Ve la ricordate la casa di Montecarlo?
Si riparla della storia che nel 2010 agitò la politica italiana, per un'indagine su un presunto enorme giro di soldi riciclati
Martedì 13 dicembre la polizia olandese ha arrestato a Sint Marteen, un’isola dei Paesi Bassi nei Caraibi, l’imprenditore catanese Francesco Corallo, soprannominato dai giornali “il re delle slot machine”, che si è arricchito grazie a una concessione statale ottenuta nel 2004 per installare in Italia decine di migliaia di slot machine. La procura di Roma accusa Corallo di essere il capo di un’organizzazione criminale che ha riciclato denaro per oltre 250 milioni di euro, provenienti da tasse sui profitti delle slot machine non pagate allo Stato. Insieme a Corallo la procura di Roma ha indagato altre persone, tra le quali, scrivono i giornali, ci sono anche l’ex deputato del Popolo della Libertà Amedeo Laboccetta e Sergio e Giancarlo Tulliani, rispettivamente suocero e cognato di Gianfranco Fini, più volte ministro ed ex capo di Alleanza Nazionale. L’indagine su Corallo riguarda un presunto giro di affari illegali molto vasto e anche, in una sua piccola parte, la vecchia storia della “casa di Montecarlo”, uno scandalo politico che agitò moltissimo la politica italiana nell’estate del 2010, e che contribuì alla fine della carriera politica di Fini.
Un ripasso su una storia che sembra preistorica
La storia dell’appartamento a Montecarlo cominciò nel luglio del 2010, quando il Giornale pubblicò la prima puntata di un’inchiesta in cui raccontava la storia di un appartamento di circa 70 metri quadri in Boulevard Princesse Charlotte 14 a Montecarlo, nel principato di Monaco: faceva parte della grande eredità di una contessa, Anna Maria Colleoni, che alla sua morte (il 12 giugno del 1999, a 65 anni) lasciò tutti i suoi averi ad Alleanza Nazionale. Il Giornale scrisse che, dopo alcuni anni in cui l’appartamento era rimasto abbandonato, una misteriosa società off shore lo aveva comprato da AN e lo aveva ristrutturato. Nell’appartamento, diceva il Giornale, abitava dal 2008 Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, compagna di Gianfranco Fini.
L’accusa a Fini, emersa con chiarezza dalle puntate successive dell’inchiesta, era aver utilizzato un sistema di società con sede in paradisi fiscali per “nascondere” il vero compratore della casa di Montecarlo – cioè lui o una persona a lui amica – per poi farla abitare dal cognato, sottraendola al partito. Inoltre il prezzo a cui l’immobile era stato venduto, 300 mila euro, sarebbe stato molto inferiore al reale valore di mercato della casa, per la quale si sarebbero fatti avanti compratori con offerte superiori al milione di euro. Mentre la storia montava e cominciava a occuparsene tutta l’informazione italiana, il 5 agosto 2010 la procura di Roma aprì un’indagine sulla casa di Montecarlo con le ipotesi di reato di appropriazione indebita e truffa aggravata. Poi la storia si complicò e si ingarbugliò ai paralleli dissensi tra Fini e Silvio Berlusconi, che portarono alla rottura tra i due storici alleati della destra italiana.
La società che aveva comprato per 300 mila euro la casa da AN nel luglio del 2008 si chiamava Printemps, che la vendette nell’ottobre dello stesso anno a un’altra società off shore, Timara Limited, per 330mila euro. Dopo la separazione tra Fini e Berlusconi, emerse un documento ufficiale del piccolo paese caraibico di Santa Lucia con cui si provava che la casa di Montecarlo era di proprietà di Giancarlo Tulliani, in quanto titolare delle due società off shore. L’indagine aperta dalla procura di Roma venne però archiviata, perché venne stabilito che Alleanza Nazionale poteva vendere l’appartamento a chi voleva e alla cifra che voleva (nonostante venisse riconosciuta la vendita a un prezzo molto inferiore a quello di mercato).
Cosa c’è nella nuova indagine
Come ha spiegato l’Espresso, il reparto antimafia della Guardia di Finanza ha coordinato le indagini internazionali su Corallo: ha potuto perquisire la sede delle attività dell’imprenditore a Sint Marteen, trovando tra le altre cose nuove informazioni sulla storia della casa di Montecarlo. Secondo le accuse della procura, a pagare il prezzo dell’appartamento fu una società off shore di Corallo: Giancarlo Tulliani, cognato di Fini, l’avrebbe quindi ricevuta senza pagare niente. La stessa off shore di Corallo avrebbe poi rivenduto la casa per 1 milione e 360 mila euro, finiti alle società off shore di Tulliani: questi soldi, spiega l’Espresso, sarebbero poi stati depositati su altri conti esteri intestati anche a Sergio Tulliani, padre di Giancarlo. Secondo le indagini, quella della casa di Montecarlo non fu l’unica operazione con cui Tulliani, attraverso le sue off shore, avrebbe ricevuto soldi da Corallo.
I soldi messi a disposizione dalle off shore di Corallo a quelle di Tulliani, sempre secondo l’accusa, sarebbero una piccola parte di quelli che Corallo avrebbe evaso al fisco italiano – e questo è il vero caso dell’indagine – riciclandoli attraverso le sue società off shore: si parla di circa 250 milioni di euro in oltre dieci anni, che sarebbero passati da conti italiani a conti esteri sotto la gestione di due persone di fiducia di Corallo, Laboccetta e Rudolf Baetsen, che sono stati arrestati martedì. Il ruolo di Sergio e Giancarlo Tulliani, secondo l’accusa, sarebbe stato aiutare Corallo attraverso i propri conti bancari a fare uscire dall’Italia circa 4 milioni di euro, nascondendone la provenienza grazie al giro nelle proprie società off shore. L’appartamento a Montecarlo sarebbe stato comprato proprio con una parte di questi soldi evasi al fisco italiano e riciclati ai Caraibi.
Le cifre riportate dai giornali sulle varie transazioni sono un po’ confuse, ma sia Repubblica sia il Corriere della Sera parlano di 2,4 milioni di euro depositati da Corallo su un conto belga intestato a Sergio Tulliani, per una consulenza che secondo l’accusa era finta. Nella relazione del gip si dice che il versamento contiene nella sua causale un preciso riferimento al decreto legge 78/2009, emanato dal governo Berlusconi quando Fini era presidente della Camera, che permetteva, spiega Repubblica, «di utilizzare l’autorizzazione ai videoterminali come garanzia per ottenerne di nuove o di cedere a terzi anche solo la stessa autorizzazione», e «aveva spalancato a Corallo le porte del grande business».