Perché i terroristi si lasciano dietro i documenti?
Era già successo dopo gli attentati a Parigi e Nizza, ora se ne riparla dopo Berlino: la risposta potrebbe essere piuttosto semplice
Il principale sospettato per l’attentato di Berlino, compiuto lunedì e rivendicato dallo Stato Islamico (o ISIS), si chiama Anis Amri ed è un cittadino tunisino di 24 anni. La polizia lo sta cercando perché un suo documento d’identità è stato trovato a bordo del camion usato per investire la folla in un mercatino di Natale nel centro città, attentato nel quale sono state uccise 12 persone. Le autorità tedesche hanno specificato di non avere ancora la sicurezza che Amri sia il responsabile dell’attacco, ma per ora sembra che sia l’unico ricercato. Il ritrovamento del documento ha generato diverse discussioni e ipotesi, anche perché non è la prima volta che un documento di riconoscimento viene trovato su un mezzo usato per compiere un attentato terroristico. Era già successo dopo gli attacchi a Parigi del gennaio e del novembre 2015, e anche dopo quello di Nizza del 14 luglio 2016. Perché i terroristi vogliono far trovare i loro documenti, rendendosi più rapidamente identificabili dalle autorità?
Non c’è una risposta certa a questa domanda – se uno vuole restare nel campo dei fatti e del buon senso, e non spostarsi in quello delle teorie complottiste – ma si possono dire alcune cose. Da una parte, lasciare il documento è un gesto comprensibile quanto la successiva rivendicazione: chi ha compiuto l’attacco vuole che si sappia che è stato lui a farlo. Non sembra però che lasciare i documenti sul posto di un attentato sia una richiesta diretta delle organizzazioni terroristiche dietro gli attacchi o che li hanno ispirati, quanto piuttosto il risultato dell’iniziativa personale degli attentatori. Non si può nemmeno identificare questa pratica con un solo gruppo terroristico, visto che è successo sia negli attentati compiuti da al Qaida che in quelli rivendicati dallo Stato Islamico. Sembra quindi essere una specie di “firma” di chi compie gli attacchi: una forma di rivendicazione più personale.
Why would a jihadist who expressly rejects all notions of modern citizenship take his passport on a suicide mission?
So it gets found.
— Charlie Winter (@charliewinter) November 15, 2015
Dopo l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015, rivendicato da al Qaida in Yemen, gli investigatori trovarono la carta d’identità di uno dei due attentatori, Saïd Kouachi, sull’auto usata per arrivare alla sede del giornale. Una cosa simile successe dopo gli attacchi terroristici di Parigi il 13 novembre dello stesso anno, rivendicati dallo Stato Islamico. Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto tra gli attentatori di Parigi, raccontò ai suoi amici che lo stavano aiutando a scappare di avere lasciato il documento d’identità del fratello Ibrahim, anche lui coinvolto negli attentati, in una delle macchine usate per l’attacco. Lo aveva fatto per imitare il gesto degli attentatori di Charlie Hebdo, cosicché suo fratello «sarebbe diventato noto in tutto il mondo». Anche l’attentatore di Nizza lasciò un suo documento di riconoscimento sul camion con il quale investì la folla sul lungomare della città, il 14 luglio.
Non è chiaro se oltre all’emulazione e a una sorta di rivendicazione diretta dell’attacco ci siano altri motivi politici. Uno dei casi del genere di cui si parlò di più fu quello di uno degli attentatori di Parigi che si fece esplodere di fronte allo Stade de France. Vicino al suo corpo fu trovato un passaporto intestato a Ahmad al Mohammad, identificato come un uomo di 25 anni proveniente dalla città siriana di Idlib. Le impronte digitali dell’uomo corrispondevano a quelle che erano state registrate il 3 ottobre precedente dalle autorità di frontiera greche nell’isola di Lero, prese da un uomo che era arrivato lì insieme a molti altri migranti. Poi però si scoprì che probabilmente il passaporto era falso: il giornale serbo Bilic scrisse che un passaporto con lo stesso nome e le stesse date, ma con una foto diversa, era stato trovato in possesso di un altro migrante, e si concluse che probabilmente entrambi avevano comprato un documento falso dallo stesso trafficante. Alcuni osservatori sostennero che il passaporto abbandonato di fronte allo Stade de France rispondeva a una precisa strategia dello Stato Islamico allo scopo di creare confusione e tensione tra migranti musulmani e governi europei; una strategia che sembra azzardata e che sembra avere risvolti troppo complicati e imprevedibili per potere essere stata pianificata a tavolino.
Il fatto che non ci sia una risposta definitiva e certa a questa storia dei passaporti abbandonati dai terroristi alimenta da anni diverse teorie complottiste. Come ha raccontato il quotidiano belga Le Soir, se ne cominciò a parlare dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, quando tra le macerie degli edifici fu trovato il passaporto intatto di uno dei dirottatori dei due aerei. Il “mistero del passaporto” alimentò molte delle teorie complottiste dell’epoca, che sostenevano che il documento fosse stato messo lì dalla CIA per nascondere il coinvolgimento nell’attacco del governo americano. Queste idee – considerate per lo più deliranti – sono arrivate fino a oggi, ha scritto Le Soir, e spiegano il motivo per cui si continuano a ricamare teorie del complotto anche attorno agli attentati più recenti in Europa.