Assad sta vincendo la guerra?
Un anno fa il presidente siriano era dato per spacciato, oggi la situazione sembra essersi ribaltata: ma ci sono ancora molte incognite ed è complicato fare previsioni
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
Tredici mesi e mezzo fa il presidente siriano Bashar al Assad era dato quasi per spacciato. Il suo regime non solo aveva perso il controllo di quasi tutta la Siria centro-orientale, spartita tra curdi, gruppi arabi sunniti e Stato Islamico, ma rischiava anche di arretrare pericolosamente in alcuni quartieri di Damasco e nella fascia costiera occidentale, dove fino a quel momento il suo potere aveva resistito. Tredici mesi e mezzo fa si parlava di cosa fare della Siria nel dopo-Assad, che di certo sarebbe arrivato presto. Poi le cose sono andate in tutt’altro modo. La Russia è intervenuta in suo aiuto e il cambiamento è stato decisivo e rapido. Il regime siriano è sopravvissuto e contro molte previsioni si è anche rafforzato, tanto che oggi la domanda che ci si fa è diventata: Assad sta vincendo la guerra?
È un pensiero forse azzardato ed eccessivo, perché finora la guerra in Siria si è sviluppata su alleanze molto fluide e i cui esiti si sono mostrati poco prevedibili. Ma è anche una ipotesi che si è rafforzata con l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, che da quanto si è capito adotterà una politica molto più conciliante verso la Russia e il governo siriano di quanto non abbia mai fatto l’amministrazione di Barack Obama.
Una mappa della situazione in Siria: Assad e i suoi alleati sono in rosso, lo Stato Islamico in grigio scuro, i curdi in giallo, i ribelli in verde più chiaro e i ribelli appoggiati dalla Turchia in verde più scuro (Syrian Civil War Map)
Insomma: Assad sembra averla scampata, almeno per ora, ma in mezzo sono successe molte cose che è utile ricostruire. Recentemente, per esempio, diversi giornalisti e analisti statunitensi e britannici hanno ricevuto dal governo siriano un invito inusuale, che includeva una visita a Damasco (cosa rara, di questi tempi) e un’intervista collettiva ad Assad (cosa ancora più rara). L’incontro, ha raccontato il rispettato giornalista del New Yorker Dexter Filkins, è iniziato così:
«Alto e snello, vestito con un abito blu e una cravatta, Assad ci ha salutati uno per uno con un sorriso e una stretta di mano. La sua casa – una grande e ricercata struttura costruita nell’ultimo periodo dell’Impero ottomano – si trova dentro a una zona sicura, dietro a un labirinto di checkpoint e muri che la proteggono dalle esplosioni. Assad, che parla inglese dai tempi dei suoi studi di medicina in Inghilterra, sembrava desideroso di iniziare. “Sarò molto trasparente e parlerò di tutto”, ha detto.»
Assad ha risposto davvero a tutte le domande che gli sono state fatte, ma a modo suo e raccontando una realtà che esiste praticamente solo sugli organi di informazione controllati dal regime. Per esempio, ha negato di avere adottato l’assedio come tattica per affamare la popolazione di città e quartieri controllati dai ribelli, così come di avere incarcerato senza processo di migliaia di persone, tra cui molti oppositori e blogger: «Non è una storia realistica», ha detto ridacchiando. Certo, nessuno si aspettava che Assad ammettesse di avere commesso crimini di guerra o di essere stato responsabile di torture e altre pratiche inumane. Probabilmente, in ogni caso, la cosa più significativa è stata l’intervista in sé, arrivata al termine di due giorni di conferenze organizzati a Damasco a beneficio anche dell’opinione pubblica americana ed europea, visto che erano più di due anni che alcuni dei giornalisti presenti non ottenevano il visto per entrare in Siria. Assad si è mostrato calmo e a suo agio, in una situazione molto diversa da quella a cui si era abituati fino allo scorso anno, quando le sue apparizioni pubbliche erano veloci e sporadiche.
