La difficile storia della Villa Savoye
Repubblica racconta la casa progettata da Le Corbusier: prima poco apprezzata dai proprietari, poi occupata dai nazisti e ora restaurata dopo una lunga rovina
Francesco Erbani ha recensito su Repubblica un libro di Susanna Caccia e Carlo Olmo edito da Donzelli, Villa Savoye: è una monografia dedicata all’edificio modernista costruito negli anni Trenta dall’architetto francese Le Corbusier – di nascita svizzera – a Poissy, in Francia. Nel libro, Caccia e Olmo raccontano le complicate vicende dell’edificio, nato come abitazione privata (di cui i proprietari lamentavano numerosi problemi: dalla scomodità alle infiltrazioni d’acqua), occupato dai nazisti, finito in rovina e infine faticosamente restaurato. Nell’estate del 2016 la Villa Savoye è stata inserita tra i patrimoni dell’UNESCO: da decenni è considerata un edificio simbolico, un manifesto dell’architettura modernista.
La Villa Savoye, poggiata su sottili colonnine, bianca nelle sue linee rette, le finestre a nastro, giace al centro di un quadrilatero verde, bordato da una vegetazione più fitta che la nasconde e che, insieme a un muro che corre lungo Rue de Villiers, la protegge dagli sguardi. Oltre gli alberi, c’è un campo sportivo, mentre un lato è chiuso da un imponente edificio scolastico che porta il nome di Le Corbusier. Che però non è il progettista della scuola, bensì proprio di Villa Savoye, costruita fra il 1928 e il 1931 per una famiglia di ricchi signori parigini che ambivano a una residenza di vacanza, non tanto distante dalla capitale. Siamo a pochi chilometri da un’ansa della Senna, a nord-ovest di Parigi, in un paesaggio che ora è sensibilmente diverso rispetto a novant’anni fa, quando non c’erano né la scuola né il grappolo di case addossate al muro di cinta della villa.
Una villa che, sebbene concepita per essere abitata e plasmata dallo stile di vita dei suoi proprietari, è il livre de chevet dell’architetto franco-svizzero, «curiosamente sempre aperto e più volte riscritto», annotano Susanna Caccia e Carlo Olmo in un saggio interamente dedicato a questo edificio ( La villa Savoye, Donzelli), il cui sottotitolo sintetizza le tribolazioni architettoniche e culturali da esso vissute nel corso della sua esistenza: «Icona, rovina, restauro». Caccia, docente di restauro, e Olmo, storico dell’architettura moderna (due competenze spesso in contrasto fra loro, ma qui all’unisono), definiscono il loro un procedimento da microstoria, alla Carlo Ginzburg, per intenderci, e raccontano come la villa, da appartamento borghese venga elevato ad icona, si materializzi quale «accademia invisibile della modernità», canone e simbolo primigenio del moderno in architettura e non solo.
Documentano, inoltre, dopo anni di lavoro in diversi archivi ed esibendo materiali anche inediti, come a questa operazione di innalzamento metaforico contribuisca lo stesso Le Corbusier, il quale gestisce, solerte imprenditore dell’immagine di sé, un complicato apparato comunicativo, costruendo una rappresentazione della villa sovrapposta alla propria autobiografia. Fino a consentire che, aiutato da una schiera di critici, storici, giornalisti e intellettuali, trapeli un confronto tra la villa stessa e la tradizione di Andrea Palladio.
La villa nasce su commissione ed è abitata appena pronta. Ma dai primi anni di vita si manifestano segni di degrado. I coniugi Savoye non fanno mancare lamentele: «Piove nell’atrio, piove nella rampa e il muro del garage è completamente bagnato», scrivono nel settembre del 1936, «inoltre piove ancora nella stanza da bagno, che resta inondata a ogni acquazzone». L’intonaco deve essere rifatto, il tetto-terrazza — elemento architettonico che, come i pilotis e le finestre a nastro, diventa canonico del moderno — va correttamente impermeabilizzato. Contemporaneamente Le Corbusier si preoccupa di far visitare la villa a critici e giornalisti e sembra poco interessato alle lagnanze di quelli che considera niente più che occupants (così li chiama in una lettera indirizzata A l’Occupant de la Maison…).