65mila Rohingya sono scappati dal Myanmar
Per la dura repressione organizzata dall'esercito birmano: secondo le Nazioni Unite, solo nell'ultima settimana in 22mila hanno raggiunto il Bangladesh
Le Nazioni Unite hanno stimato che nelle ultime settimane almeno 65mila persone appartenenti alla minoranza etnica dei Rohingya abbiano lasciato il Myanmar (Birmania), trovando rifugio oltre il confine con il Bangladesh. La popolazione sta lasciando in massa lo Stato di Rakhine in seguito alla dura repressione avviata dall’esercito birmano nei suoi confronti, decisa in seguito ad alcuni attentati organizzati negli ultimi mesi da gruppi indipendentisti che chiedono maggiori autonomie per lo stato, che si trova nell’ovest del paese. La situazione dei Rohingya sta suscitando molte preoccupazioni nella comunità internazionale e ha portato a critiche nei confronti del ministro degli esteri Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, accusata di non essere intervenuta per fermare la repressione.
Le stime delle Nazioni Unite, basate su informazioni raccolte sul posto e nelle regioni del Bangladesh confinanti con lo Stato di Rakhine, dicono che solo nell’ultima settimana sono stati registrati 22mila nuovi arrivi di Rohingya, che hanno lasciato le loro città nel timore di subire vessazioni e violenze da parte dei soldati dell’esercito birmano. Molti di loro hanno raggiunto i campi di accoglienza organizzati nella parte meridionale del Bangladesh, dove si vive in condizioni precarie e tra numerose difficoltà dovute proprio al sovraffollamento.
I Rohingya sono una popolazione poverissima proveniente dal Bangladesh, ma che vive in Birmania da molte generazioni. Considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo, sono musulmani che vivono in un paese a maggioranza buddista, e sono poco meno di un milione in un paese da 50 milioni di abitanti. La maggior parte di loro vive nello Stato di Rakhine, che in passato era chiamato Arakan. Nel 1982, la giunta militare allora al potere li privò della cittadinanza birmana, accusandoli di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui la Birmania perse l’indipendenza e divenne una colonia britannica. I Rohingya sostengono invece di essere discendenti dei mercanti musulmani arrivati in Birmania via mare durante il medioevo. Senza la cittadinanza birmana, i Rohingya subiscono limitazioni nell’accesso all’istruzione – motivo per cui molti di loro hanno soltanto un’istruzione religiosa, a volte di tipo fondamentalista – alla sanità e al possesso di terreni. Non hanno nemmeno il diritto di voto, perciò non hanno potuto partecipare alle elezioni del 2015 in cui ha vinto la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito di Aung San Suu Kyi. La situazione dei Rohingya è peggiorata ulteriormente dal 2012, in seguito agli scontri violenti avvenuti nello stato di Rakhine con la maggioranza buddista.
I profughi in Bangladesh hanno fornito testimonianze sulle violenze subite da parte dell’esercito birmano che li ha spinti a lasciare il Myanmar. Alcuni hanno parlato di stupri di massa da parte dei militari, altri di numerosi episodi di uccisioni ingiustificate di civili, furti nelle loro abitazioni e dell’incendio di interi villaggi. Il governo ha respinto le accuse e ha organizzato una commissione per indagare meglio la situazione. La settimana scorsa ha diffuso un rapporto preliminare nel quale si dice di non avere trovato prove su “genocidio e persecuzioni religiose”, come sostenuto dai membri della comunità Rohingya.
Lunedì 9 gennaio, l’inviato per i diritti umani delle Nazioni Unite, Yanghee Lee, ha iniziato una visita lungo il confine tra Bangladesh e Stato di Rakhine nel Myanmar, che consentirà di raggiungere anche le aree messe sotto controllo da parte dell’esercito birmano. L’iniziativa dovrebbe consentire di avere valutazioni terze e indipendenti su quanto sta accadendo ai Rohingya, ma molti osservatori sono scettici sulla possibilità che Lee possa raggiungere liberamente le zone dove avvengono le repressioni. Lee aveva già visitato l’area in passato occupandosi dei Rohingya e aveva ricevuto dure critiche e minacce, proprio per avere criticato la repressione nei loro confronti. Come riporta il Guardian, il monaco buddista Ashin Wirathu, leader del movimento contro i musulmani in Myanmar, in passato aveva accusato Lee di essere “una troia nel nostro paese”, per avere criticato le leggi che di fatto discriminano da tempo le donne e le minoranze.