In breve, per il regime siriano nell’ultimo anno sono cambiate due cose. La più importante è che Assad ha appaltato buona parte della guerra a forze militari straniere, il cui contributo spesso è stato sottovalutato. Sono intervenuti i russi, ma è cresciuta molto anche l’influenza degli iraniani e di Hezbollah, il gruppo libanese sciita che ha fatto dell’alleanza con il regime siriano e con l’Iran una delle sue caratteristiche distintive. I successi militari che ne sono seguiti, uniti alla forte copertura politica fornita dalla Russia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, hanno garantito ad Assad la sopravvivenza proprio nel momento in cui sembrava che il suo tempo fosse finito. Oggi il regime controlla stabilmente la maggior parte dei territori in suo possesso, compresa Damasco, e il culto della personalità di Assad è ancora molto forte, come ha spiegato Sam Heller su Foreign Policy. Molte cose comunque sono cambiate rispetto al passato. La guerra ha condizionato la vita delle persone, anche a causa delle sanzioni imposte al regime dai governi occidentali. Molte famiglie hanno perso qualcuno a causa dei bombardamenti dei ribelli, i bambini hanno imparato a riconoscere il rumore dei colpi di artiglieria e fare due o tre lavori è diventata una cosa abituale tra i cittadini siriani. Lo Sheraton Damascus Hotel, uno dei più esclusivi della capitale, ha continuato ad ospitare feste di matrimoni e oziosi pomeriggi in piscina, anche se quelli in grado di permetterseli sono molti meno rispetto a un tempo, ha raccontato la giornalista del New York Times Anne Bernard.
«I dipendenti pubblici, i cui stipendi hanno subìto gli effetti dell’inflazione e del crollo del valore della moneta, sono scivolati dalla classe media alla povertà. Molti giovani sono stati costretti a rinviare i matrimoni che non possono più permettersi. E con gli uomini inseriti nell’esercito e nelle milizie – o in esilio per evitare il reclutamento – c’è carenza di sposi.
Il centro di Damasco è indaffarato e vivo, con le persone che si muovono con i loro furgoni o salgono sugli autobus per andare al lavoro, come in qualsiasi altra città. Ma il traffico intenso è in parte il risultato dei controlli ai checkpoint, che sono proliferati in giro per la città. Non ci hanno permesso di fotografare i checkpoint durante il nostro soggiorno in Siria durato 12 giorni, ma sono onnipresenti.»
Tazze con sopra le facce del presidente siriano Bashar al Assad, del presidente russo Vladimir Putin e del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, in un negozio di souvenir di Damasco, il 16 aprile 2016 (AP Photo/Hassan Ammar)
Il secondo cambiamento che si è percepito molto nell’ultimo anno – ma che per la verità era iniziato da tempo – riguarda il modo in cui il regime di Assad viene visto dall’Occidente. Gli intensi e indiscriminati bombardamenti contro la popolazione civile e l’assedio di intere città siriane sono stati percepiti pian piano come meno gravi rispetto alle violenze compiute dallo Stato Islamico. Le ragioni sono diverse: lo Stato Islamico ha usato la brutalità come strumento di reclutamento dei cosiddetti foreign fighters (i combattenti stranieri), mentre il regime di Assad ha cercato di nascondere le atrocità contro i civili; lo Stato Islamico ha ucciso centinaia di persone in Europa, mentre Assad ha continuato a presentarsi come un freno nei confronti del terrorismo, nonostante diversi studi e inchieste giornalistiche abbiano dimostrato il contrario. Assad ha cercato anche di delegittimare tutta la categoria dei ribelli, accusandola di avere accettato al suo interno gruppi estremisti e jihadisti, come Jabhat Fatah al Sham, che fino a qualche mese fa era conosciuta con il nome di Jabhat al Nusra, ovvero la divisione di al Qaida in Siria (accusa vera, anche se la questione è un po’ più complicata di così).
