Il tribunale di Milano ha rigettato una richiesta di stepchild adoption
Due donne unite civilmente avevano chiesto di poter adottare le rispettive figlie, avute con la fecondazione assistita dal seme dello stesso donatore
Il tribunale dei minorenni di Milano ha rigettato il ricorso di due donne unite civilmente che avevano chiesto di poter adottare l’una la figlia dell’altra, entrambe avute grazie alla fecondazione assistita con il seme dello stesso donatore. La notizia è stata data da Repubblica che ha raccontato la storia delle due donne, Alba e Bice, che vivono insieme dal 2005 e sono iscritte nel registro delle unioni civili: nel 2010 è nata la prima bambina, partorita da Alba, e poi la seconda, avuta invece da Bice. Lo scorso aprile Alba ha chiesto di poter adottare la figlia di Bice, e viceversa. In questo modo le due bambine sarebbero diventate sorelle e dunque non separabili in caso di decesso delle madri o altri gravi problemi, oltre che con gli stessi diritti, per legge, nell’eventualità di dover ricevere un’eredità dalle madri.
I quattro giudici del tribunale dei minorenni però hanno espresso un parere contrario basandosi sull’interpretazione delle due forme di adozione previste dalla legge italiana. La prima – detta adozione legittimante – è quella che riguarda i «minori dichiarati in stato di adottabilità», cioè, secondo quanto dice l’articolo 8 della legge 184 del 4 maggio 1983, quelli «di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio». La seconda forma di adozione è quella prevista in alcuni casi particolari, elencati nell’articolo 44 della stessa legge, tra cui quella per cui un minore può essere adottato da una persona nel caso in cui «sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge».
La sentenza dei giudici dice che dato che «non può riconoscersi alcuno stato di abbandono materiale o morale delle minori, che anzi godono certamente (…) di particolare attenzione da parte sia delle madri biologiche che delle rispettive compagne», permettere ad Alba e Bice di adottare le rispettive figlie andrebbe contro le leggi attuali. Tra queste la legge 76 del 20 maggio 2016, cioè la legge Cirinnà sulle unioni civili, in cui all’articolo 20 si legge: «Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti».
Alcuni giudici in passato hanno però interpretato diversamente questa parte della legge Cirinnà, così come le norme sull’adozione. Ci sono stati più di dieci casi che di fatto fanno sì che in Italia esista la cosiddetta stepchild adoption per via giudiziaria. Alcuni di questi casi sono precedenti alla legge sulle unioni civili: sono stati citati nella sentenza del tribunale dei minorenni di Milano che però dice anche che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo «ha sempre negato l’esistenza di un diritto ad adottare» e ha detto più volte che «spetta allo Stato regolare l’adozione», e non ai tribunali. Nel 2013, però, la stessa Corte di Strasburgo, in riferimento a un caso austriaco, aveva stabilito che anche nelle coppie omosessuali, e non solo in quelle eterosessuali non sposate, i partner dovessero avere il diritto ad adottare i figli dei compagni.
Uno dei casi più recenti in cui un tribunale ha permesso a persone omosessuali di adottare i figli nati all’interno delle proprie coppie è stato a fine maggio a Torino: la Corte di appello della città ha permesso a due donne – Silvia e Daniela – sposatesi in Danimarca nel 2014, di adottare le rispettive figlie. In quel caso i giudici avevano interpretato l’articolo 20 della legge Cirinnà come una norma che dà ai giudici la libertà di consentire la stepchild adoption quando lo ritengono opportuno, dato che non esiste una legge apposita che la permetta o la vieti. La Corte di appello aveva deciso di riconoscere «una situazione di fatto», applicando l’articolo 44 della legge 184 del 4 maggio 1983 nelle parti in cui non si parla di coppie coniugate. Le figlie di Silvia e Daniela però non hanno lo stesso cognome e non sono considerate sorelle per legge.
In un altro caso è stata la Corte suprema di cassazione – il più alto tribunale italiano insieme alla Corte costituzionale – a stabilire che una donna potesse adottare la figlia di 6 anni della compagna. È successo lo scorso giugno: la sezione civile della Corte di cassazione ha confermato una sentenza della Corte di appello di Roma a cui la procura generale si era opposta.
Proprio in virtù della sentenza della Corte di cassazione, l’associazione dei genitori omosessuali Famiglie Arcobaleno si è lamentata della decisione del tribunale dei minorenni di Milano: «La pronuncia della Cassazione – pur non costituendo un limite invalicabile – continua ad avere un forte valore di orientamento nella attività decisionale dei singoli giudici, che auspichiamo conformeranno – nella maggioranza dei casi – tale interpretazione. E, tuttavia, la decisione di Milano di cui oggi abbiamo notizia è un grave precedente per le molte altre famiglie lombarde, così come orientamenti negativi stanno affiorando anche in altre città».