che ha generato un esteso dibattito sulle relative implicazioni etiche, dato che nessuno era riuscito a verificare le informazioni contenute nel documento – ha garantito enorme visibilità al dossier, ripreso dai giornali di tutto il mondo.
I punti oscuri restano ancora molti: oltre alla veridicità dei contenuti del dossier, non è ancora chiaro chi abbia preso la decisione di includerlo nel rapporto dell’FBI, cosa che secondo il New York Times «ha praticamente reso certo» che venisse pubblicato dalla stampa. E non è chiaro se prima della pubblicazione il dossier sia stato modificato o arricchito da qualcuno diverso da Steele: lui ha detto al Wall Street Journal di non voler commentare la vicenda, e secondo il Telegraph è andato via di casa temendo di subire delle conseguenze dopo la diffusione della notizia.