Finora, poi, l’amministrazione Obama si è data come priorità la sconfitta dello Stato Islamico, mentre ha preferito defilarsi quasi del tutto dalla guerra contro Assad. Non significa però che abbia cominciato a sostenere Assad. Gli Stati Uniti hanno cercato dei modi di collaborare con la Russia sia per colpire con maggiore efficacia lo Stato Islamico sia per negoziare delle tregue che permettessero l’arrivo degli aiuti umanitari alle popolazioni civili assediate dalle forze del regime e dai loro alleati. Il problema è che il piano non è stato molto efficace. L’ultima tregua è fallita su tutti i fronti, Stati Uniti e Russia hanno litigato e ci sono stati momenti di grande tensione. In alcuni ambienti ha cominciato così a farsi strada l’idea che l’unica soluzione rimasta per risolvere la crisi in Siria fosse quella di sconfiggere lo Stato Islamico prendendo apertamente le parti dei russi e del regime di Assad. L’idea principale di Trump sembrerebbe quella di ridurre i fronti di guerra e di rafforzare quello anti-ISIS, almeno per quanto se n’è capito finora (ma quando c’è di mezzo Trump, come ormai si sa, le cose vanno prese con le molle). Questa strategia, che recentemente ha ottenuto sempre più consensi, non sta però molto in piedi. Prima di tutto perché la priorità di Assad e della Russia non è sconfiggere lo Stato Islamico, ma i ribelli: ci sono dubbi quindi sui possibili successi di un’alleanza simile. In secondo luogo, vincere la guerra contro lo Stato Islamico senza preoccuparsi di nient’altro è piuttosto inutile nel lungo periodo: come ha spiegato Liz Sly del Washington Post, potrebbero cominciare almeno altre dieci guerre in Siria e in Iraq.
Per ricapitolare: le fortune per Assad sono cominciate con l’intervento russo a fianco del regime, nel settembre 2015, che ha cambiato l’andamento della guerra. Gli attentati terroristici in Europa e negli Stati Uniti, diretti o solo ispirati dallo Stato Islamico, hanno fatto sì che l’attenzione dell’Occidente si rivolgesse soprattutto verso il gruppo terroristico. Per molti oggi Assad è il-meno-peggio e il prezzo-da-pagare per sconfiggere lo Stato Islamico. Idea fuorviante, come si è visto.
Un membro delle forze che combattono con Assad nella città siriana di Salma, nella provincia occidentale di Latakia, dopo avere sconfitto i ribelli nel gennaio 2016 (YOUSSEF KARWASHAN/AFP/Getty Images)
Tornando alla domanda iniziale, si può dire che Assad stia vincendo la guerra in Siria? Per dare una risposta sensata bisognerebbe capire anzitutto cosa significa oggi vincere la guerra in Siria. Nel territorio siriano non si sta combattendo una sola guerra e non ci sono solo due schieramenti. Nei fatti la guerra del regime è principalmente quella combattuta contro i ribelli, e da questo fronte forse qualche buona notizia per Assad c’è. Forse, perché dopo l’elezione di Trump a presidente, i ribelli siriani hanno chiesto all’amministrazione statunitense cosa ne sarà del loro futuro: nonostante gli sforzi degli Stati Uniti siano concentrati principalmente nella guerra contro lo Stato Islamico, da molto tempo la CIA fornisce armi a un numero ristretto di ribelli che combatte contro Assad. Il programma continuerà fino a fine anno, ha scritto Reuters citando fonti dell’amministrazione statunitense, ma quello che verrà dopo l’insediamento del nuovo governo a Washington non si sa ancora. Se anche Trump decidesse di cancellare il programma, potrebbe non essere necessariamente una brutta notizia per i ribelli, che a quel punto potrebbero chiedere aiuto ad altri stati del Medio Oriente interessati a destituire Assad ma finora frenati dal fornire armi ai ribelli per il veto americano, come l’Arabia Saudita. Tra le nuove armi date ai ribelli potrebbero esserci anche i missili-antiaereo, ai quali Obama si è sempre opposto. È quindi difficile fare previsioni certe sulla possibile vittoria di Assad.
Se si considera la guerra in Siria come la totalità delle guerre in Siria, la situazione sembra molto più incerta. A parole Assad ha promesso di riportare tutto il territorio siriano sotto il suo controllo, che vorrebbe dire per esempio conquistare anche il nord, dove i curdi sono ormai una presenza stabile; e allo stesso tempo riconquistare i territori ancora sotto il controllo dello Stato Islamico, oppure riprendersi quelli che i ribelli sottrarranno allo Stato Islamico. Anne Bernard ha raccontato come Assad abbia in mente un progetto di lungo periodo per la Siria, parlando dell’inizio di una nuova era di apertura e dialogo: «Ha parlato di modernizzare la mentalità dei siriani alla fine della guerra, che è convinto di vincere». Tutte prospettive che, ad oggi, sembrano molto improbabili.