Obama sta esagerando?
Lo hanno sostenuto in molti in questi giorni, parlando delle sue ultime decisioni su Israele, sulla Russia e sull'ambiente: ma non è così
Negli ultimi giorni il presidente uscente degli Stati Uniti, Barack Obama, è stato accusato da più parti di prendere decisioni irragionevoli e aggressive, per togliersi molti dei “sassolini” accumulati nei suoi otto anni di presidenza, che termineranno il 20 gennaio con l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump. Un’impressione piuttosto diffusa è che Obama stia forzando la mano, agendo senza pensare alle conseguenze delle sue azioni o solo per fare un dispetto ai suoi avversari interni e internazionali. Si parla soprattutto di tre cose: i rapporti con Israele, precipitati dopo l’astensione americana sulla risoluzione ONU contro gli insediamenti israeliani; i rapporti con la Russia, per la decisione di espellere 35 diplomatici russi come ritorsione agli attacchi informatici subiti dagli Stati Uniti durante le elezioni presidenziali; e l’ambiente, dopo l’adozione di due importanti decisioni, una sulle trivellazioni nell’Artico e nell’Atlantico e una sulla creazione di due aree naturali protette, nello Utah e nel Nevada.
Analizzandone il contesto, però, nessuna di queste mosse appare un colpo di testa di un presidente che vuole lasciare l’incarico facendo parlare il più possibile di sé. Le tre decisioni per cui Obama è stato criticato arrivano da lontano e sono coerenti se inserite nella storia della sua amministrazione, al di là del fatto che si condividano o meno.
La risoluzione ONU contro gli insediamenti israeliani
Il 24 dicembre il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione che chiedeva al governo di Israele di “interrompere ogni attività” nei propri insediamenti nei cosiddetti “territori occupati” palestinesi e a Gerusalemme est, definendo l’occupazione “senza validità legale” e rischiosa per il processo di pace. La risoluzione è passata con 14 voti a favore su 15, grazie alla decisione degli Stati Uniti di astenersi: se avessero votato no, a causa del potere di veto sarebbe stata bocciata. La mossa degli americani è stata giudicata molto insolita, vista l’alleanza e il tradizionale sostegno degli Stati Uniti per Israele: qualcuno l’ha giudicata “storica”, qualcun altro ha parlato di “tradimento”. Il governo israeliano ha reagito convocando gli ambasciatori stranieri in Israele e la situazione è peggiorata il 28 dicembre, quando il segretario di stato americano John Kerry ha fatto un discorso molto duro e critico con Israele, tirando anche in ballo questioni su cui gli alleati degli israeliani girano da sempre al largo, come i diritti dei profughi palestinesi. La risoluzione non avrà conseguenze pratiche, non costringe Israele a fare qualcosa: ha però un valore simbolico significativo, soprattutto per l’astensione americana.
Vista così, sembra che l’amministrazione Obama abbia perso la testa e abbia scelto di scontrarsi frontalmente con Israele, uno dei pochi alleati che sono rimasti agli Stati Uniti in Medio Oriente. Le cose però sono diverse. Negli ultimi anni Obama ha litigato diverse volte con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Per esempio negli ultimi mesi del 2014 alcuni funzionari del dipartimento di Stato avevano criticato Netanyahu per non voler fare accordi né con l’Iran né con i palestinesi e – secondo alcune ricostruzioni giornalistiche – l’avevano definito “autistico” e “cacasotto”. Nel marzo 2015 Netanyahu aveva parlato al Congresso americano su invito dei Repubblicani e durante il discorso aveva criticato l’amministrazione Obama: non proprio la cosa più normale del mondo. Poi c’era stato l’accordo sul nucleare iraniano, appoggiato dagli americani e osteggiato dagli israeliani, che aveva peggiorato ulteriormente i rapporti tra i due governi.
Insomma, l’astensione al Consiglio di sicurezza arriva da lontano. È in parte spiegabile con i pessimi rapporti tra Obama e Netanyahu e con un’amministrazione americana molto ostile alla politica degli insediamenti. Perché proprio ora il voto contrario? Probabilmente per dare un segnale a Israele, adesso che è meno rischioso farlo visto che mancano tre settimane alla fine del mandato presidenziale; forse perché Obama, così come Kerry, vuole lasciare una sua eredità politica anche per quanto riguarda la questione palestinese, che è sempre stata importante per la politica estera americana; forse anche per distanziarsi da Donald Trump, che ha già mostrato di avere posizioni molto più filo-israeliane di quelle dell’amministrazione uscente.
not anymore. The beginning of the end was the horrible Iran deal, and now this (U.N.)! Stay strong Israel, January 20th is fast approaching!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) December 28, 2016
L’espulsione di 35 diplomatici russi dagli Stati Uniti
Venerdì il governo statunitense ha annunciato di aver imposto sanzioni contro la Russia e ordinato l’espulsione di 35 diplomatici sospettati di essere agenti dell’intelligence russa, in risposta a quelle che considera attività svolte per influenzare il risultato delle elezioni presidenziali dello scorso novembre. Tra gli altri, le sanzioni riguardano quattro funzionari del GRU, il potente servizio segreto militare russo che secondo le agenzie di intelligence statunitensi ha disposto gli attacchi informatici contro il Partito Democratico e altre organizzazioni politiche. La decisione ha pochi precedenti nella storia recente delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Russia: è stata definita da alcuni tardiva e male organizzata, mentre altri hanno parlato dell’inizio di una “nuova Guerra fredda” e di un rischio di escalation tra i due paesi. Obama è stato accusato di avere preso misure eccessive e sproporzionate, e allo stesso tempo che non serviranno a niente perché Trump potrà annullarle tra venti giorni.
