Aung San Suu Kyi sta consentendo una strage?
La ministra degli Esteri della Birmania non sta facendo molto per la minoranza rohingya, e il suo governo nega le accuse di persecuzioni e genocidio
In Birmania una commissione del governo ha detto che non ci sono prove che stia avvenendo un genocidio della minoranza etnica rohingya nello stato di Rakhine, nella parte occidentale del paese. Il rischio che la repressione nei confronti dei rohingya – che va avanti da molto anni, e di recente è ricominciata dopo che alcuni agenti di polizia birmani sono stati uccisi in un attentato – possa diventare un genocidio è stato segnalato tra gli altri da un gruppo di importanti politici e attivisti internazionali – tra cui alcuni premi Nobel, l’ex presidente del Consiglio italiano Romano Prodi e l’ex ministra degli Esteri Emma Bonino – che ha scritto una lettera aperta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere la fine della crisi umanitaria. Alcuni funzionari dell’ONU avevano accusato la Birmania di pulizia etnica per le operazioni militari contro i rohingya. L’organizzazione internazionale Human Rights Watch ha criticato la commissione, dicendo che ha indagato in modo fazioso: «È un classico esempio di indagine a tesi, con conclusioni già pronte per dire che la situazione non è così grave, per respingere le pressioni della comunità internazionale».
Il rapporto presentato dalla commissione governativa, composta da 13 membri e guidata dall’ex generale Myint Swe, dice che non si può parlare di genocidio, visto che ci sono ancora dei rohingya che vivono nel Rakhine e gli edifici religiosi musulmani (la religione dei rohingya è l’Islam) non sono stati distrutti. Il rapporto dice anche che non ci sono abbastanza prove a sostegno delle accuse di stupri commessi dai militari sulle donne rohingya e non parla delle accuse più gravi, cioè quelle secondo cui l’esercito avrebbe ucciso delle persone. Secondo la commissione negli ultimi tre mesi centinaia di rohingya sono stati arrestati, ma l’operazione militare non è finita perché l’esercito sta cercando di recuperare armi nascoste.
Un ulteriore rapporto governativo, definitivo, è atteso entro la fine di gennaio. La commissione sta ancora investigando sulle accuse di incendi dolosi, arresti arbitrari e torture. La lettera aperta al Consiglio di sicurezza dell’ONU criticava soprattutto la ministra degli Esteri birmana Aung San Suu Kyi, leader del partito al governo e a sua volta premio Nobel per la pace, per non essere ancora intervenuta per fermare la sanguinosa repressione.
Chi sono i rohingya
I rohingya sono una popolazione poverissima proveniente dal Bangladesh, ma che vive in Birmania da molte generazioni. Sono considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo: sono musulmani che vivono in un paese a maggioranza buddista, e sono poco meno di un milione in un paese da 50 milioni di abitanti. La maggior parte di loro vive nello stato di Rakhine, che in passato era chiamato Arakan. Nel 1982, la giunta militare allora al potere li privò della cittadinanza birmana, accusandoli di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui la Birmania perse l’indipendenza e divenne una colonia britannica. I rohingya sostengono invece di essere discendenti dei mercanti musulmani arrivati in Birmania via mare durante il medioevo. Senza la cittadinanza birmana, i rohingya sono considerati cittadini di serie B: hanno grosse limitazioni nell’accesso all’istruzione – motivo per cui molti di loro hanno soltanto un’istruzione religiosa, a volte di tipo fondamentalista – alla sanità e al possesso di terreni. Non hanno nemmeno il diritto di voto, perciò non hanno potuto partecipare alle elezioni del 2015 in cui ha vinto la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito di Aung San Suu Kyi.
La situazione dei rohingya è peggiorata ulteriormente dal 2012, in seguito agli scontri violenti avvenuti nello stato di Rakhine con la maggioranza buddista. Secondo l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), negli ultimi cinque anni 160mila rohingya hanno lasciato la Birmania per raggiungere altri paesi, principalmente il Bangladesh, la Malesia, la Thailandia e l’Indonesia.
Cosa sappiamo di quello che sta succedendo in Birmania
Lo scorso 9 ottobre in tre attacchi armati contro stazioni di polizia sul confine tra il Bangladesh e la Birmania, nei distretti di Maungdaw e Rathedaung, sono stati uccisi nove poliziotti birmani. Ci sono stati altri attacchi contro i militari birmani il 12 e il 13 novembre.