Di nuovo, però, bisogna tenere a mente che i rapporti tra governo americano e governo russo sono peggiorati sensibilmente negli ultimi anni. Non si sta parlando solo di una diffidenza reciproca e antipatia personale tra Putin e Obama, che probabilmente esiste. Gli interessi statunitensi e russi sono entrati in conflitto prima in Crimea e Ucraina orientale, e poi in Siria. Per l’invasione russa in Crimea e il sostegno ai ribelli filo-russi in Ucraina orientale, il governo americano aveva imposto sanzioni economiche e finanziarie piuttosto dure contro la Russia. Le sanzioni avevano riguardato anche alcune persone considerate molto vicine a Putin, nonostante l’Ucraina non si potesse considerare un tema vitale per la sicurezza nazionale statunitense. Ora il governo americano sostiene che la Russia abbia organizzato e compiuto attacchi informatici contro il Partito Democratico, che abbia facilitato la diffusione dei documenti sottratti e che abbia vessato per anni i diplomatici statunitensi che lavorano in Russia: tutte questioni che invece riguardano la sicurezza nazionale. Vista così, è difficile dire che la reazione di Obama sia stata sproporzionata rispetto all’offesa.
Barack Obama e Vladimir Putin non propriamente a loro agio durante il G8 in Irlanda del Nord, il 17 giugno 2013 (JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)
C’è poi da fare un’altra considerazione. Donald Trump ha già mostrato di essere molto più vicino a Putin dell’amministrazione uscente. Obama potrebbe anche essersi preso un rischio calcolato: avere deciso per una ritorsione rilevante sapendo che non ci sarebbe stato nessuno scontro frontale. E così è stato: venerdì Putin ha rifiutato la proposta del suo ministero degli Esteri di espellere 35 diplomatici americani: perché farlo, se tra tre settimane arriva Trump? È il senso di quello che ha detto Putin. Trump potrebbe rimangiarsi le sanzioni, ovviamente, ma politicamente non sarà semplice: i Repubblicani al Congresso non sono entusiasti della sua linea filo-Putin, e in generale una cosa è non emettere nuove sanzioni e un’altra è ritirare quelle che esistono già. Per uno come Trump, le sanzioni di Obama potrebbero diventare uno strumento di trattativa con la Russia: e nel frattempo resterebbero in vigore.
Le ultime mosse sull’ambiente
Il 21 dicembre Barack Obama ha vietato a tempo indeterminato nuove trivellazioni per la ricerca di gas naturale e petrolio in alcune aree dell’Artico e dell’Oceano Atlantico. La decisione, che è stata presa insieme al primo ministro canadese Justin Trudeau, è arrivata alla fine di un lavoro preparatorio durato dieci mesi. Una settimana dopo, il 28 dicembre, Obama ha annunciato la creazione di due nuove grandi aree protette, nello Utah sud-occidentale e in Nevada, usando il potere che gli attribuisce una legge del 1906: in queste nuove aree, che vengono considerate molto importanti per i popoli nativi che le abitano, non sarà possibile aprire nuove miniere e quelle già esistenti dovranno probabilmente rispettare nuovi standard ambientali più alti.
Obama è stato criticato per entrambe le decisioni, che sono state considerate soprattutto dai Repubblicani come una forzatura. Nel primo caso Obama è stato criticato per avere approvato il divieto delle trivellazioni usando quella che i giornali americani hanno chiamato una “oscura” sezione di una legge del 1953, che di fatto rende il provvedimento non revocabile con una semplice firma di un altro presidente. Nel secondo caso Obama è stato accusato di non avere tenuto in considerazione le esigenze delle popolazioni più povere delle zone dichiarate protette, che con il suo provvedimento non potranno beneficiare di alcuni vantaggi legati allo sfruttamento delle risorse naturali.
Le decisioni di Obama, comunque, non sono state né improvvise né così sorprendenti. Da tempo diversi commentatori, tra cui il Washington Post, hanno definito la politica ambientale di Obama una delle più ambiziose della storia americana. Negli ultimi anni Obama ha concluso accordi molto importanti: ha ratificato insieme alla Cina l’accordo sul clima che era stato firmato a Parigi da 195 paesi; ha messo il veto sulla legge approvata dal Congresso e riguardante la controversa costruzione di Keystone XL, un oleodotto per trasportare il petrolio estratto nell’Alberta, in Canada, fino alle raffinerie statunitensi nel Nebraska; e ha promosso incentivi e politiche a favore dell’energia solare. Tutto questo avendo il Congresso contro. Il divieto delle trivellazioni in alcune aree dell’Artico e dell’Oceano Atlantico era un progetto a cui l’amministrazione lavorava da tempo, e la creazione di due aree protette non è stata certo una decisione senza precedenti: nel corso dei suoi due mandati presidenziali, Obama ne aveva già istituite 27.
Quindi?
Al di là del merito, con cui si può concordare o no, i tre casi aiutano a ridimensionare i commenti sui presunti eccessi dell’ultimo mese di presidenza Obama. È possibile che Obama abbia forzato un po’ la mano su questioni per le quali in altri momenti avrebbe usato più prudenza, come l’astensione sulla risoluzione ONU contro gli insediamenti israeliani. È possibile che abbia sfruttato la fine del suo mandato per fare mosse rischiose ma calcolate, come l’espulsione dei diplomatici russi dal territorio statunitense. Ed è anche possibile che abbia cercato di usare strumenti particolari per evitare che i suoi provvedimenti venissero cancellati il primo giorno di presidenza Trump, come l’uso di una legge del 1953 per vietare le trivellazioni. Ma rimane che tutte queste decisioni sono inquadrabili con coerenza nella storia degli otto anni di presidenza Obama.