Secondo il governo gli attacchi sono stati compiuti da un’organizzazione chiamata Aqa Mul Mujahidin e legata al gruppo estremista Rohingya Solidarity Organization (RSO); secondo la maggior parte degli esperti internazionali, tra cui l’International Crisis Group, un’organizzazione non governativa che si occupa di conflitti, la RSO non esiste più e gli attacchi sono stati organizzati invece dal gruppo armato jihadista Harakah al Yaqin (che significa “Movimento della Fede dell’Arakan”). Il leader del gruppo è un uomo noto come Ata Ullah, nato in Pakistan da padre rohingya e cresciuto alla Mecca, in Arabia Saudita. Si pensa che i membri di al Yaqin siano un numero compreso tra 40 e 250, che abbiano addestrato un certo numero di rohingya negli ultimi due anni e che molte centinaia di rifugiati rohingya in Bangladesh siano tornati nel Rakhine per entrare nel gruppo negli ultimi mesi. A dirigere al Yaqin potrebbe essere un gruppo ristretto di rohingya che vivono alla Mecca.
Il fatto che alcuni rohingya si siano avvicinati all’estremismo islamico e abbiano messo in piedi un gruppo molto bene organizzato, con un addestramento serio e finanziamenti consistenti, è un pessimo segno. In passato la maggior parte dei rohingya riteneva che usare la violenza sarebbe stato controproducente: il peggioramento della loro situazione dal 2012 in poi ha cambiato le cose, e una serie di politiche sbagliate nei confronti della minoranza ha portato alle attuali violenze.
Dagli attacchi del 9 ottobre l’esercito birmano ha iniziato un’operazione di repressione contro i rohingya nel Rakhine, e sembra che centinaia di persone, tra cui molti bambini, siano state uccise dai militari. A giornalisti e organizzazioni umanitarie è stato proibito l’accesso nello stato, quindi è difficile avere un’idea precisa di quello che sta succedendo. Si parla di donne stuprate, case bruciate e moltissimi civili arbitrariamente arrestati. Il Bangladesh ha detto che circa 50mila rohingya hanno attraversato il confine con la Birmania negli ultimi due mesi per mettersi al sicuro: sono stati loro a raccontare degli abusi commessi dai soldati birmani. Secondo Human Rights Watch, che ha usato immagini satellitari per farsi un’idea di ciò che sta succedendo nel Rakhine, tra ottobre e novembre almeno 1.500 edifici sono stati distrutti nel distretto di Maungdaw, probabilmente incendiati durante operazioni militari, come hanno detto anche alcuni testimoni.
Inoltre negli scorsi giorni è stato diffuso un video, girato a novembre, che mostra alcuni agenti di polizia birmani che picchiano un gruppo di persone rohingya durante lo sgombero di un villaggio. Dopo la pubblicazione del video il governo ha fatto arrestare un gruppo di poliziotti e ha aperto un’indagine sull’accaduto: l’ammissione che potessero essere stati commessi degli abusi da parte della polizia è stata considerata un segnale positivo dagli osservatori internazionali, dato che in precedenza il governo birmano aveva sempre detto negato ogni accusa.
È giusto criticare Aung San Suu Kyi?
Prima che la Lega Nazionale per la Democrazia vincesse le elezioni, cioè quando c’era ancora al potere la giunta militare che ha governato la Birmania dal 1962 al 2015, Aung San Suu Kyi non si era mai espressa in favore dei rohingya: questo atteggiamento era stato considerato una strategia per non perdere i voti di chi aveva un’opinione negativa della minoranza musulmana. Ora però parte della comunità internazionale pensa che una persona che per anni ha lottato per il riconoscimento dei diritti civili del popolo birmano dovrebbe prendere le parti di una minoranza oppressa o almeno provarci, limitando l’autonomia che l’esercito conserva tuttora. Lo scorso maggio Suu Kyi ha chiesto all’ambasciatore degli Stati Uniti di non usare il termine “rohingya”, dato che si tratta di una minoranza non riconosciuta e nominarla può essere dannoso per il processo di riconciliazione nazionale in atto da quando ci sono state le elezioni democratiche del 2015. Da ottobre Suu Kyi non si è mai recata nel Rakhine.
L’unica azione potenzialmente in favore dei rohingya che Aung San Suu Kyi ha organizzato è stato far istituire una commissione indipendente dal governo, guidata dall’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan, che dovrebbe dare un secondo parere su quanto sta avvenendo nel Rakhine entro il 2017. Secondo l’International Crisis Group il governo birmano dovrebbe mettere fine alla repressione militare sui rohingya per evitare un’ulteriore radicalizzazione della popolazione musulmana e una crescita del sostegno ad al Yaqin, che potrebbe portare nuove violenze e aumentare la tensione tra i diversi gruppi religiosi.